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 Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 22 gennaio 2014, n. 1312

Svolgimento del processo
La Corte di appello, giudice del lavoro, di L’Aquila, con sentenza n. 822/2010 del 25/6/2010, decidendo sull’appello proposto da C.L. nei confronti di Ci.Gi. e della Carige Assicurazioni S.p.A. (chiamata in garanzia dal Ci. ) nonché sull’appello incidentale proposto da quest’ultima società, confermava la pronuncia del Tribunale di Pescara che aveva rigettato la domanda del C. diretta ad ottenere il riconoscimento del suo diritto al pagamento della somma di Euro 1.321.183,00 a titolo di danno biologico differenziale, danno morale e danno alla vita di relazione in relazione all’infortunio sul lavoro occorsogli in data 3/12/2001, mentre si trovava alla guida di un autoarticolato, essendo addetto al trasporto di un carico di ferro diretto in una località in provincia di Arezzo, ed a seguito del quale aveva riportato lesioni gravissime. Riteneva la Corte territoriale che, conformemente a quanto sul punto deciso dal Tribunale, fosse da escludere una responsabilità civile addebitabile al Ce. sotto entrambi i profili dedotti in sede di ricorso introduttivo e cioè sotto quello della cattiva manutenzione dell’automezzo e sotto quello dell’omessa informazione all’autista delle strade da percorrere. Quanto al primo, evidenziava come la consulenza tecnica svolta in sede penale avesse escluso che il sistema frenante dell’autoarticolato, pur non ottimale, avesse un’efficienza inferiore ai limiti previsti per la revisione ed avesse altresì accertato che lo spessore dei ferodi era sufficiente a garantire un’adeguata frenatura. Quanto al secondo, riteneva che l’obbligo del datore di lavoro esercente un’impresa di autotrasporto non potesse spingersi fino a richiedergli di accertare le caratteristiche delle strade al fine di consigliare l’utilizzo di quella meno pericolosa. Evidenziava che il sinistro in questione non si sarebbe verificato se l’autista avesse operato correttamente, ossia evitando frenate ripetute ed utilizzando le marce basse adeguate, comportamento questo che aveva determinato il surriscaldamento delle parti di attrito ed una perdita di aria compressa sul circuito frenante che avevano reso lo stesso inefficiente. Per la cassazione di tale sentenza C.L. propone ricorso affidato ad un unico articolato motivo. Resiste con controricorso la Carige Assicurazioni S.p.A.. Ci.Gi. è rimasto solo intimato.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ., degli artt. 34 e 35 del d.lgs. n. 626/1994, dell’art. 1218 cod. civ. nonché contraddittorietà della motivazione”. Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto di fatto sussistente nel caso di specie una sorta di rischio elettivo, intendendosi per tale – a mente di Cass. 22 febbraio 2012, n. 2642 – quello che, estraneo e non attinente all’attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.
Ciò peraltro in contrasto con il riconoscimento da parte dell’I.N.A.I.L. dell’infortunio sul lavoro. Si duole del fatto che la Corte territoriale, pur avendo riscontrato il funzionamento del 68% dell’impianto frenante del trattore, e dunque un funzionamento non ottimale, non ha tratto da tale circostanza le dovute conseguenze. Rileva che, come evidenziato dal c.t.u., tale funzionamento non ottimale aveva comportato che il rimorchio, invece di rallentare la corsa un attimo prima del trattore, aveva esercitato su quest’ultimo una spinta, compromettendone la traiettoria. 2. Il motivo non è fondato. Si rileva innanzitutto un profilo di inammissibilità mancando una chiara indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina.
Come è noto, infatti, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione). Viceversa, l’allegazione – come prospettato da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta o meglio di una erronea valutazione dei fatti come ricostruiti, è esterna alla esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato in modo evidente, atteso che solo quest’ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (recentemente, in termini, specie in motivazione, Cass. 6 marzo 2012, n. 3455; id. 30 gennaio 2012, n. 1312; 27 settembre 2011, n. 19748; 6 agosto 2010, n. 18375, tra le tantissime).
In ogni caso, non si rilevano nella decisione impugnata errori di diritto avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione delle regole poste dall’art. 2087 cod. civ.. Come è noto, infatti, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro, seppure non debba provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall’art. 1218 cod. civ. è pur sempre onerato, in base al principio generale affermato da Cass. S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533, della prova del fatto costituente l’inadempimento e del nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno (cfr. Cass. 19 luglio 2007, n. 16003). Infatti, soltanto “una volta provato l’inadempimento consistente nell’inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza nonché la correlazione fra tale inadempimento ed il danno, la prova che tutto era stato approntato ai fini dell’osservanza del precetto dell’art. 2087 cod. civ. e che gli esiti dannosi erano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile deve essere fornita dal datore di lavoro” (v. Cass. 8 maggio 2007, n. 10441). La prova liberatoria a carico del datore di lavoro va, poi, generalmente correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle misure di sicurezza, imponendosi, di norma, allo stesso l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici i quali, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4148; id. 25 maggio 2006, n. 12445; 24 luglio 2006, n. 16881; 27 luglio 2010, n. 17547).
