Cassazione 3

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

SENTENZA 4 dicembre 2014, n. 25674

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 16.11.2010 la Corte di appello di Ancona rigettava l’appello proposto da S.L. avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Ancona che aveva rigettato la domanda della detta S. diretta all’annullamento del licenziamento per giusta causa intimatole dalla datrice di lavoro Coop. Adriatica (già SAGECO spa), con le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all’art. 18 L. n. 300/0. La lavoratrice, addetta alla cassa di un supermercato, deduceva l’intempestività dell’addebito disciplinare (mancata registrazione della vendita di alcuni prodotti ed appropriazione delle somme relative comunque incassate in due ipotesi a distanza di due giorni), il controllo (illecito) occulto operato sulla sua attività di cassiera da parte di una agenzia investigativa, la sproporzione della sanzione.
La Corte di appello richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo la quale sono legittimi e non violano lo Statuto dei lavoratori i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa se diretti non a verificare il mero eventuale inadempimento contrattuale del lavoratore, ma illeciti riguardanti il patrimonio aziendale. Circa la pretesa intempestività della contestazione la stessa era stata – secondo la Corte – tempestiva in quanto presupponeva comunque una verifica non superficiale dei fatti: la lavoratrice si era peraltro giustificata con allegazioni specifiche (non aver mai visto i prodotti menzionati alla cassa) e quindi si era dimostrata in grado di difendersi. La contestazione era, peraltro, specifica anche se non era stata indicata la marca dello shampoo acquistato. La sanzione non era sproporzionata tenuti presenti le specifiche mansioni svolte dalla lavoratrice, che si era trattato di appropriazione di somme e che il comportamento era stato reiterato in sole 48 ore. La prova era sufficiente in quanto le relazioni sugli episodi erano state confermate ed era emerso indubitabilmente che il 7 ed il 9 ottobre non vi erano state eccedenze di cassa e non erano stati rilasciati due scontrini per due articoli come riferito dai due testi addetti al controllo; quindi la lavoratrice si era appropriata delle somme relative a prodotti in questione. La prassi di tolleranza aziendale riguardava i casi di discordanza contabile non quelli di appropriazione.
Per la cassazione di tale decisone propone ricorso la S. con tre motivi. Resiste controparte con controricorso, corredata da memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 1175, 1176, 2086, 2104 e 2106 c.c., alla legge n. 300/70, artt. 2 e 3, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare ai presupposti ed ai requisiti del controllo da parte del datore di lavoro.

Con il secondo motivo si allega la violazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 1175, 1176 c.c.; nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare in punto di non tempestività della contestazione dell’addebito.

Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in riferimento all’art. 2119 c.c.; all’art. 7 L. n. 300/70, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio motivazione, in particolare in punto di proporzionalità tra fatto contestato e sanzione inflitta e di sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Il primo motivo è infondato. La Corte di appello ha già richiamato il consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale sono leciti i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa in ordine agli illeciti del lavoratore che non riguardino il mero inadempimento della prestazione, ma incidano sul patrimonio aziendale (è stata richiamata in particolare la sentenza n. 18821/2008, resa in una fattispecie analoga). Recentemente questa Corte ha ribadito il principio con la decisione n. 4984/2014 affermando che va condivisa “la giurisprudenza di legittimità in ordine alla portata delle disposizioni (artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970),che delimitano – a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali – la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) -, ma non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari., giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (cfr., in tali termini, Cass. 7 giugno 2003, n. 9167). Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 10 luglio 2009 n. 16196). La sentenza impugnata è pertanto perfettamente coerente con l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità posto che si è trattato di controlli diretti a verificare eventuali sottrazioni di cassa e quindi a salvaguardare il patrimonio aziendale.

Infondato appare il secondo motivo. La contestazione è avvenuto a brevissima distanza temporale dai fatti, appena dieci giorni dall’ultimo episodio, un periodo di tempo minimo per effettuare i doverosi controlli per procedere ad una contestazione fondata su valide ragioni. La tesi di parte ricorrente per cui, essendo i Rapporti dell’Agenzia investigativa pervenuti pur essendo stati inviati per fax, per cui si doveva procedere immediatamente a formulare accuse disciplinari, non può essere accolta in quanto gravava sul datore di lavoro l’onere i procedere comunque ad una verifica anche di natura contabile sulle casse ove era stata addetta la lavoratrice, accertamento che è stato svolto, come detto, in tempi rapidissimi. L Corte di appello ha correttamente anche osservato che la lavoratrice si era comunque difesa nel merito delle contestazioni.

Infondato è anche il terzo motivo. La Corte territoriale ha ricordato che era emersa la prova dell’avvenuta sottrazione delle somme non contabilizzate, che la sottrazione era stata reiterata a distanza di sole 48 ore, che la lavoratrice svolgeva funzioni di particolare delicatezza responsabilità in quanto era addetta alla cassa. Pertanto la motivazione in ordine alla mancanza di sproporzione tra sanzione irrogata e fatti contestati appare congrua logicamente coerente in quanto tali elementi comprovano adeguatamente il venir meno del legame fiduciario. Le censure in realtà sono di merito e diretta ad una “rivalutazione del fatto”, come tale inammissibile in questa sede. La circostanza della mancanza di preceden­ti disciplinari è elemento palesemente inidoneo di per sé a dimostrare il requisito della sproporzione laddove, come nel caso in esame, emergano circostanze che attestano l’impossibilità del datore di lavoro di confidare sull’affidabilità e sulla lealtà del dipendente tenuto conto anche della mansioni svolte.

Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso. condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 3.000,00 per compensi, oltre il 15% di spese generali.

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