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La massima

L’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di specialità, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche, ma si estende a una serie di altre prestazioni, in relazione alle esigenze specifiche dei pazienti. Ne consegue che il direttore amministrativo di una casa famiglia e i suoi dipendenti rispondono per la morte di un’anziana malata di Alzheimer, gettatasi, durante la notte, dalla finestra della camera in cui era ricoverata.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

SENTENZA 31 maggio 2013, n.23661

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del gup di Vogherà con la quale P.M. e C.S. sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo in danno di M.C. e condannati, con la diminuente del rito abbreviato e concesse attenuanti generiche, a 10 mesi e 20 giorni di reclusione ciascuno oltre che al risarcimento dei danni in favore delle parti civili cui veniva riconosciuta una provvisionale immediatamente esecutiva. Si è trattato del decesso di una signora di 76 anni ricoverata nella casa famiglia Villa Torrechiara S.r.l., residenza per anziani; la donna nella notte dell'(omissis) cadeva dalla finestra della stanza in cui era ricoverata, cagionandosi lesioni che dopo una quindicina di giorni la portarono alla morte. Gli imputati erano stati chiamati a giudizio nelle rispettive qualità il P. di legale rappresentante della società che gestiva la casa famiglia e la C. di dipendente della predetta società, addetta all’assistenza degli ospiti della casa di riposo. In fatto è rimasto accertato che la signora M. era stata ricoverata nella casa di riposo dai propri familiari che avevano informato il P. , responsabile della struttura, delle sue condizioni di salute e cioè che la medesima era affetta da demenza senile di origine vascolare e degenerativa, la malattia di Alzheimer, che comportava tipici problemi alla memoria e al linguaggio, stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio temporale. All’ingresso nella casa di riposo, la donna veniva allocata in una camera al piano terra insieme ad un’altra paziente; erano però insorti problemi perché la donna dava fastidio alla compagna di stanza e anche ad altri pazienti, dal momento che usciva dalla propria stanza ed entrava nelle camere di altri ricoverati; pertanto il P. aveva avvisato i familiari che avrebbero dovuto portarla via; tuttavia alcuni giorni dopo lui stesso li informava di avere trovato una soluzione e quindi di potere trattenere la donna; in effetti la M. era stata spostata al piano superiore, in una stanza singola. Si accertava che durante la notte la porta della stanza veniva abitualmente chiusa a chiave; in particolare il giudice di primo grado riferiva che gli stessi familiari della persona offesa avevano dichiarato che il dottor P. , durante una visita da loro effettuata alla casa di riposo prima di decidere il ricovero, aveva estratto dalla tasca del camice una chiave ed aveva aperto la porta della stanza di alcuni pazienti; in un’altra occasione il medico aveva detto alla figlia della donna che durante la notte la madre veniva chiusa a chiave; inoltre durante un sopralluogo effettuato dopo l’incidente, i carabinieri avevano accertato che almeno una delle stanze della casa di riposo era chiusa a chiave; ed ancora, la teste Spelta Luisa, infermiera dipendente della Casa di riposo, aveva dichiarato che la decisione di chiudere a chiave una stanza di notte veniva, eventualmente, presa dall’infermiera del turno di notte mentre il direttore (il dottor P. ) non aveva mai chiuso a chiave nessuno. Quanto alle particolarità dell’incidente, si era accertato che la donna era caduta dalla finestra della stanza nella quale era ricoverata; si trattava di una finestra collocata a un altezze di circa un metro e 30 da terra, la cui chiusura, in particolare quella degli scuri, richiedeva una certa pressione; tuttavia era inequivocabile che la donna fosse riuscita ad aprirla e che la medesima fosse salita sul davanzale e, senza rendersi conto di sporgersi nel vuoto, avesse proseguito a camminare, spinta dalla volontà di uscire, cadendo perpendicolarmente a terra e cagionandosi le lesioni che poi la conducevano a morte.

I giudici ritenevano che entrambi gli imputati fossero responsabili dell’accaduto in quanto entrambi portatori di una posizione di garanzia nelle rispettive qualità.

2. Hanno presentato ricorso per cassazione con separati atti, i difensori di entrambi gli imputati.

L’avvocato Manuela Albini nell’interesse di C.S. propone i seguenti motivi. In primo luogo inosservanza, erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà e carenza di motivazione per quanto riguarda l’individuazione della posizione di garanzia e della colpa dell’imputata. La ricorrente rileva che in realtà la corte d’appello sviluppa una motivazione che esamina tutta una serie di inosservanze, violazioni e comportamenti da cui derivano responsabilità colpose tutte riconducibili al solo P.M. , legale rappresentante della struttura dove avvenne il sinistro; infatti fu il P. a decidere di collocare la donna in una stanza singola posto al primo piano, pur sapendo che era affetta da Alzheimer e pertanto da disorientamenti spaziotemporale; egli non avrebbe dovuto assumere questa imprudente decisione e neppure avrebbe dovuto affidarne la cura alla C. che non possedeva i requisiti professionali per occuparsi di un soggetto portatore di tale malattia; la C. infatti era una semplice dipendente di livello B1, abilitata soltanto alla pulizia dei pazienti e degli ambienti, assolutamente priva di autonomia organizzativa e di competenza per valutare le loro esigenze mediche, come quella del tipo di allocazione che la paziente avrebbe dovuto avere all’interno della casa di riposo. Per di più la C. operava in condizioni di materiale impossibilità ad effettuare una più assidua sorveglianza dell’utenza ricoverata all’interno della casa di riposo che, al momento dell’incidente, ospitava 25 pazienti di cui 14 non autosufficienti, in assenza di strutture adeguate.

