Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
Sentenza 16 gennaio 2014, n. 797
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente
Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere
Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere
Dott. BUFFA Francesco – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 19817/2012 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
FEDERAZIONE PROVINCIALE COLTIVATORI DIRETTI DI (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo STUDIO LEGALE (OMISSIS) E PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 60/2012 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 21/06/2012 r.g.n. 36/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2013 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente
Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere
Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere
Dott. BUFFA Francesco – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 19817/2012 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
FEDERAZIONE PROVINCIALE COLTIVATORI DIRETTI DI (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo STUDIO LEGALE (OMISSIS) E PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 60/2012 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 21/06/2012 r.g.n. 36/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2013 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Treviso, in parziale accoglimento dell’impugnazione di licenziamento svolta da (OMISSIS) nei confronti della datrice di lavoro Federazione Provinciale Coldiretti di (OMISSIS) (qui di seguito, per brevita’, indicata anche come Federazione o come Coldiretti), dichiaro’ l’illegittimita’ del predetto licenziamento, condannando la convenuta alla riassunzione o, in mancanza, al risarcimento del danno nella misura di dieci mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte di Appello di Venezia, pronunciando sul gravame della lavoratrice, respinse i motivi afferenti alla natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento e all’applicabilita’ della tutela reale, stante la natura d’organizzazione di tendenza del datore di lavoro; accolse invece il motivo relativo al risarcimento del danno, che venne determinato nella misura di quattordici mensilita’.
Questa Corte, con sentenza n. 22873/2010, accolto il terzo dei motivi di ricorso e ritenuti assorbiti gli altri, casso’ con rinvio la pronuncia d’appello, rilevando che:
– ai fini dell’applicabilita’ della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale prevista dalla Legge n. 108 del 1990, articolo 4, in favore delle associazioni di tendenza, non era sufficiente la riconducibilita’ del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni di tendenza indicate dallo stesso articolo 4, ma era altresi’ necessaria la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale; ne’ era necessario, ai fini de quibus, identificare un imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa, in quanto era sufficiente che l’attivita’ dell’associazione fosse organizzata a modo di impresa e, quindi, secondo un criterio di economicita’;
– dalla natura derogatoria, rispetto alla disciplina generale della tutela reale prevista per tutti i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori, della previsione di cui al suddetto articolo 4, discendeva che il datore di lavoro, il quale avesse invocato siffatta deroga, doveva provare non solo di svolgere una delle attivita’ ivi elencate, ma anche che tale attivita’ era esercitata senza fini di lucro e non secondo modalita’ organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale;
– non era, quindi, corretta in diritto la sentenza appellata, che, accertata la riconducibilita’ dell’attivita’ svolta dalla Federazione ad una di quelle elencate nel richiamato articolo 4, aveva posto, poi, a carico del lavoratore, al fine della esenzione di detta Federazione dalla disciplina della tutela reale, l’onere della prova degli altri requisiti concernenti l’assenza del fine di lucro e dell’esercizio dell’attivita’ non a modo d’impresa.
La Corte d’Appello di Trento, pronunciando in sede di rinvio dalla cassazione, con sentenza del 21.6 – 17.7.2012, rigetto’ la censura svolta avverso il capo della pronuncia di prime cure che aveva ritenuto inapplicabile la Legge n. 300 del 1970, articolo 18, dando atto dell’intangibilita’ delle statuizione della sentenza d’appello in punto di risarcimento.
A sostegno del decisum la Corte territoriale, per cio’ che ancora qui
rileva, osservo’ quanto segue:
– la Suprema Corte non aveva messo in discussione la natura di organizzazione di tendenza della Federazione, quale accertata nei giudizi di merito, richiedendo tuttavia che fosse dimostrata, con onere incombente sulla parte datoriale, che la stessa avesse svolto la sua attivita’ senza fini di lucro e senza un’organizzazione imprenditoriale;
– alla luce delle richiamate previsioni statutarie, doveva escludersi la sussistenza dello scopo di lucro, posto che quest’ultimo avrebbe potuto incidere sulla natura dell’organizzazione di tendenza solo qualora la produzione di ricchezza avesse assunto un rilievo, se non pari alla funzione di tendenza, quanto meno tale da caratterizzare comunque l’attivita’ dell’organizzazione in senso speculativo, esorbitando dal mero obbiettivo del conseguimento di un assetto economico e gestionale che consentisse di assolvere in modo ottimale alla funzione istituzionale;
