Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 30 gennaio 2017, n. 2239

Ai fini della violazione dell’obbligo di non concorrenza non è necessario acquisire la prova di comportamenti illeciti del dipendente, né tanto meno di un tentativo di sviamento della clientela, bastando a integrare la violazione dell’obbligo di fedeltà la mera attività del lavoratore di trattazione di affari in concorrenza, per conto proprio o di una impresa terza. L’azione di responsabilità fondata sulla violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2015 del Cc ha infatti natura autonoma rispetto all’azione per concorrenza sleale; la prima ha carattere contrattuale e oggetto ampio, abbracciando ogni attività concorrenziale e non soltanto quelle costituenti illecito aquiliano ai sensi dell’articolo 2598 del Cc; la seconda configura un illecito extracontrattuale tipizzato, che può concorrere con la prima, ma non condizionarne la sussistenza

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 30 gennaio 2017, n. 2239

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. GHINOY Paola – Consigliere

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 30030/2011 proposto da:

(OMISSIS) S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 49/2011 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 28/04/2011 r.g.n. 200/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Perugia del 31.10.2008 la societa’ (OMISSIS) srl (in prosieguo, per brevita’: (OMISSIS)) proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo notificato ad istanza di (OMISSIS), gia’ dipendente della societa’, per il pagamento delle competenze di fine rapporto, deducendo la assenza della prova scritta e la inesistenza del credito.

Esponeva che la ingiunzione era stata emessa sulla base di una busta paga pari a zero; il credito per le competenze di fine rapporto era interamente assorbito dai danni causati dal dipendente a seguito dello svolgimento di una illegittima attivita’ di concorrenza (essendo egli titolare di una struttura ricettiva – “(OMISSIS)” – nonche’ collaboratore di altre strutture concorrenziali) per la quale egli era stato licenziato per giusta causa in data 31.7.2007.

Il Giudice del Lavoro, con sentenza del 12.3.2010, rigettava la opposizione.

La Corte d’appello di Perugia, con sentenza del 26.1-28.4.2011 (nr. 49/2011), rigettava l’appello della societa’.

La Corte territoriale osservava che correttamente il Tribunale aveva ritenuto che la busta paga emessa dalla societa’ aveva natura confessoria per la parte relativa alla esistenza ed entita’ delle competenze di fine rapporto maturate dal lavoratore; la pretesa della societa’ al risarcimento dei danni asseritamente subiti per effetto della condotta infedele del dipendente, invece, era priva di prova e, pertanto, non era opponibile in compensazione.

La societa’ appellante aveva dedotto che nella ipotesi di svolgimento di una attivita’ in concorrenza era sufficiente il mero pericolo di un danno, per il quale aveva richiesto anche una liquidazione equitativa; tale affermazione, in se’ corretta, presupponeva, comunque, la acquisizione della prova della condotta illecita del (OMISSIS) ovvero del compimento di atti di infedelta’ configuranti concorrenza sleale.

I capitoli della prova per testi proposti dalla societa’ appellante non erano rilevanti poiche’ non davano conto di atteggiamenti surrettizi del (OMISSIS) ne’ di propositi o tentativi di sviamento di clientela.

La circostanza che il dipendente intrattenesse rapporti con altre realta’ alberghiere non comportava necessariamente che egli potesse (o fosse intenzionato a) compiere atti di sviamento di clientela in danno della societa’ (OMISSIS), ben potendo tali attivita’ risolversi, piuttosto, in una collaborazione tra i vari impianti ricettivi con reciproci vantaggi.

Per la Cassazione della sentenza ricorre la societa’ articolando sei motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso (OMISSIS).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la societa’ ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’articolo 633 c.p.c., e dell’articolo 2734 c.c., nonche’ insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Ha esposto che la busta paga posta a fondamento del decreto ingiuntivo recava un saldo pari a zero sicche’ non conteneva alcun riconoscimento di debito.

Sul punto non poteva condividersi la statuizione della Corte di merito secondo cui l’importo indicato a debito della societa’ era oggetto di confessione mentre l’importo del controcredito per danni era una mera asserzione: la busta paga prodotta dalla controparte quale prova del credito non poteva essere frazionata, in conformita’ all’inveterato principio di inscindibilita’ della confessione.

Erano dunque violati l’articolo 633 cpc., perche’ la busta paga non costituiva prova scritta del credito e l’articolo 2734 c.c., quanto al valore delle dichiarazioni aggiunte alla confessione.

Sotto il profilo di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5, la societa’ ha dedotto la contraddittorieta’ della motivazione, giacche’ la sentenza aveva confuso il piano della assenza delle condizioni per il ricorso alla procedura monitoria, per carenza della prova scritta del credito, con quello della prova dei danni.