Dunque si doveva riconoscere, e peraltro le circostanze di fatto sono state riconosciute dalla stessa sentenza di appello, l’esistenza di una totale, assorbente responsabilità colposa omissiva a carico del legale rappresentante della residenza per anziani, che aveva tenuto un comportamento gravemente omissivo, di per sé sufficiente cagionare l’evento e tale da interrompere il nesso causale. Su tale profilo, approfondita mente sviluppato nell’atto di appello, la sentenza non ha fornito alcuna motivazione. Sottolinea ancora la ricorrente che la corte d’appello muove dall’apodittico ed indimostrato assioma secondo cui la C. sarebbe responsabile per essersi assunta il rischio della sorveglianza della paziente, ma i giudici non hanno argomentato in base a quali circostanze si possa ritenere provato che l’inserviente abbia potuto correttamente rappresentarsi il rischio di un mancato controllo, supporre ragionevolmente o anche solo temere che la malattia di cui era affetta la M. potesse estrinsecarsi in comportamenti abnormi del tipo di quello posto in essere; la C. non aveva la preparazione professionale necessaria in quanto era una semplice inserviente; non aveva autonomia decisionale e la sua responsabilità è stata fondata solo su base oggettiva. Non possono essere fonte di responsabilità per causalità omissiva, degli obblighi di legge indeterminati.

L’avvocato Pietro Folchi Pistolesi, nell’interesse di P.M. , deduce in primo luogo violazione di legge ed in particolare dell’articolo 40, co. 2, cod. pen. in relazione all’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento. Sostiene che non sussisterebbe una posizione di garanzia del P. sia perché non era responsabile medico della struttura, tale essendo il dottor Ce. , ma soltanto responsabile amministrativo; sia perché non sussisteva la necessità di grate, parapetto o inferriate alla finestra della camera dov’era ricoverata la paziente atteso che tali presidi di contenimento sono previsti soltanto per caserme o carceri e non sono obbligatorie per delle case di riposo; sostiene che in ogni caso non era stata data comunicazione al P. della condizione della signora C. e non gli erano stati riferiti precedenti comportamenti della medesima che potessero far ritenere la possibilità di un’azione del genere di quella posta in essere: si è trattato di un atto inconsulto e imprevedibile, privo di indici premonitori. Con un secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’articolo 521 sostenendo che è stato ritenuto responsabile per un fatto diverso da quanto gli era stato contestato e cioè per essere stato ritenuto prevedibile un gesto inconsulto, circostanza non contestata nel capo di imputazione, e per il mancato controllo notturno della vittima, comportamento che era stato contestato soltanto all’altra imputata.

Con una successiva memoria il ricorrente illustra ulteriormente i motivi proposti, sostenendo l’esistenza di una posizione di garanzia della sola C. . Si ribadisce che il dottor P. era soltanto il contabile amministrativo della struttura mentre vi era un medico nella persona del dottor Ce. che lo avrebbe dovuto informare della condizione e della malattia della donna; la decisione di spostare la degente al primo piano non era stata presa dal P. ma dal personale infermieristico, unico responsabile anche della chiusura chiave della porta di ingresso della stanza. Pertanto, non conoscendo egli le condizioni della paziente, non gli si può riferire una posizione di garanzia. Per quanto riguarda l’omissione di dispositivi di sicurezza, il ricorrente sottolinea che si trattava di una finestra posta a un metro e mezzo dal piano di calpestio e poiché la vittima aveva un’altezza di 1 m 55, non avrebbe neppure potuto affacciarsi alla finestra; l’apertura della finestra era assai difficoltosa specie da parte di una persona che aveva compiuto i 77 anni; si deve ritenere che vi sia stato un comportamento indotto dalla patologia di cui soffriva e dunque l’assenza di colpa del ricorrente.

 

Considerato in diritto

 

1. I ricorsi non meritano accoglimento.

Deve in primo luogo rilevarsi che le censure proposte, ed in particolare quelle in difesa del ricorrente P. , sono inammissibili nella parte e nella misura in cui le stesse censurano l’accertamento dei fatti risultanti dalle sentenze di merito. È noto che ai sensi dell’art. 606 lett. e) cpp i vizi della motivazione, (e quindi anche il travisamento dei fatti deducibile sotto questo profilo) devono risultare ‘dal testo del provvedimento impugnato’, mentre non possono derivare da un controllo della Corte di Cassazione sulla interpretazione delle prove che è compito del giudice di merito. Anche a seguito delle modifiche introdotte all’art.606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, il ricorso non può riguardare la verifica della rispondenza delle argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata alle acquisizioni processuali e non è consentito sollecitare alla Cassazione una rilettura degli elementi di fatto, atteso che tale valutazione è riservata in via esclusiva al giudice del merito. È consentito solo dedurre il vizio di travisamento della prova che si realizza allorché si introduca nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia. Il sindacato della Cassazione è infatti di sola legittimità sì che continua ad esulare dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processuali.