– l’accertamento della sussistenza o meno di un’attivita’ imprenditoriale andava svolto considerando sia la natura dell’attivita’ della dipendente, e cioe’ se la stessa fosse o meno “assolutamente neutra” rispetto agli scopi tipici della organizzazione di tendenza, sia il tipo di attivita’ economica svolta dalla organizzazione di tendenza;
– nel caso di specie il raggiungimento dei fini istituzionali della Federazione passava attraverso un’attivita’ concreta, non trattandosi di una organizzazione svolgente solo attivita’, ad esempio, di promozione culturale o scientifica; al pari dell’attivita’ sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attivita’ ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’articolo 2 dello Statuto, laddove attribuiva alla Coldiretti il ruolo di “sostenere a livello provinciale lo sviluppo delle imprese e dell’attivita’ agricola (…) contenimento dei costi di produzione all’accrescimento della competitivita’…”;
– l’attivita’ svolta dalla Federazione con riferimento alle pratiche UMA risultava, dalle prove orali assunte in primo grado e dalla documentazione prodotta in tale sede, svolta esclusivamente nei confronti degli associati o divenuti tali a seguito della richiesta di dette prestazioni, non essendo emerso in concreto che si fosse verificato il “raro caso”, previsto nell’ordine di servizio 10 ottobre 2000, di prestazione a favore di un non socio;
– le prestazioni UMA, come emerso dalle prove assunte, non venivano svolte attraverso una struttura imprenditoriale, essendovi addetta, all’epoca dei fatti, la sola ricorrente nella sede di Conegliano, essendo rivolte unicamente agli iscritti, senza ricerca del mantenimento del pareggio di bilancio, posto che le spese per lo svolgimento delle pratiche UMA non erano elevate (da lire 20.000 a un massimo di lire 70.000) e, come tali, volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicita’, nel senso pur ampio indicato dalla sentenza di rinvio;
– alla luce degli elementi in atti (e non tenendo conto dei documenti prodotti tardivamente in appello), la modestia delle somme richieste ai soci per il servizio UMA, l’assenza di una struttura imprenditoriale per quel particolare servizio, essendo a livello provinciale reso all’epoca a mezzo di lavoratori interni per i soci o per soggetti ai quali a seguito dell’accesso al servizio stesso veniva richiesto di associarsi alla Coldiretti, doveva presumersi un volume d’affari non consistente e ritenere esclusa persino la ricorrenza di una attivita’ ispirata al criterio di economicita’ di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi;
– l’attivita’ UMA rientrava pertanto nelle finalita’ qualificanti della Coldiretti di (OMISSIS), restandone esclusa, pur se autonomamente considerata rispetto alle altre attivita’ istituzionali, sia la struttura imprenditoriale che la rispondenza a criteri di economicita’, anche a prescindere dalla circostanza (che appariva, comunque, provata) che detto servizio fosse svolto solo nei confronti dei soci.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione fondato su nove motivi. L’intimata Federazione Provinciale Coldiretti (OMISSIS) ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
La Corte di Appello di Venezia, pronunciando sul gravame della lavoratrice, respinse i motivi afferenti alla natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento e all’applicabilita’ della tutela reale, stante la natura d’organizzazione di tendenza del datore di lavoro; accolse invece il motivo relativo al risarcimento del danno, che venne determinato nella misura di quattordici mensilita’.
Questa Corte, con sentenza n. 22873/2010, accolto il terzo dei motivi di ricorso e ritenuti assorbiti gli altri, casso’ con rinvio la pronuncia d’appello, rilevando che:
– ai fini dell’applicabilita’ della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale prevista dalla Legge n. 108 del 1990, articolo 4, in favore delle associazioni di tendenza, non era sufficiente la riconducibilita’ del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni di tendenza indicate dallo stesso articolo 4, ma era altresi’ necessaria la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale; ne’ era necessario, ai fini de quibus, identificare un imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa, in quanto era sufficiente che l’attivita’ dell’associazione fosse organizzata a modo di impresa e, quindi, secondo un criterio di economicita’;
– dalla natura derogatoria, rispetto alla disciplina generale della tutela reale prevista per tutti i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori, della previsione di cui al suddetto articolo 4, discendeva che il datore di lavoro, il quale avesse invocato siffatta deroga, doveva provare non solo di svolgere una delle attivita’ ivi elencate, ma anche che tale attivita’ era esercitata senza fini di lucro e non secondo modalita’ organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale;
– non era, quindi, corretta in diritto la sentenza appellata, che, accertata la riconducibilita’ dell’attivita’ svolta dalla Federazione ad una di quelle elencate nel richiamato articolo 4, aveva posto, poi, a carico del lavoratore, al fine della esenzione di detta Federazione dalla disciplina della tutela reale, l’onere della prova degli altri requisiti concernenti l’assenza del fine di lucro e dell’esercizio dell’attivita’ non a modo d’impresa.
La Corte d’Appello di Trento, pronunciando in sede di rinvio dalla cassazione, con sentenza del 21.6 – 17.7.2012, rigetto’ la censura svolta avverso il capo della pronuncia di prime cure che aveva ritenuto inapplicabile la Legge n. 300 del 1970, articolo 18, dando atto dell’intangibilita’ delle statuizione della sentenza d’appello in punto di risarcimento.
