massioterapista

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 28 febbraio 2014 n. 4866

Svolgimento del processo

A.R. ha impugnato il licenziamento intimatogli con lettera del 24.2.2004 dalla S.r.l. Centro Agro Aversano di FKT, presso cui aveva lavorato con mansioni di massofisioterapista, motivato con la mancata produzione di documentazione relativa al possesso di un idoneo titolo per lo svolgimento della prestazione richiesta. Ha chiesto la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno.
La domanda è stata respinta dal Tribunale di Napoli, con decisione che la Corte di Appello ha confermato con la sentenza oggi impugnata. Il giudice dell’appello ha richiamato la normativa relativa all’esercizio della professione di fisioterapista, con la previsione nel D.M. del 27 luglio 2000 (emesso in attuazione dell’art.4 della legge n. 42 del 1999) della equipollenza al diploma universitario del titolo conseguente al corso triennale di formazione specifica di cui alla legge n.403/1971. Il mancato possesso da parte del sig. A. del richiesto titolo di studio, necessario per effetto della nuova normativa, rendeva il lavoratore permanentemente inidoneo alla esecuzione della prestazione lavorativa.
La società convenuta aveva d’altro canto dimostrato l’impossibilità di assegnare al dipendente una diversa posizione lavorativa, in relazione alla riduzione delle prestazioni sanitarie erogabili e del personale necessario da parte della ASL competente.
Avverso tale sentenza A. propone ricorso per cassazione con quattro motivi. La società resiste con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione, in relazione agli artt. 1 e 2 della legge n.604/1996, del principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento. Lo stesso è stato giustificato dalla datrice di lavoro con la dedotta mancanza dei requisiti necessari per l’espletamento delle mansioni di massofisioterapista; la Corte territoriale avrebbe invece posto a fondamento della decisione altre circostanze relative alla riduzione di personale dipendente dell’azienda.
Il motivo è palesemente infondato, perché le circostanze cui si fa riferimento, relative alla situazione organizzativa dell’azienda, sono state considerate dalla Corte territoriale solo ai fini dell’esame della questione della impossibilità di ricollocazione nell’azienda, e non sotto il profilo della mancanza dei requisiti soggettivi posta a giustificazione dell’atto di recesso.
2. Con il secondo motivo, denunciandosi la violazione di plurime norme di diritto, si sostiene che la nuova normativa relativa all’esercizio della professione di fisioterapista, richiamata nella sentenza appellata, riguarda solo l’acquisizione di titoli da parte di nuovi diplomando e non può incidere, in base ad una regola di irretroattività, sulle posizioni lavorative preesistenti. Posto che i corsi per massofisioterapisti previsti dall’art. 1 della legge n.403/1971 non erano stati soppressi con le modifiche introdotte dal D.L.G.S. 517/1993, deduce che i relativi titoli non sono stati inseriti nella disciplina del citato D.M. 27 luglio 2000, e che quindi il massofisioterapista con il titolo conseguito in base al corso biennale poteva accedere all’equipollenza.
Il motivo è infondato. La Corte ritiene di dover dare continuità all’orientamento già espresso in controversie del tutto analoghe con le sentenze 22 maggio 2012, n.8050, 28 maggio 2013 n. 13239, 2 ottobre 2013 n. 25073, che hanno condiviso le considerazioni espresse in proposito dal Consiglio di Stato, Sez. 4, con la sentenza n.5225 del 2007. In tale decisione si è esclusa l’illegittimità del D.M. 27 luglio 2000 il quale annovera fra i titoli equipollenti al diploma universitario di fisioterapista di cui al D.M. n. 741 del 1992 il diploma di massofisioterapista, solo se conseguito all’esito di un corso triennale, rilevandosi che una corretta interpretazione della L. n. 42 del 1999, art. 4, commi 1 e 2, di cui il D.M. 27 luglio 2000 costituisce attuazione, porta a disattendere una impostazione secondo cui tutti i titoli preesistenti devono essere riconosciuti come equipollenti ai diplomi universitari di nuova istituzione.
