Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 21 novembre 2017, n. 27669. A fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore il risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attivita’ lavorativa

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Il secondo ed il terzo motivo, tra loro connessi e percio’ esaminabili congiuntamente, vanno anch’essi disattesi, siccome infondati ed implicando gli stessi per altri versi valutazioni in punto di fatto, pero’ riservate alla cognizione del merito.
Invero, risulta correttamente applicata nella specie la disciplina vigente in materia di responsabilita’ contrattuale per infortuni sul lavoro, di guisa che una volta provato che l’infortunio si e’ verificato mentre il lavoratore stata eseguendo attivita’ cui era adibito e che la sua caduta dall’alto – con conseguenti lesioni personali e postumi – e’ dipesa dal cedimento di alcuni elementi di protezione, relativi alla struttura (bisarca), sulla quale il (OMISSIS) stava operando, la prova liberatoria resta comunque a carico di parte datoriale, che pero’ nella specie non risulta averla debitamente fornita. Dalla deposizione testimoniale, pressoche’ interamente riportata alle pagine 4 e 5 dell’impugnata sentenza, emerge in particolare che la caduta non dipese soltanto da carenze strutturali, relative alle protezioni installate sulla bisarca, peraltro emendabili, ma soprattutto dal fatto che il paletto che aveva ceduto risultava marcio, di modo che la cattiva manutenzione di quest’ultimo resta indubbiamente imputabile alla societa’, che aveva la disponibilita’ dell’automezzo, non rilevando evidentemente il fatto della mera omologazione. Rileva, altresi’, la situazione di pericolo e di rischio, gia’ pure evidenziata dal Servizio di prevenzione di Mantova, che aveva “censurato l’amovibilita’ del parapetto e comunque la lassita’ di una difesa costituita da funi metalliche rivestite di plastica, unita alla circostanza dello scarso spazio a disposizione dell’autista, che si trovava ad operare su di un piano di calpestio del tutto irregolare e con la porzione centrale aperta verso il vuoto”. Di conseguenza, opportunamente la Corte di Appello osservava che, indipendentemente dalle misure strutturali di stretta competenza del costruttore del mezzo (questione estranea al procedimento e quindi palesemente irrilevante), non vi era dubbio che la descritta situazione pericolosa e di rischio dovesse formare oggetto d’intervento da parte datoriale, che avrebbe quindi dovuto dotare la bisarca almeno di piu’ idonei ripari. Tale ragionevoli e adeguate argomentazioni peraltro vanno integrate dall’anzidetta circostanza, probabilmente determinante, inerente al cedimento del paletto marcio, cosi’ come constatato dal teste oculare (OMISSIS), il quale aveva assistito alla caduta di schiena del (OMISSIS) verso la protezione che non aveva retto, ossia il paletto marcio; marciume, con conseguente fragilita’ della protezione, chiaramente, quindi, non ascrivibile a difetti strutturali di fabbricazione, ma a cattiva manutenzione da parte della societa’, che aveva quindi pacificamente la giuridica disponibilita’ della bisarca (se non addirittura la piena proprieta’ del veicolo, ma il titolo della disponibilita’ del mezzo in capo alla datrice di lavoro e’ palesemente irrilevante ai fini della decisione).
L’anzidetto quarto motivo e’ poi del tutto inammissibile, non soltanto per difetto di precisa ed univoca individuazione del “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, rilevante ex articolo 360 c.p.c., n. 5 (secondo il testo in vigore dal 2-3-2006 all’11-08-2012, nella specie ratione temporis applicabile), ma anche per carente allegazione (articolo 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6) di tutte le circostanze fattuali, tali da rendere compiutamente comprensibile l’asserita ingiustificata duplicazione del danno biologico, risultando del tutto insufficienti i dati in proposito forniti dalla ricorrente.
Infine, il quinto motivo, inerente al Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10 e del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 e’ infondato, oltre che inammissibile in ordine al preteso vizio di motivazione, anche qui senza esatta individuazione del fatto rilevante ai sensi del citato articolo 360, n. 5.
Ed invero, in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro e’ chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicche’, dall’ammontare complessivo del danno biologico va detratto, non gia’ il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacita’ lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale (v. Cass. lav. n. 20807 del 14 ottobre 2016). Nella fattispecie qui in esame va ancora evidenziato come il sinistro sia accaduto il (OMISSIS), di modo che indubbiamente opera la nuova disciplina introdotta dal succitato articolo 13 (v. inoltre Cass. lav. n. 4025 01/03/2016, secondo cui il datore di lavoro risponde dei danni occorsi al lavoratore infortunato nei limiti del c.d. danno differenziale che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall’assicurazione obbligatoria, sicche’, per le fattispecie anteriori all’ambito temporale di applicazione del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 il datore risponde dell’intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita INAIL, corrispondenti, nel regime allora vigente, solo al danno patrimoniale legato al pregiudizio alla capacita’ lavorativa generica.

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