A sostegno del decisum la Corte territoriale, per cio’ che ancora qui
rileva, osservo’ quanto segue:
– la Suprema Corte non aveva messo in discussione la natura di organizzazione di tendenza della Federazione, quale accertata nei giudizi di merito, richiedendo tuttavia che fosse dimostrata, con onere incombente sulla parte datoriale, che la stessa avesse svolto la sua attivita’ senza fini di lucro e senza un’organizzazione imprenditoriale;
– alla luce delle richiamate previsioni statutarie, doveva escludersi la sussistenza dello scopo di lucro, posto che quest’ultimo avrebbe potuto incidere sulla natura dell’organizzazione di tendenza solo qualora la produzione di ricchezza avesse assunto un rilievo, se non pari alla funzione di tendenza, quanto meno tale da caratterizzare comunque l’attivita’ dell’organizzazione in senso speculativo, esorbitando dal mero obbiettivo del conseguimento di un assetto economico e gestionale che consentisse di assolvere in modo ottimale alla funzione istituzionale;
– l’accertamento della sussistenza o meno di un’attivita’ imprenditoriale andava svolto considerando sia la natura dell’attivita’ della dipendente, e cioe’ se la stessa fosse o meno “assolutamente neutra” rispetto agli scopi tipici della organizzazione di tendenza, sia il tipo di attivita’ economica svolta dalla organizzazione di tendenza;
– nel caso di specie il raggiungimento dei fini istituzionali della Federazione passava attraverso un’attivita’ concreta, non trattandosi di una organizzazione svolgente solo attivita’, ad esempio, di promozione culturale o scientifica; al pari dell’attivita’ sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attivita’ ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’articolo 2 dello Statuto, laddove attribuiva alla Coldiretti il ruolo di “sostenere a livello provinciale lo sviluppo delle imprese e dell’attivita’ agricola (…) contenimento dei costi di produzione all’accrescimento della competitivita’…”;
– l’attivita’ svolta dalla Federazione con riferimento alle pratiche UMA risultava, dalle prove orali assunte in primo grado e dalla documentazione prodotta in tale sede, svolta esclusivamente nei confronti degli associati o divenuti tali a seguito della richiesta di dette prestazioni, non essendo emerso in concreto che si fosse verificato il “raro caso”, previsto nell’ordine di servizio 10 ottobre 2000, di prestazione a favore di un non socio;
– le prestazioni UMA, come emerso dalle prove assunte, non venivano svolte attraverso una struttura imprenditoriale, essendovi addetta, all’epoca dei fatti, la sola ricorrente nella sede di Conegliano, essendo rivolte unicamente agli iscritti, senza ricerca del mantenimento del pareggio di bilancio, posto che le spese per lo svolgimento delle pratiche UMA non erano elevate (da lire 20.000 a un massimo di lire 70.000) e, come tali, volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicita’, nel senso pur ampio indicato dalla sentenza di rinvio;
– alla luce degli elementi in atti (e non tenendo conto dei documenti prodotti tardivamente in appello), la modestia delle somme richieste ai soci per il servizio UMA, l’assenza di una struttura imprenditoriale per quel particolare servizio, essendo a livello provinciale reso all’epoca a mezzo di lavoratori interni per i soci o per soggetti ai quali a seguito dell’accesso al servizio stesso veniva richiesto di associarsi alla Coldiretti, doveva presumersi un volume d’affari non consistente e ritenere esclusa persino la ricorrenza di una attivita’ ispirata al criterio di economicita’ di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi;
– l’attivita’ UMA rientrava pertanto nelle finalita’ qualificanti della Coldiretti di (OMISSIS), restandone esclusa, pur se autonomamente considerata rispetto alle altre attivita’ istituzionali, sia la struttura imprenditoriale che la rispondenza a criteri di economicita’, anche a prescindere dalla circostanza (che appariva, comunque, provata) che detto servizio fosse svolto solo nei confronti dei soci.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione fondato su nove motivi. L’intimata Federazione Provinciale Coldiretti (OMISSIS) ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo articolato motivo, denunciando violazione dell’articolo 384 c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, non rispettando i limiti impostile dalla sentenza che aveva disposto il rinvio, abbia disconosciuto che l’attivita’ del servizio UMA era stata espletata anche nei confronti dei non soci, come ritenuto nella sentenza d’appello poi cassata; inoltre, denunciando vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale non abbia motivato le ragioni per cui aveva disconosciuto l’accertamento dei fatti che erano stati ritenuti comprovati e non contestati da parte della Corte d’Appello di Venezia.
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’articolo 384 c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia ribaltato il principio di diritto enunciato da questa Corte di legittimita’, rilevando come non fosse emerse in concreto che si fosse verificato il raro caso previsto nell’ordine di servizio del 10.10.2000, ossia la prestazione del servizio UMA a favore di un non socio, con cio’ ponendo a carico del lavoratore l’onere di provare tale assunto, piuttosto che fondare la decisione sulla rigorosa prova, a carico del datore di lavoro, della mancata effettuazione di tale servizio per i non soci.
Con il quinto articolato motivo, denunciando violazione dell’articolo 384 c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, non rispettando i limiti impostile dalla sentenza che aveva disposto il rinvio, non abbia tenuto conto che, secondo quanto accertato nella pronuncia di primo grado, essa ricorrente non era l’unica dipendente della Federazione di (OMISSIS) addetta al servizio UMA; subordinatamente, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia motivato in ordine al disconoscimento della circostanza anzidetta, come accertata nella pronuncia di prime cure; in ulteriore subordine, denunciando violazione di legge, la ricorrente si duole che, ai fini dell’esclusione della tutela reale, la Corte territoriale abbia negato il carattere imprenditoriale dell’attivita’ facendo riferimento all’effettuazione del servizio UMA in una sola delle sedi periferiche e non in tutte le sedi; ancora subordinatamente, la ricorrente, denunciando violazione di legge, si duole che la Corte territoriale abbia escluso il carattere imprenditoriale dell’attivita’ facendo riferimento alla circostanza che il servizio UMA era reso a mezzo di lavoratori interni.