Il motivo e’ fondato, nei sensi di cui segue.

La giurisprudenza di questa Corte ha gia’ chiarito che nei confronti del datore di lavoro le buste paga costituiscono piena prova dei dati in esse indicati, in ragione della loro specifica normativa (L. n. 4 del 1953), prevedente la obbligatorieta’ del loro contenuto e la corrispondenza di esso alle registrazioni eseguite (articolo 2) (Cass. 20/01/2016, n. 991; 17 settembre 2012, n. 15523; 21 gennaio 1989, n. 364; n. 5807/1981; n. 1074/1986).

Dalla attribuzione ai prospetti paga della natura di confessione stragiudiziale deriva, in applicazione degli articoli 2734 e 2735 c.c., che la piena efficacia di prova legale e’ circoscritta ai soli casi in cui la dichiarazione, quale riconoscimento puro e semplice della verita’ di fatti sfavorevoli alla parte dichiarante, assume carattere di univocita’ ed incontrovertibilita’, vincolante per il giudice.

Diversamente, in mancanza di siffatte connotazioni, il giudice deve apprezzare liberamente la dichiarazione, nel quadro della valutazione degli altri fatti e circostanze tendenti ad infirmare, modificare od estinguere la efficacia dell’evento confessato (Cass. 2 settembre 2003, n. 12769; Cass. 17 marzo 1994 n. 2574, in riferimento alla confessione giudiziale e Cass. 27 settembre 2000 n. 12803).

La busta paga, dunque, ha valore di piena prova circa le indicazioni in essa contenute solo quando sia chiara e non contraddittoria; diversamente, ove in essa risulti la indicazione di altri fatti tendenti ad estinguere gli effetti dei credito del lavoratore riconosciuto nel documento (nella specie la indicazione di un controcredito del datore di lavoro per risarcimento del danno), essa e’ una fonte di prova soggetta alla libera valutazione del giudice, che dovra’ estendersi al complesso dei fatti esposti nel documento.

La Corte di merito nel frazionare il contenuto della confessione, riconoscendole il valore di prova legale per la (sola) parte relativa al credito del lavoratore ha violato la norma dell’articolo 2734 c.c., richiamata dall’articolo 2735 c.c., nella parte in cui prescrive che se l’altra parte contesta la verita’ dei fatti o circostanze aggiunte alla confessione e’ rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria delle dichiarazioni.

2. Con il secondo motivo la societa’ ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’articolo 2105 c.c., nonche’ – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 – insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La censura afferisce alla statuizione di rigetto della domanda di risarcimento del danno derivato dalla violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di non-concorrenza.

La societa’ ha esposto che il (OMISSIS) in costanza del rapporto di lavoro presso la struttura ricettiva della societa’ in localita’ (OMISSIS), svolgeva funzioni di direttore presso il (OMISSIS) ed attivita’ di selezione del personale per l'(OMISSIS); curava poi rapporti di carattere commerciale in favore del relais dell'(OMISSIS) e si era creato biglietti da visita come dipendente della societa’ (OMISSIS) facendovi stampare anche la pubblicita’ della struttura ricettiva da lui gestita – “(OMISSIS)” – in concorrenza con il datore di lavoro.

Mentre il (OMISSIS) era in ferie erano pervenute inoltre al suo interno svariate telefonate relative ad intermediazioni di carattere immobiliare.

Il (OMISSIS) in sede disciplinare aveva sostanzialmente confermato i fatti addebitatigli, pur cercando di giustificarli.

Dopo la cessazione del rapporto di lavoro la societa’ aveva altresi’ accertato che egli svolgeva anche le mansioni di direttore dell'(OMISSIS).

Era dunque evidente la violazione dell’obbligo di non concorrenza di cui all’articolo 2105 c.c..

Nel giudizio di merito essa aveva chiesto di provare tali fatti.

Erroneamente la sentenza impugnata affermava che il dipendente avrebbe potuto svolgere in costanza di rapporto di lavoro attivita’ in concorrenza con il datore di lavoro, ravvisando, anzi, la possibilita’ che da tali attivita’ concorrenziali derivasse un reciproco sviluppo commerciale.

La violazione di legge determinava la grave insufficienza e la contraddittorieta’ della motivazione.

3. Con il terzo motivo la societa’ ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’articolo 2105 cc. nonche’ – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 – insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Ha censurato la sentenza nella parte in cui affermava che al fine di ottenere il riconoscimento dei danni sarebbe stata necessaria la allegazione di atti di infedelta’ determinanti concorrenza sleale nonche’ laddove statuiva che la circostanza che il dipendente intrattenesse rapporti con altre realta’ alberghiere non comportava il compimento di atti di sviamento di clientela “ben potendo tale attivita’ risolversi,invece, in una proficua collaborazione con reciproci vantaggi dei vari impianti ricettivi”.