Nell’esaminare, infatti, la disciplina prevista dalla citata L. n. 42 del 1999, la quale ha disciplinato in modo innovativo e nei confronti di tutte le professioni sanitarie (già definite come “ausiliarie”) il passaggio dal vecchio ordinamento al nuovo regime, fondato sul previo conseguimento del diploma universitario, il Consiglio di Stato ha osservato che l’equipollenza può operare in via automatica solo se il relativo diploma è stato conseguito all’esito di un corso già regolamentato a livello nazionale, e cioè solo in presenza di moduli formativi la cui uniformità ed equivalenza fosse già stata riconosciuta nel regime pregresso.
Nel caso dei massofisioterapisti la L. n. 403 del 1971, istitutiva di tale professione sanitaria ausiliaria, non dettava norme sul relativo percorso formativo, sicché lo stesso è stato disciplinato in modo difforme sul territorio nazionale, con la conseguenza che i titoli rilasciati all’esito dei corsi in questione non potevano, in realtà, fruire di alcun riconoscimento automatico, con piena equiparazione al titolo di fisioterapista acquisito nel vecchio ordinamento sulla base di percorsi didattici i cui contenuti erano stati precisamente normati.
Il D.M. 27 luglio 2000, è stato, quindi, ritenuto esente da profili di illegittimità, “prendendo lo stesso atto di una situazione di base contrassegnata dall’evidente disparità dei vari percorsi formativi, selezionando all’interno di essi quelli ritenuti in grado di fornire all’operatore una formazione di livello adeguato all’esercizio di una attività professionale altrimenti riservata a soggetti che abbiano conseguito il diploma di scuola media superiore ed abbiano positivamente frequentato un corso di laurea triennale”.
Nel contesto normativo evidenziato, del tutto irrilevante appare, quindi, il riferimento al principio dell’irretroattività della legge, dal momento che scopo della normativa in esame è stato proprio quello di regolamentare il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento delle professioni sanitarie, stabilendo criteri e modalità per garantire, in un settore particolarmente sensibile e delicato, l’equivalenza dei nuovi titoli professionali a quelli preesistenti, e, quindi, di omogenei livelli professionali, anche attraverso la partecipazione ad appositi corsi di riqualificazione (v. L. n. 42 del 1999, art. 4, comma 2).
3. Con il terzo motivo si censurano – mediante la denuncia di violazione dell’art. 1464 cod.civ. – le affermazioni della sentenza impugnata in ordine alla sopravvenuta impossibilità della prestazione, affermandosi che l’onere della prova in ordine alle ragioni tecnico produttive “che rendevano impossibile di attendere la rimozione del temporaneo impedimento” della prestazione lavorativa spettava alla società datrice di lavoro; che tali ragioni non potevano essere ravvisate nelle circostanza allegate relative a provvedimenti della ASL.
La censura non merita accoglimento, perché la decisione impugnata si fonda sull’accertamento del venir meno di requisiti soggettivi della prestazione, tale da precludere definitivamente lo svolgimento dell’attività professionale convenuta, indipendentemente, come già osservato a proposito del primo motivo, dalla valutazione della situazione organizzativa dell’azienda.
4. L’apprezzamento svolto sul punto dalla Corte territoriale sfugge poi alle critiche mosse con il quarto motivo, con cui si sostiene, mediante la denuncia dei vizi di violazione degli artt. 3 e 5 legge n. 604/1996, nonché difetto di motivazione, la violazione dell'”obbligo di repechage”, in relazione alla mancata prova della impossibilità di una diversa collocazione del dipendente in azienda.
Le censure investono un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, in ordine a tale impossibilità, che con la Corte territoriale ha compiuto con congrua motivazione, in relazione alla rilevata riduzione al 50% della capacità operativa dell’azienda e al conseguente ridimensionamento del personale necessario.
Il ricorso deve essere quindi respinto. Si ravvisano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente giudizio, atteso che solo recentemente si è formato un orientamento della giurisprudenza di legittimità su questa peculiare fattispecie.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

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