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Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza  22 ottobre 2013, n. 43198

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 22/10/2012 il G.U.P. del Tribunale di Trento dichiarava non luogo a procedere nei confronti di B.D. per il delitto di cui all’art. 589 c.p., per omicidio colposo in danno di S.C. (acc. in (omissis) ).
All’imputato era stato addebitato che, nella qualità di responsabile medico presso la Casa di Riposo “Santa Maria” di …, per colpa aveva cagionato la morte della paziente S.C. , la quale si era suicidata gettandosi dalla finestra del terzo piano della casa di cura. In particolare l’imputato, consapevole dei disturbi depressivi della paziente, che comportavano intenzioni suicidiarie, l’aveva lasciata ricoverata al terzo piano e non aveva adottato misure idonee ad evitare che fosse possibile oltrepassare il davanzale; in tal modo non aveva impedito il verificarsi dell’evento. Osservava il G.U.P. che:
– la vittima era una donna di anni settanta e del peso di kg. 85 con limitata capacità di deambulare da sola, senza l’ausilio di un girello e di un accompagnatore;
– era ricoverata presso la casa di riposo dal (omissis), con una diagnosi di depressione ansiosa risalente all’anno …, con rischio suicidano sebbene mai prima attuato;
– all’inizio del (omissis) , dopo una visita specialistica psichiatrica, le era stata prescritta la somministrazione del farmaco mirtazapina, antidepressivo, che nel “bugiardino” indicava il rischio di suicidio;
– in data sabato (omissis) , forse a causa della somministrazione del farmaco, si era determinato un aggravamento della sindrome ansiosa e la paziente aveva manifestato l’intenzione di suicidarsi, tanto che la coordinatrice sanitaria della struttura, D. , aveva valutato la possibilità di spostare la paziente al primo piano, rimandando però la decisione;
– nella notte tra il (omissis) la paziente, dopo essere scesa dal letto ed essere salita sul davanzale della finestra, si era lasciata cadere dal terzo piano, in tal modo suicidandosi;
– quanto al Dott. B. , responsabile della assistenza sanitaria della struttura, sebbene non specialista in psichiatria, questi era stato avvertito telefonicamente della sintomatologia della paziente e delle intenzioni suicide, a mezzogiorno di sabato (omissis) . Aveva pertanto impartito di somministrare serenase, di ridurre alla metà la somministrazione di mirtazapina, di intensificare i controlli diurni e di fare ogni mezz’ora quelli notturni.
Il giorno … era partito per le ferie programmate;
– non poteva essergli addebitato, secondo il G.U.P., di non avere dato disposizioni di collocare meccanismi alle finestre atti a non consentire la loro apertura; infatti tale competenza spettava alla direzione sanitaria;
– in ogni caso, anche se avesse fatto tale richiesta agli organi competenti della struttura, il lavoro non sarebbe stato verosimilmente effettuato prima di lunedì mattina, quando l’evento si era già verificato, dal che la inefficienza causale della sua omissione;
– inoltre la sua condotta non era connotata da colpa, tenuto conto che l’evento non era prevedibile, considerato che la paziente, di rilevante peso, dormiva su un letto con le sponde rialzate ed aveva una scarsa capacità di deambulare senza l’ausilio di un girello o di terze persone; pertanto non era prevedibile che potesse attuare quanto poi effettivamente realizzato.
2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento ed il difensore delle parti civili, lamentando:
2.1. il P.M.: a) il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta assenza del nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento. Invero l’imputato aveva sottoscritto una convenzione annuale con la casa di cura, ove era definito quale “medico coordinatore della attività sanitaria”. Nella convenzione, tra gli altri compiti gli era stato attribuito quello di “predisposizione ed attuazione di misure di prevenzione nei confronti della comunità e dei singoli ospiti, secondo le norme vigenti”. L’attribuzione di tale potere radicava in suo capo una posizione di garanzia che gli imponeva uno specifico obbligo di “attuazione” delle misure di prevenzione, senza necessità di passare per il benestare di altri. Del resto per evitare l’evento non era necessario aspettare l’opera di artigiani che intervenissero sui serramenti delle finestre, potendosi attuare altre semplici precauzioni, quali la sorveglianza notturna fissa, lo spostamento della paziente in un’area senza finestra; la collocazione di ostacoli atti a raggiungere la finestra, b) il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza della colpa. Invero l’evento non era imprevedibile, in quanto l’imputato era ben a conoscenza della patologia della paziente e del suo aggravarsi. Inoltre la S. non era impedita nella deambulazione, altrimenti non vi sarebbe stata ragione per tenerla al terzo piano destinata a pazienti autosufficienti; lo stesso dotto B. , in una certificazione del (omissis) , segnalava di ricordare alla S. di deambulare con il girello, dal che si evidenzia che la paziente era in grado di muoversi da sola, sebbene non con passo sicuro. Ancora se le barriere del letto fossero state effettivamente un presidio sufficiente, non vi sarebbe stata la necessità di intensificare il controlli diurni e notturni della paziente.
2.2. le parti civili: a) la erronea applicazione della legge processuale, laddove il G.U.P. aveva pronunciato il proscioglimento esorbitando dai poteri conferitigli, che consentono la pronuncia della sentenza solo in caso di accertata inutilità del dibattimento; b) la erronea applicazione della legge ed il vizio di motivazione ove era stata riconosciuta l’assenza del nesso causale e dei profili di colpa, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle del P.M..
2.3. Con memoria depositata il 26/6/2013 i difensori dell’imputato hanno chiesto il rigetto dei ricorsi ribadendo le argomentazioni della sentenza di assoluzione ed evidenziando che, il quadro sintomatologico della paziente, nel tempo, non si era aggravato, pertanto non era necessario modificare sensibilmente le cautele già in atto; il Dott. B. non aveva una posizione di garanzia ed in ogni caso non aveva un potere di spesa; l’evento era imprevedibile e ciò era avvalorato dal fatto che la stessa coordinatrice sanitaria, non imputata, pur presente nella struttura nei giorni dei fatti, non aveva inteso adottare alcuna delle cautele che erano state contestate come omesse dall’imputato; la imprevedibilità dell’evento escludeva la configurabilità della colpa.