Nella specie il ricorso del P. propone una versione di quanto accaduto del tutto avulsa da quanto risulta dalla sentenza impugnata (e da quella di primo grado, come nota integrativa) in quanto sostiene che il medesimo non era a conoscenza delle condizioni della signora M. , mentre invece, come sopra si è detto, è stato accertato che non solo i familiari della donna lo avevano informato delle condizioni della medesima ma egli stesso se ne era reso conto tanto da avere informato i familiari stessi delle difficoltà di gestione della paziente prospettando la necessità che gli stessi ‘se la riprendessero’; ed il trasferimento al primo piano, in una stanza singola, servì proprio ad ovviare alle difficoltà di gestione della donna.

Egli non può dunque sottrarsi alle proprie responsabilità affermando di non essere stato al corrente delle condizioni della paziente, invocando la sua posizione di responsabile amministrativo. Correttamente è stata accertata a suo carico una posizione di garanzia nei confronti dei paziente ricoverati nella casa di cura dallo stesso amministrata, posizione che deriva dal c.d. contratto di spedalità che il paziente stipula con l’ospedale o in genere con la struttura alla quale si rivolge per prestazioni mediche, secondo quanto anche di recente confermato dalla III sezione civile di questa Corte con sentenza n.8826 del 13.4.2007 Zeppieri contro De Vincentiis rv. 599205 (in precedenza, tra le altre, Cass. S.U. 1.7.2002, n. 9556). Come precisato in tale occasione, l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in base alla quale la stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dall’art. 2 legge n. 132 del 1968, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di ciò che interessa sottolineare nel presente caso è che la situazione della M. necessitava di specifica protezione (e cioè di collocazione al piano terra in una stanza dotata di finestra debitamente protetta e di sorveglianza assidua, certamente non assicurata dalla presenza, di notte, di una sola inserviente per 15 pazienti) alla quale era tenuta la struttura nella quale veniva ricoverata, struttura che invece non era in alcun modo attrezzata per un tale compito, tanto che, secondo quanto riferisce la sentenza di primo grado, non era neppure autorizzata ad accogliere pazienti non autosufficienti, quale certamente era la M. . Il P. , che di tutto ciò era o doveva essere perfettamente a conoscenza, dunque avrebbe dovuto non accettare la donna dal momento che la struttura che egli dirigeva e di cui aveva la responsabilità non aveva le qualità necessarie per assicurarne il ricovero in condizioni di sicurezza. Pacifica dunque la sua responsabilità.

Pacifica, ad avviso del Collegio, anche la responsabilità della C. , dipendente del P. che prestandosi a svolgere una mansione di controllo dei pazienti ricoverati nella casa di salute ha assunto di fatto una posizione di garanzia nei confronti dei degenti. Non esclude la responsabilità il fatto che la medesima non avesse le qualifiche professionali richieste per svolgere un lavoro di infermiera, dal momento che ciò non ha impedito alla donna di prestare la propria piena collaborazione nella gestione della casa di riposo dove di notte i pazienti ricoverati (15—20) rimanevano affidati soltanto a lei che, secondo quanto è emerso dall’istruttoria svolta, aveva risolto il problema della gestione di quelli che ‘disturbavano’ uscendo dalla propria camera, chiudendoli a chiave nella illusione che così fossero più sicuri; né può sostenersi che il fatto non era per lei prevedibile in quanto la donna non conosceva la situazione clinica della M. e, essendo priva di preparazione specifica, non poteva comunque rendersi conto dei pericoli alla stessa collegati, atteso che, pur non avendo la C. una qualifica professionale di tipo infermieristico, la medesima prestava da tempo la propria opera in una struttura per anziani e doveva pertanto essere a conoscenza dei problemi tipici dell’età avanzata e dei disturbi collegati alla malattia dell’Alzheimer che, secondo nozioni di comune esperienza, priva il soggetto della capacità di determinarsi e rendersi conto delle proprie azioni; tanto è vero che proprio per far fronte all’assenza di autocontrollo da parte della M. , la C. era ricorsa alla chiusura a chiave notturna della stanza, mezzo del tutto inadeguato a evitare il pericolo che la donna potesse procurarsi delle lesioni anche semplicemente cadendo dal letto o invece cercando, come fece, di uscire comunque dalla stanza, con il tragico epilogo che si è verificato.

2. In conclusioni i ricorsi vanno rigettati con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché degli stessi, in solido tra loro, alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che unitariamente e complessivamente sono liquidate in Euro 3200,00 oltre IVA e CPA nelle misure di legge.

 

P.T.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché, in solido tra loro, alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che unitariamente e complessivamente liquida in Euro 3200,00 oltre IVA e CPA nelle misure di legge.

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