Nel caso in questione, il ricorrente si duole innanzitutto della ricostruzione della condotta di guida del C. come operata dalla Corte territoriale, ricostruzione che a suo dire non trovava riscontro nei fatti accertati giudizialmente. Lamenta, inoltre, che la Corte abbia considerato irrilevante un obbligo di manutenzione continuo e costante, ritenendolo circoscritto all’effettuazione delle revisioni legali ordinarie e straordinarie e che non abbia attribuito rilevanza alla mancata informazione in ordine alla sicurezza e pericolosità delle strade, evidenziando che le condizioni del mezzo avrebbero sconsigliato l’uso del veicolo in un tratto collinare caratterizzato da una serie di saliscendi come quello tra Arezzo e San Quirico d’Orcia. Quanto al primo rilievo, va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle emergenze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; id. 13 gennaio 2011, n. 313; 3 gennaio 2011, n. 37; 3 ottobre 2007, n. 20731; 21 agosto 2006, n. 18214; 16 febbraio 2006, n. 3436; 27 aprile 2005, n. 8718). Né è possibile far valere con il vizio di motivazione la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospettare un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento (così Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).
In buona sostanza, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. La valutazione, poi, delle risultanze probatorie come la scelta di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412; id. 26 febbraio 2007, n.4391; 27 luglio 2007, n. 16346). Tanto precisato, va osservato che, nella specie, le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Inoltre, contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, la Corte territoriale ha debitamente considerato tutte le circostanze emerse nell’ambito della ricostruzione fattuale dell’infortunio occorso al C. . Diverge, evidentemente, il giudizio sulla valenza delle stesse al fine di ritenere sussistente ovvero escludere la responsabilità del datore di lavoro. Invero, la Corte territoriale, con motivazione corretta sotto il profilo giuridico e congruamente articolata, ha ritenuto che non potesse configurarsi una responsabilità civile a carico del datore di lavoro sotto il duplice profilo della cattiva manutenzione dell’automezzo affidato al lavoratore e dell’omessa informazione di adeguate notizie all’autista in ordine alle strade da percorrere.
Quanto al primo aspetto ha valorizzato le circostanze, emerse dalla consulenza tecnica svolta in sede penale, che il sistema frenante dell’autoarticolato, pur non ottimale, avesse un’efficienza superiore ai limiti previsti per la revisione e che lo spessore dei ferodi fosse idoneo a garantire un’adeguata frenatura. Così ha ritenuto che l’inefficienza del sistema frenante determinatasi nel caso concreto non fosse imputabile alle condizioni del sistema stesso bensì ad una condotta di guida non appropriata, caratterizzata da frenate ripetute, dal mancato utilizzo delle marce basse e del freno motore. Quanto al secondo aspetto, ha ritenuto che l’obbligo del datore di lavoro esercente un’impresa di autotrasporto non potesse spingersi fino a richiedergli di accertare le caratteristiche delle strade al fine di consigliare l’utilizzo di quella meno pericolosa. Sotto entrambi i profili, dunque, la diligenza esigibile è stata correttamente misurata in relazione a quello che si poteva pretendere dal datore di lavoro nel caso concreto in cui l’automezzo (avente una efficienza del sistema frenante pari al 68% e, dunque, superiore ai limiti richiesti dalla normativa per la revisione degli autoveicoli) era stato affidato a chi, in ragione delle conoscenze e competenze connaturate alla qualifica di autista, avrebbe dovuto porre in essere una condotta di guida consona rispetto alla tipologia del mezzo stesso ed alle condizioni della strada da percorrere ed avrebbe altresì dovuto essere in grado di valutare autonomamente il percorso consigliabile. Le suddette considerazioni reggono alle censure del ricorrente sol che si consideri che la diligenza richiesta è, come detto, esclusivamente quella esigibile per essere l’infortunio ricollegabile ad un comportamento colpevole del datore di lavoro, alla violazione di un obbligo di sicurezza, alla mancata predisposizione di misure idonee a prevenire ragioni di danno per i propri dipendenti. Così, come non può accollarsi al datore di lavoro l’obbligo di garantire un ambiente di lavoro a “rischio zero” quando di per sé il rischio di una lavorazione o di una attrezzatura non sia eliminabile, egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili.
Diversamente vi sarebbe una responsabilità oggettiva in quanto attribuita quando la diligenza richiesta sia stata già soddisfatta (al pari del caso in cui una prestazione sia ineseguibile o la diligenza richiesta non sia più esigibile).
Si veda anche la recente Cass. 17 aprile 2012, n. 6002 secondo cui: “L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c., che non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all’esperienza e alla tecnica; tuttavia, da detta norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l’evento sia riferibile a sua colpa, dal momento che la colpa costituisce, comunque, elemento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro“. Ne deriva che l’infortunio di cui trattasi, ancorché indennizzabile (ed indennizzato), non è, tuttavia, risarcibile. 3. Il ricorso va, pertanto, rigettato. 4. Sussistono giusti motivi, in considerazione a della natura delle questioni trattate e della peculiarità fattuale della controversia in esame, per compensare – tra le parti costituite – le spese del presente giudizio di cassazione. Nulla va disposto per le spese nei confronti di Ci.Gi. che non ha svolto attività difensiva, in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese nei confronti della Carige Assicurazioni S.p.A.; nulla per le spese nei confronti di Ci.Gi. .

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