I suddetti tre motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
1.1 Al riguardo deve rilevarsi che, secondo quanto prescritto nella pronuncia rescindente di questa Corte, il Giudice del rinvio avrebbe dovuto accertare se fosse stata fornita la prova, di cui era onerata la parte datoriale, che l’attivita’ di quest’ultima era stata esercitata senza fini di lucro e non secondo modalita’ organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale.
In sostanza, veniva quindi richiesto un riesame delle risultanze processuali, senza che la eventuale mancata dimostrazione della circostanza potesse essere addebitata al lavoratore.
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’articolo 384 c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia ribaltato il principio di diritto enunciato da questa Corte di legittimita’, rilevando come non fosse emerse in concreto che si fosse verificato il raro caso previsto nell’ordine di servizio del 10.10.2000, ossia la prestazione del servizio UMA a favore di un non socio, con cio’ ponendo a carico del lavoratore l’onere di provare tale assunto, piuttosto che fondare la decisione sulla rigorosa prova, a carico del datore di lavoro, della mancata effettuazione di tale servizio per i non soci.
Con il quinto articolato motivo, denunciando violazione dell’articolo 384 c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, non rispettando i limiti impostile dalla sentenza che aveva disposto il rinvio, non abbia tenuto conto che, secondo quanto accertato nella pronuncia di primo grado, essa ricorrente non era l’unica dipendente della Federazione di (OMISSIS) addetta al servizio UMA; subordinatamente, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia motivato in ordine al disconoscimento della circostanza anzidetta, come accertata nella pronuncia di prime cure; in ulteriore subordine, denunciando violazione di legge, la ricorrente si duole che, ai fini dell’esclusione della tutela reale, la Corte territoriale abbia negato il carattere imprenditoriale dell’attivita’ facendo riferimento all’effettuazione del servizio UMA in una sola delle sedi periferiche e non in tutte le sedi; ancora subordinatamente, la ricorrente, denunciando violazione di legge, si duole che la Corte territoriale abbia escluso il carattere imprenditoriale dell’attivita’ facendo riferimento alla circostanza che il servizio UMA era reso a mezzo di lavoratori interni.
I suddetti tre motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
1.1 Al riguardo deve rilevarsi che, secondo quanto prescritto nella pronuncia rescindente di questa Corte, il Giudice del rinvio avrebbe dovuto accertare se fosse stata fornita la prova, di cui era onerata la parte datoriale, che l’attivita’ di quest’ultima era stata esercitata senza fini di lucro e non secondo modalita’ organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale.
In sostanza, veniva quindi richiesto un riesame delle risultanze processuali, senza che la eventuale mancata dimostrazione della circostanza potesse essere addebitata al lavoratore.
Tale indagine in fatto, secondo le regole generali, avrebbe dovuto quindi essere svolta in conformita’ al principio di acquisizione probatoria, in base al quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro, cosicche’ il principio relativo all’onere della prova, di cui all’articolo 2697 c.c., non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che e’ gravato del relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 5126/2000; 2285/2006; 25028/2008; 739/2010). Ne consegue che l’accertamento dell’assenza di risultanze processuali, comunque acquisite, che dimostrasse, secondo la valutazione dei Giudici del merito, l’avvenuto verificarsi in concreto della prestazione del servizio a favore di un non socio, si traduce logicamente, stante il carattere negativo della circostanza medesima, nella prova della insussistenza del contrario.
1.2 Escluso dunque che la sentenza impugnata abbia addebitato alla lavoratrice l’onere probatorio, violando con cio’ il principio enunciato nella pronuncia rescindente, va tenuto conto che l’indagine demandata al Giudice del rinvio non avrebbe potuto estendersi ad affermare o negare circostanze in senso contrario ad un eventuale giudicato interno formatosi sul punto.
Il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioe’ non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio – cioe’ il giudicato esplicito -, ma anche tutte quelle che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia – cioe’ il giudicato implicito (cfr, ex plurimis, Cass., n. 9544/2008).
Nel caso di specie la sentenza resa in grado d’appello (e poi cassata) aveva ritenuto l’applicabilita’ della tutela reale, sicche’ l’affermazione (peraltro parentetica) secondo cui sarebbe stata ammessa e provata, in alcuni casi, la circostanza dell’espletamento del servizio UMA anche nei confronti dei non soci, non costituiva un antecedente logico – giuridico del decisum, non era quindi suscettibile di passare (implicitamente) in giudicato e non vincolava in alcun modo il Giudice del rinvio, con conseguente inesistenza dell’obbligo di quest’ultimo di una qualsivoglia motivazione che non fosse quella relativa all’indagine specificamente affidatagli. Analoghe considerazioni valgono a proposito degli accertamenti fattuali effettuati nella pronuncia di prime cure, per quanto anch’essi non costituenti antecedente logico – giuridico del decisum, posto che anche tale pronuncia aveva escluso l’applicabilita’ della tutela reale.
