Cassazione 3

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

sentenza 25 settembre 2014, n. 20231

 

Svolgimento del processo

Con la sentenza non definitiva n. 829 del 2010 la Corte d’Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo, accertava che F.F. aveva svolto attività di lavoro subordinato per 40 ore settimanali in favore di C.F. nel periodo dal 2/5/1992 al 1/9/1999; con la successiva sentenza definitiva n. 548 del 2011, all’esito della disposta consulenza tecnica contabile, condannava C.F. per il titolo accertato con la sentenza non definitiva al pagamento in favore del F. della somma di e 38.779,94 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Nella motivazione della Corte – incontestato essendo che il F., dopo avere conseguito il diploma di geometra, aveva frequentato continuativamente lo studio di architettura di C. F. per il periodo dal 5 febbraio 1991 ai 1 settembre 1999 – l’ esito dell’istruttoria testimoniale aveva consentito di appurare che nella fase iniziale del rapporto tale frequentazione era stata giustificata dal praticantato necessario per conseguire l’abilitazione come geometra (poi effettivamente conseguita nel 1996). Per il periodo successivo alla primavera dei 1992, epoca dalla quale il rapporto di lavoro era stato regolarizzato con contratto di lavoro subordinato part-time dapprima per cinque ore al giorno, successivamente ampliate dal 1.10.1995 a sei ed infine dal 1.5.1996 a sette ore giornaliere, ad avviso della Corte il F. aveva lavorato a tempo pieno, svolgendo in qualità di lavoratore subordinato mansioni inerenti le attività svolte dallo studio professionale, seguendo le direttive del titolare, con una certa autonomia in alcune delle pratiche affidategli. Né poteva ritenersi che vi fosse stata un’attività distinta ed effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, in assenza del necessario insegnamento, di una reale evoluzione delle mansioni e dei fatto che risultava documentata la fine del periodo di praticantato nei novembre del 1992.

Per la cassazione di entrambe le sentenze C.F. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, illustrato anche con memoria ex art. 378 e.p.c.; F.F. è rimasto intimato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso per cassazione è affidato ad un unico motivo, con il quale C.F. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. nella quale sarebbe incorsa la Corte d’Appello non considerando che la domanda proposta in causa aveva ad oggetto l’estensione quantitativa del rapporto di lavoro subordinato a scapito di quello di praticantato e dunque, nella sostanza, una novazione dell’accordo ratificato nel contratto part-time del 2 maggio 1992, che presupponeva la pacifica coesistenza dei due rapporti. Ciò comportava che sarebbe stato onere del ricorrente dare specifica prova dell’avvenuta novazione e dunque del preteso assorbimento del rapporto di praticantato in quello di lavoro subordinato, sicché potesse ritenersi che tutta l’attività da lui svolta fosse ascrivibile a questa seconda forma contrattuale.

2. Il motivo non è fondato.

Il Giudice di merito ha dato ampio riscontro delle circostanze di fatto emerse dall’istruttoria testimoniale, che manifestavano come il rapporto realizzatosi a far data dal 2.5.1992 (successivamente alla formalizzazione con contratto part-time) e per tutto l’orario di lavoro avesse presentato le caratteristiche della subordinazione, in considerazione delle mansioni svolte, attinenti le attività dello studio professionale, e del fatto che il ricorrente seguisse le direttive del titolare. Ha poi escluso che nell’ambito del complessivo orario di lavoro una parte della prestazione fosse effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, in assenza del necessario insegnamento, di una reale evoluzione delle mansioni e del fatto che risultava documentata la fine del periodo di praticantato nel novembre del 1992. In tal senso, quindi, ha valorizzato il principio di effettività cui occorre avere riguardo nell’individuazione della natura del rapporto, che importa che il nomen iuris utilizzato dalle parti, così come le modalità con le quali il rapporto è stato formalizzato, costituiscono solo uno degli elementi ai quali occorre avere riguardo, nella valutazione complessiva della situazione contestuale e successiva alla stipulazione del contratto finalizzata ad accertare l’oggetto effettivo della prestazione convenuta.

Deve in proposito ribadirsi quanto già affermato tra le altre da Cass. Sez. L, Sentenza n. 9264 del 18/04/2007, ovvero che sia allorquando le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamene dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve attribuire valore prevalente al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso. Tale conclusione deriva dal principio che è stato chiamato dell`indisponibilità del tipo contrattuale”, più volte affermato dalla Corte costituzionale, ad avviso della quale “..non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento… ” e “…a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri dei rapporto subordinato” (C. Cost. n. 121 del 29 marzo 1993 e n. 115 del 31 marzo 1994).

Il fatto che il rapporto di lavoro subordinato fosse stato regolarizzato per cinque ore al giorno non escludeva pertanto di per sé la possibilità di ritenere che esso si fosse svolto con orario pieno. Né ostava che anteriormente all’inizio della prestazione di lavoro subordinato (e quindi sino al 1 maggio 1992) la frequentazione dello studio fosse stata giustificata dalla necessità di svolgere la pratica professionale per l’abilitazione di geometra (periodo di praticantato terminato peraltro nel novembre 1992), considerato che ad avviso della Corte da tale epoca, anche in considerazione delle esperienze pregresse acquisite, il rapporto tra le parti aveva assunto modalità diverse.

4. Alle considerazioni esposte segue il rigetto del ricorso; non vi è luogo a condanna del soccombente dalle spese processuali del presente giudizio di legittimità, considerata la mancanza di attività difensiva da parte dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

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