Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 24 agosto 2016, n. 17303

In caso di dimissioni o cessazione del rapporto di lavoro per risoluzione consensuale, è negata l’indennità di disoccupazione, a meno che il lavoratore non dimostri l’esistenza di cause che rendevano impossibile proseguire il rapporto. Tra queste non rientra però l’impossibilità di fare carriera

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 24 agosto 2016, n. 17303

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere
Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15802/2010 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA n. 29 presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 717/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/06/2009 R.G.N. 1414/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2016 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO

Con sentenza depositata il 4.6.2009, la Corte d’appello di Torino rigettava l’appello proposto da (OMISSIS) avverso la pronuncia con cui il giudice di prime cure gli aveva negato l’indennita’ di disoccupazione.
La Corte in particolare riteneva che, essendo esclusa la spettanza dell’indennita’ in questione nel caso di dimissioni, ad analoga soluzione dovesse pervenirsi per il caso in cui il rapporto di lavoro fosse cessato a seguito di risoluzione consensuale, tanto piu’ che nella specie non era stata provata la sussistenza di alcuna giusta causa di recesso.
Contro questa pronuncia ricorre (OMISSIS) affidandosi a due motivi. Resiste l’INPS con controricorso, illustrato da memoria.

DIRITTO

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 448 del 1998, articolo 34, comma 5, per avere la Corte di merito ritenuto che la disposizione citata, nella parte in cui prevede che il diritto all’indennita’ di disoccupazione non sorga per il caso di dimissioni, potesse applicarsi analogicamente all’ipotesi di risoluzione consensuale consacrata in una transazione.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della medesima disposizione dianzi cit., per avere la Corte territoriale ritenuto che l’impossibilita’ di progressione in carriera e di crescita professionale non costituissero giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro.
Entrambi motivi possono trattarsi congiuntamente, stante l’intima connessione delle censure svolte, e sono infondati. La L. n. 448 del 1998, articolo 34, comma 5, abrogando le previgenti disposizioni di cui al R.Decreto Legge n. 1827 del 1935, articoli 75 e 76, ha stabilito, per quanto qui interessa, che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni non da’ diritto all’indennita’ di disoccupazione ordinaria, e sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione cit., che induce a ritenere che l’esclusione dal beneficio non si estenda alle ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla esclusiva e libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilita’ del rapporto (v. in tal senso Corte cost. n. 269 del 2002), questa Corte di legittimita’ ha gia’ avuto modo di ritenere che codesta esclusione riguarda essenzialmente chi, avendo la possibilita’ di proseguire il proprio rapporto di lavoro, rinunzia al posto, ponendosi in tal caso spontaneamente nella posizione di disoccupato (cfr. Cass. n. 1590 del 2004).
Se dunque per un verso deve convenirsi con la sentenza impugnata allorche’ afferma che, ai fini in discorso, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e’ sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, nessuna differenza concettuale sussistendo fra la dichiarazione di volonta’ necessariamente recettizia con cui il lavoratore pone unilateralmente fine al rapporto di lavoro e quella destinata a confluire, in uno con la speculare dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo relativo ad un contratto di transazione, deve per altro verso escludersi che il mero condizionamento derivante dalla sussistenza di trattative volte a prevenire o por fine ad una lite possa di per se’ solo inficiare la libera determinazione del volere del lavoratore: cio’ che conta e’ la sussistenza in concreto della possibilita’ che egli prosegua il rapporto di lavoro. E se cio’ spiega in positivo il motivo per cui l’indennita’ in questione ben puo’ essere riconosciuta allorche’ risulti provato che l’adesione del lavoratore alla proposta risolutiva del rapporto, intervenuta nel corso di un processo di ristrutturazione aziendale della societa’ datrice di lavoro, fosse da ricollegarsi allo scopo di prevenire il licenziamento (come nel caso deciso da Cass. n. 1590 del 2004, cit.), induce a contrario a ritenere che, in assenza di prova in concreto di una giusta causa di dimissioni, nessun diritto al trattamento di disoccupazione possa pretendere il lavoratore che sia unilateralmente receduto dal rapporto o vi abbia comunque posto negozialmente (e dunque volontariamente) fine.
Vale piuttosto precisare che una siffatta giusta causa, contrariamente a quanto assunto da parte ricorrente, non e’ certamente ravvisabile nell’asserita impossibilita’ per il lavoratore di progredire in carriera e di crescere professionalmente in conseguenza della legittima determinazione aziendale di chiudere il reparto di cui egli era responsabile: la nozione di giusta causa, infatti, e’ da ricollegare o ad un gravissimo inadempimento (cfr. da ult. Cass. n. 25384 del 2015) ovvero ad un’altra causa oggettivamente idonea a ledere il vincolo fiduciario (v. in tal senso Cass. n. 3136 del 2015) e tanto non puo’ dirsi per la lesione delle pur legittime aspettative di progressione in carriera e di crescita professionale che un lavoratore normalmente ricollega allo svolgersi del rapporto di lavoro, trattandosi – almeno fintanto che la condotta datoriale non sconfini in una violazione dell’articolo 2103 c.c. – di aspettative di mero fatto.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimita’ seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

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