1.3 Quanto alle censure per violazione di legge di cui al terzo e quarto profilo di doglianza del quinto mezzo, se ne deve rilevare l’infondatezza, non costituendo le circostanze ivi indicate la ragione unica, ne’ di per se’ determinante, della valutazione resa della sentenza impugnata, la quale ha invece escluso l’esistenza della struttura imprenditoriale in forza di una disamina complessiva dell’attivita’ esercitata, nei termini diffusamente gia’ esposti nello storico di lite.
1.4 Ne discende l’infondatezza dei motivi all’esame in tutti i distinti profili in cui si articolano.
2. Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che, avendo la Corte territoriale accertato che il servizio UMA era reso per i soci o per soggetti ai quali, a seguito dell’accesso al servizio stesso, veniva richiesto di associarsi alla Coldiretti, cio’ stava a dimostrare che tale attivita’ era svolta anche per i non soci e in concorrenza con altri soggetti che svolgevano la medesima attivita’; viene inoltre denunciato vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale motivato in ordine al rilievo, svolto nel ricorso in riassunzione, secondo cui il suddetto servizio era espletato commercialmente anche da altri soggetti in concorrenza con la Coldiretti.
2.1 Il motivo, nei distinti profili in cui si articola, e’ infondato.
Appare ovvio che se la conditio sine qua non per poter usufruire del servizio era l’associazione alla Coldiretti, espressamente richiesta al momento dell’accesso, i fruitori erano solo gli associati, essendo irrilevante che non lo fossero stati in precedenza; l’ulteriore circostanza che il servizio de quo fosse reso, come sostiene la ricorrente, anche da altri soggetti in concorrenza con la Coldiretti e’ poi del tutto irrilevante, trattandosi di elemento di giudizio privo di decisivita’ in ordine alla sussistenza o meno di una struttura imprenditoriale della stessa Coldiretti.
3. Con il quarto motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che il servizio UMA, a cui ella era stata addetta, non rientrava nell’attivita’ sindacale della Coldiretti di (OMISSIS), idonea come tale ad escludere la tutela reale del rapporto di lavoro quale associazione di tendenza.
3.1 La giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, ha gia’ piu’ volte affermato l’esclusione della tutela reale laddove l’attivita’ prestata sia consistita in una forma di assistenza o comunque di sostegno all’attivita’ professionale della categoria rappresentata, sia che si tratti di interessi sindacali, che di altro genere, quali interessi economici, di consulenza legale o fiscale (cfr, Cass., nn. 815/1990; 39/2001; 13721/2001), rilevando invece, ai fini dell’applicabilita’ di tale forma di tutela, il tipo di organizzazione e l’economicita’ della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di lucro (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 18218/2002; 1367/2004).
La Corte territoriale, nei termini gia’ diffusamente esposti, si e’ attenuta a tali principi, rilevando, con accertamento di fatto irretrattabile in questa sede di legittimita’, che, al pari dell’attivita’ sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attivita’ ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’articolo 2 dello Statuto, ed escludendone al contempo sia la struttura imprenditoriale, che la rispondenza a criteri di economicita’.
Onde deve escludersi la sussistenza della violazione di legge denunciata con il motivo all’esame.
4. Con il sesto motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che la previsione di un corrispettivo per la resa del servizio UMA rendeva impossibile escludere il carattere imprenditoriale della gestione; denunciando vizio di motivazione, la ricorrente deduce che la valorizzazione della modestia delle somme richieste non poteva considerarsi idonea a ritenere che le stesse fossero volte alla mera copertura dei costi e ad escludere la natura imprenditoriale dell’attivita’; denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che la natura imprenditoriale dell’attivita’ avrebbe potuto essere esclusa soltanto se il servizio fosse stato reso gratuitamente.
4.1 Osserva la Corte che se e’ indubitabile che l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti non puo’ essere considerata attivita’ imprenditoriale (cfr, Cass., nn. 16435/2003; 7725/2004; 16612/2008), non per questo puo’ ritenersi il contrario, vale a dire che sia qualificabile come imprenditoriale qualsivoglia attivita’ prevedente l’erogazione di un corrispettivo per il servizio reso; cio’ che invece rileva, a tal fine, e’ che l’attivita’ economica organizzata sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (cfr, Cass., n. 16612/2008, cit.), il che la Corte territoriale ha escluso in fatto, rilevando come le spese per lo svolgimento delle pratiche UMA fossero volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicita’.
4.2 Esclusa dunque la sussistenza del denunciato vizio di violazione di legge, deve del pari negarsi il fondamento del preteso vizio di motivazione, posto che, a fronte del ragionamento presuntivo svolto dalla Corte territoriale, trovano applicazione i principi piu’ volte affermati dalla giurisprudenza di legittimita’ (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 9961/1996; Cass., nn. 2700/1997; 26081/2005), secondo cui, in tema di prova per presunzioni, giacche’ non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, e’ sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilita’, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalita’; e, a tal riguardo, l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneita’, gravita’ e concordanza richiesti dalla legge, non e’ sindacabile in sede di legittimita’, salvo che risulti viziato da illogicita’ o da errori nei criteri giuridici; cio’ che non e’ dato ravvisare, sul punto, nella motivazione della sentenza impugnata.