Ha dedotto che il fatto stesso che il dipendente svolgesse attivita’ in concorrenza costituiva inadempimento al divieto dell’articolo 2105 c.c., e titolo per il risarcimento del danno; la possibilita’, poi, che il datore di lavoro traesse vantaggio dalla attivita’ concorrenziale, neppure sostenuta dal dipendente e comunque priva di ogni riscontro negli atti, era del tutto illogica, dovendo piuttosto presumersi il contrario.

Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto sovrapponibili.

Gli stessi vanno in via preliminare correttamente qualificati ai sensi del numero 3 dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, giacche’ non attengono all’accertamento dei fatti materiali compiuto dal giudice del merito (censurabile sotto il profilo del vizio di motivazione) ma alle affermazioni della sentenza in punto di interpretazione ed applicazione delle norme di diritto disciplinanti i fatti controversi.

I motivi sono fondati.

La norma dell’articolo 2105 c.c., pone uno specifico obbligo del prestatore di lavoro di non trattare affari ne’ per conto proprio ne’ per conto di terzi in concorrenza con l’imprenditore.

La violazione dell’obbligo costituisce dunque titolo di responsabilita’ contrattuale per gli eventuali danni che ne siano derivati al datore di lavoro; non appare corretta in punto di diritto, pertanto, la affermazione della Corte di merito secondo cui per fondare la responsabilita’ del dipendente sarebbe stata necessaria la prova “di comportamenti illeciti da parte del (OMISSIS), vale a dire di atti di infedelta’ sfocianti in concorrenza sleale”.

La azione di responsabilita’ fondata sulla violazione dell’obbligo ex articolo 2105 cc. ha infatti natura autonoma rispetto alla azione per concorrenza sleale; la prima ha carattere contrattuale ed oggetto ampio, abbracciando ogni attivita’ concorrenziale e non soltanto quelle costituenti illecito aquiliano ex articolo 2598 c.c..

La azione di concorrenza sleale ex articolo 2598 c.c., configurante un illecito extracontrattuale tipizzato, e’ azione diversa, che potrebbe concorrere con l’illecito contrattuale ex articolo 2105 cc. ma non certo condizionarne la sussistenza.

Pertanto ai fini della violazione dell’obbligo di non concorrenza non era necessario acquisire la prova di “comportamenti illeciti” ne’ tanto meno di un tentativo di sviamento della clientela, come affermato dalla Corte di merito, bastando ad integrare la violazione dell’obbligo di fedelta’ ex articolo 2105 c.c., la mera attivita’ del dipendente di trattazione di affari in concorrenza, per conto proprio o di una impresa terza.

In termini, Cassazione civile, sez. lav., 05/04/1990, n. 2822: “Il dovere di fedelta’ sancito dall’articolo 2105 c.c. si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attivita’ contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenziale lesivita’: rientra, pertanto, nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che rilevi la idoneita’ o meno di tale comportamento ai fini della sussistenza della concorrenza sleale a termini degli articolo 2592, 2593 e 2598 c.c.” Conf: Cassazione civile, sez. lav., 18/01/1997, n. 512; Cassazione civile sez. lav. 26 agosto 2003 n. 12489; Cassazione civile sez. lav. 02 febbraio 2004 n. 1878; Cassazione civile sez. lav. 18 luglio 2006 n. 16377; Cassazione civile sez. lav. 28 aprile 2009 n. 9925.

Restano assorbiti il quarto motivo (con il quale la societa’ ha denunziato violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 cc nonche’ vizio di motivazione, per avere la Corte di merito asserito la liceita’ della condotta del lavoratore senza neppure ammettere le prove da questi richieste) il quinto motivo (con il quale la societa’ ha dedotto – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 – vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per la mancata ammissione delle prove da essa articolate per dimostrare il danno subito), il sesto motivo (con il quale la societa’ ha lamentato violazione e falsa applicazione dell’articolo 1226 c.c., e dell’articolo 432 c.p.c., nonche’ vizio di motivazione sempre sotto il profilo della mancata ammissione delle prove).

La sentenza impugnata deve essere conclusivamente cassata in accoglimento del primo, del secondo e del terzo motivo del ricorso e gli atti rinviati ad altro giudice, che si individua nella Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione, perche’ provveda alla applicazione dei principi di diritto in questa sede indicati ed all’accertamento dei fatti rilevanti.

Il giudice del rinvio provvedera’ anche alla disciplina delle spese del presente grado.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia – anche per le spese – alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.

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