4.3 Le censure svolte con il motivo all’esame non sono pertanto condivisibili.
5. Con il settimo motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente si duole che l’esclusione della tutela reale da parte della Corte territoriale abbia fatto leva sulla mancata prestazione dei servizi ai non soci; denunciando vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che, contraddittoriamente, la Corte territoriale abbia da un lato tenuto in considerazione, ai fini dell’esclusione di una struttura imprenditoriale, che il servizio UMA fosse reso soltanto ai soci e, dall’altro, ritenuto che il difetto dell’imprenditorialita’ andasse affermato anche prescindere da tale circostanza.
5.1 Osserva la Corte che la mancata prestazione dei servizi ai non soci costituisce soltanto uno degli elementi di giudizio accertati e tenuti presente dalla Corte territoriale al fine di escludere la struttura imprenditoriale del servizio UMA; il rilievo dell’assenza di decisivita’, di per se’, di tale elemento di giudizio, non ne esclude peraltro la pertinenza all’indagine e, al contempo, non concretizza alcuna contraddittorieta’ nel ragionamento decisorio.
5.2 Nei distinti profili in cui si articola il motivo all’esame non puo’ pertanto essere accolto.
6. Con l’ottavo motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale, al fine di escludere la natura imprenditoriale dell’attivita’, abbia presunto un volume d’affari non consistente facendo leva soltanto sul valore delle somme richieste per il singolo servizio e non anche sul numero complessivo dei servizi resi; denunciando vizio di motivazione la ricorrente si duole altresi’ che la Corte territoriale non abbia indicato da quali elementi aveva tratto il proprio convincimento in ordine alla copertura dei costi e all’equilibrio costi/ricavi.
Con il nono motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia escluso la natura imprenditoriale del servizio UMA, attesa l’abitualita’ e sistematicita’ dello stesso e non essendo idonei a tal fine gli elementi valorizzati.
Entrambi detti motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro connessione, e, per entrambi, deve rilevarsi che anche i profili di doglianza denunciati quali violazioni di legge si risolvono in effetti nella deduzione di un vizio della motivazione svolta.
6.1 Al riguardo, richiamato quanto gia’ osservato circa i limiti entro cui puo’ essere svolta, in sede di legittimita’, la censura avverso il ricorso alla prova presuntiva da parte del giudice del merito e tenuto conto che l’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attivita’ in concreto esercitata e’ riservato al giudice di merito e, come tale, e’ censurabile in sede di legittimita’ soltanto per vizio di motivazione (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10155/2005), deve osservarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimita’ il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensi’ la sola facolta’ di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilita’, per la Corte di legittimita’, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorieta’ della medesima, puo’ dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 824/2011; 13783/2006; 11034/2006; 4842/2006; 8718/2005; 15693/2004; 2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002).
Al contempo va considerato che, affinche’ la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non e’ necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma e’ sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12121/2004), e che l’omesso esame di fatto decisivo, previsto dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e’ costituito da quel difetto di attivita’ del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa tramite prova scritta od orale, idonea di per se’, qualora fosse stata presa in considerazione a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata; con la conseguenza che, ad integrare il predetto
difetto, occorre non solo che il fatto, sebbene dibattuto tra le parti, sia stato totalmente trascurato dal giudice al pari di quelli non sottoposti ritualmente al suo accertamento, ma anche che il fatto in questione, per la sua diretta inerenza ad uno degli elementi costitutivi, modificativi od estintivi del rapporto in contestazione, sia dotato di una intrinseca valenza tale da non poter essere tacitamente escluso dal novero delle emergenze processuali decisive per la corretta soluzione della lite, come non si verifica per ogni singolo indizio, segnale od indice critico, il quale per la sua gravita’ o per la sinergica convergenza con altri elementi indiziari consentirebbe, in ipotesi, al giudice di risalire alla individuazione di un fatto ignoto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 7000/1993; 914/1996; 10778/1997; 2601/1998; 1203/2000; 13981/2004).
Nel caso all’esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, che, quale espressione di una potesta’ propria del giudice del merito, non puo’ essere sindacata nel suo esercizio (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010; 14911/2010). In definitiva, quindi, le doglianze dei ricorrenti si sostanziano nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di un riesame di merito del materiale probatorio, inammissibile in questa sede di legittimita’.
6.2 Anche i motivi all’esame, nei distinti profili di censura in cui si articolano, vanno pertanto disattesi.
7. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
1.2 Escluso dunque che la sentenza impugnata abbia addebitato alla lavoratrice l’onere probatorio, violando con cio’ il principio enunciato nella pronuncia rescindente, va tenuto conto che l’indagine demandata al Giudice del rinvio non avrebbe potuto estendersi ad affermare o negare circostanze in senso contrario ad un eventuale giudicato interno formatosi sul punto.
Il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioe’ non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio – cioe’ il giudicato esplicito -, ma anche tutte quelle che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia – cioe’ il giudicato implicito (cfr, ex plurimis, Cass., n. 9544/2008).
Nel caso di specie la sentenza resa in grado d’appello (e poi cassata) aveva ritenuto l’applicabilita’ della tutela reale, sicche’ l’affermazione (peraltro parentetica) secondo cui sarebbe stata ammessa e provata, in alcuni casi, la circostanza dell’espletamento del servizio UMA anche nei confronti dei non soci, non costituiva un antecedente logico – giuridico del decisum, non era quindi suscettibile di passare (implicitamente) in giudicato e non vincolava in alcun modo il Giudice del rinvio, con conseguente inesistenza dell’obbligo di quest’ultimo di una qualsivoglia motivazione che non fosse quella relativa all’indagine specificamente affidatagli. Analoghe considerazioni valgono a proposito degli accertamenti fattuali effettuati nella pronuncia di prime cure, per quanto anch’essi non costituenti antecedente logico – giuridico del decisum, posto che anche tale pronuncia aveva escluso l’applicabilita’ della tutela reale.
1.3 Quanto alle censure per violazione di legge di cui al terzo e quarto profilo di doglianza del quinto mezzo, se ne deve rilevare l’infondatezza, non costituendo le circostanze ivi indicate la ragione unica, ne’ di per se’ determinante, della valutazione resa della sentenza impugnata, la quale ha invece escluso l’esistenza della struttura imprenditoriale in forza di una disamina complessiva dell’attivita’ esercitata, nei termini diffusamente gia’ esposti nello storico di lite.
1.4 Ne discende l’infondatezza dei motivi all’esame in tutti i distinti profili in cui si articolano.
2. Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che, avendo la Corte territoriale accertato che il servizio UMA era reso per i soci o per soggetti ai quali, a seguito dell’accesso al servizio stesso, veniva richiesto di associarsi alla Coldiretti, cio’ stava a dimostrare che tale attivita’ era svolta anche per i non soci e in concorrenza con altri soggetti che svolgevano la medesima attivita’; viene inoltre denunciato vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale motivato in ordine al rilievo, svolto nel ricorso in riassunzione, secondo cui il suddetto servizio era espletato commercialmente anche da altri soggetti in concorrenza con la Coldiretti.
2.1 Il motivo, nei distinti profili in cui si articola, e’ infondato.
Appare ovvio che se la conditio sine qua non per poter usufruire del servizio era l’associazione alla Coldiretti, espressamente richiesta al momento dell’accesso, i fruitori erano solo gli associati, essendo irrilevante che non lo fossero stati in precedenza; l’ulteriore circostanza che il servizio de quo fosse reso, come sostiene la ricorrente, anche da altri soggetti in concorrenza con la Coldiretti e’ poi del tutto irrilevante, trattandosi di elemento di giudizio privo di decisivita’ in ordine alla sussistenza o meno di una struttura imprenditoriale della stessa Coldiretti.
3. Con il quarto motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che il servizio UMA, a cui ella era stata addetta, non rientrava nell’attivita’ sindacale della Coldiretti di (OMISSIS), idonea come tale ad escludere la tutela reale del rapporto di lavoro quale associazione di tendenza.
3.1 La giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, ha gia’ piu’ volte affermato l’esclusione della tutela reale laddove l’attivita’ prestata sia consistita in una forma di assistenza o comunque di sostegno all’attivita’ professionale della categoria rappresentata, sia che si tratti di interessi sindacali, che di altro genere, quali interessi economici, di consulenza legale o fiscale (cfr, Cass., nn. 815/1990; 39/2001; 13721/2001), rilevando invece, ai fini dell’applicabilita’ di tale forma di tutela, il tipo di organizzazione e l’economicita’ della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di lucro (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 18218/2002; 1367/2004).
La Corte territoriale, nei termini gia’ diffusamente esposti, si e’ attenuta a tali principi, rilevando, con accertamento di fatto irretrattabile in questa sede di legittimita’, che, al pari dell’attivita’ sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attivita’ ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’articolo 2 dello Statuto, ed escludendone al contempo sia la struttura imprenditoriale, che la rispondenza a criteri di economicita’.
Onde deve escludersi la sussistenza della violazione di legge denunciata con il motivo all’esame.
4. Con il sesto motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che la previsione di un corrispettivo per la resa del servizio UMA rendeva impossibile escludere il carattere imprenditoriale della gestione; denunciando vizio di motivazione, la ricorrente deduce che la valorizzazione della modestia delle somme richieste non poteva considerarsi idonea a ritenere che le stesse fossero volte alla mera copertura dei costi e ad escludere la natura imprenditoriale dell’attivita’; denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che la natura imprenditoriale dell’attivita’ avrebbe potuto essere esclusa soltanto se il servizio fosse stato reso gratuitamente.
4.1 Osserva la Corte che se e’ indubitabile che l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti non puo’ essere considerata attivita’ imprenditoriale (cfr, Cass., nn. 16435/2003; 7725/2004; 16612/2008), non per questo puo’ ritenersi il contrario, vale a dire che sia qualificabile come imprenditoriale qualsivoglia attivita’ prevedente l’erogazione di un corrispettivo per il servizio reso; cio’ che invece rileva, a tal fine, e’ che l’attivita’ economica organizzata sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (cfr, Cass., n. 16612/2008, cit.), il che la Corte territoriale ha escluso in fatto, rilevando come le spese per lo svolgimento delle pratiche UMA fossero volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicita’.
4.2 Esclusa dunque la sussistenza del denunciato vizio di violazione di legge, deve del pari negarsi il fondamento del preteso vizio di motivazione, posto che, a fronte del ragionamento presuntivo svolto dalla Corte territoriale, trovano applicazione i principi piu’ volte affermati dalla giurisprudenza di legittimita’ (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 9961/1996; Cass., nn. 2700/1997; 26081/2005), secondo cui, in tema di prova per presunzioni, giacche’ non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, e’ sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilita’, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalita’; e, a tal riguardo, l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneita’, gravita’ e concordanza richiesti dalla legge, non e’ sindacabile in sede di legittimita’, salvo che risulti viziato da illogicita’ o da errori nei criteri giuridici; cio’ che non e’ dato ravvisare, sul punto, nella motivazione della sentenza impugnata.
4.3 Le censure svolte con il motivo all’esame non sono pertanto condivisibili.
5. Con il settimo motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente si duole che l’esclusione della tutela reale da parte della Corte territoriale abbia fatto leva sulla mancata prestazione dei servizi ai non soci; denunciando vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che, contraddittoriamente, la Corte territoriale abbia da un lato tenuto in considerazione, ai fini dell’esclusione di una struttura imprenditoriale, che il servizio UMA fosse reso soltanto ai soci e, dall’altro, ritenuto che il difetto dell’imprenditorialita’ andasse affermato anche prescindere da tale circostanza.
5.1 Osserva la Corte che la mancata prestazione dei servizi ai non soci costituisce soltanto uno degli elementi di giudizio accertati e tenuti presente dalla Corte territoriale al fine di escludere la struttura imprenditoriale del servizio UMA; il rilievo dell’assenza di decisivita’, di per se’, di tale elemento di giudizio, non ne esclude peraltro la pertinenza all’indagine e, al contempo, non concretizza alcuna contraddittorieta’ nel ragionamento decisorio.
5.2 Nei distinti profili in cui si articola il motivo all’esame non puo’ pertanto essere accolto.
6. Con l’ottavo motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale, al fine di escludere la natura imprenditoriale dell’attivita’, abbia presunto un volume d’affari non consistente facendo leva soltanto sul valore delle somme richieste per il singolo servizio e non anche sul numero complessivo dei servizi resi; denunciando vizio di motivazione la ricorrente si duole altresi’ che la Corte territoriale non abbia indicato da quali elementi aveva tratto il proprio convincimento in ordine alla copertura dei costi e all’equilibrio costi/ricavi.
Con il nono motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia escluso la natura imprenditoriale del servizio UMA, attesa l’abitualita’ e sistematicita’ dello stesso e non essendo idonei a tal fine gli elementi valorizzati.
Entrambi detti motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro connessione, e, per entrambi, deve rilevarsi che anche i profili di doglianza denunciati quali violazioni di legge si risolvono in effetti nella deduzione di un vizio della motivazione svolta.
6.1 Al riguardo, richiamato quanto gia’ osservato circa i limiti entro cui puo’ essere svolta, in sede di legittimita’, la censura avverso il ricorso alla prova presuntiva da parte del giudice del merito e tenuto conto che l’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attivita’ in concreto esercitata e’ riservato al giudice di merito e, come tale, e’ censurabile in sede di legittimita’ soltanto per vizio di motivazione (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10155/2005), deve osservarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimita’ il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensi’ la sola facolta’ di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilita’, per la Corte di legittimita’, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorieta’ della medesima, puo’ dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 824/2011; 13783/2006; 11034/2006; 4842/2006; 8718/2005; 15693/2004; 2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002).
Al contempo va considerato che, affinche’ la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non e’ necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma e’ sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12121/2004), e che l’omesso esame di fatto decisivo, previsto dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e’ costituito da quel difetto di attivita’ del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa tramite prova scritta od orale, idonea di per se’, qualora fosse stata presa in considerazione a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata; con la conseguenza che, ad integrare il predetto
difetto, occorre non solo che il fatto, sebbene dibattuto tra le parti, sia stato totalmente trascurato dal giudice al pari di quelli non sottoposti ritualmente al suo accertamento, ma anche che il fatto in questione, per la sua diretta inerenza ad uno degli elementi costitutivi, modificativi od estintivi del rapporto in contestazione, sia dotato di una intrinseca valenza tale da non poter essere tacitamente escluso dal novero delle emergenze processuali decisive per la corretta soluzione della lite, come non si verifica per ogni singolo indizio, segnale od indice critico, il quale per la sua gravita’ o per la sinergica convergenza con altri elementi indiziari consentirebbe, in ipotesi, al giudice di risalire alla individuazione di un fatto ignoto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 7000/1993; 914/1996; 10778/1997; 2601/1998; 1203/2000; 13981/2004).
Nel caso all’esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, che, quale espressione di una potesta’ propria del giudice del merito, non puo’ essere sindacata nel suo esercizio (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010; 14911/2010). In definitiva, quindi, le doglianze dei ricorrenti si sostanziano nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di un riesame di merito del materiale probatorio, inammissibile in questa sede di legittimita’.
6.2 Anche i motivi all’esame, nei distinti profili di censura in cui si articolano, vanno pertanto disattesi.
7. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in euro 4.100,00 (quattromilacento), di cui euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre accessori come per legge.
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