Considerato in diritto

3. I ricorsi sono fondati.
3.1. Va premesso sul punto relativo ai poteri del giudice dell’udienza preliminare, che la disciplina di tale udienza è costituita da una normativa che, rispetto all’originaria stesura del codice del 1988, ha subito nel corso degli anni le maggiori modifiche.
La funzione dell’udienza, nella prospettiva del legislatore, era duplice: in primo luogo sottoporre ad un giudice (il giudice dell’udienza preliminare) la valutazione della fondatezza dell’azione penale esercitata dal P.M.; in secondo luogo consentire una deflazione del dibattimento, attraverso il proscioglimento in udienza preliminare o l’eventuale celebrazione dei riti speciali del patteggiamento e del giudizio abbreviato. L’udienza preliminare, infatti, è vista come la sede naturale di tali riti speciali (cfr. art. 438, c. 1 ed art. 446, c. 1).
In origine la funzione dell’udienza era meramente procedurale, nel senso che il G.U.P. doveva valutare la fondatezza dell’azione penale, senza svolgere una vera e propria valutazione di merito sull’accusa. La riprova di ciò si rinveniva nell’art. 425, ove era previsto che il giudice poteva prosciogliere l’imputato, solo quando risultava “evidente” la sua innocenza. Tale previsione apparve subito fallimentare per la finalità deflativa del dibattimento, in quanto di rado ricorreva l’evidenza dell’innocenza e quindi quasi tutti i processi confluivano alla fase dibattimentale.
Fu questo il motivo per cui il legislatore, con la legge 8-4-1993, n. 105, soppresse l’inciso “evidente” nel corpo dell’art. 425, rivitalizzando la funzione di “filtro” dell’udienza preliminare. Essa però pur sempre non si trasformò in un giudizio di merito sull’accusa formulata dal P.M. e ciò essenzialmente per due motivi: i limitati poteri di integrazione probatoria da parte del G.U.P. (art. 422) e l’impossibilità di prosciogliere l’imputato in caso di fonti di prova di accusa contraddettorie. La situazione è completamente cambiata con la riforma introdotta dalla legge 16-12-1999, n. 479 (c.d. legge “Carotti”). Invero al G.U.P., ai sensi dell’art. 425, comma 3, è odiernamente consentito disporre il proscioglimento dell’imputato “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.
Alla luce della riforma oramai non è più sostenibile la tesi che l’udienza preliminare abbia finalità meramente procedurali, bensì può dirsi che essa consenta una vera e propria valutazione di merito dell’accusa, sebbene solo per finalità preliminari e cioè al fine di consentire al giudice di decidere se prosciogliere l’imputato (con una sentenza “stabile” ma non irrevocabile) ovvero rinviarlo a giudizio innanzi al giudice dibattimentale.
Sulla base di tali considerazioni la stessa Corte Costituzionale ha affermato che la mutata fisionomia, che l’udienza preliminare è venuta assumendo, ha determinato che le decisioni che ne costituiscono l’esito devono così essere annoverate tra quei “giudizi” idonei a pregiudicarne altri ulteriori, con la conseguenza dell’applicazione del regime delle incompatibilità di cui all’art. 34 c.p.p. (cfr. Corte Cost. sent. 335/02). Peraltro già in precedenza la Corte delle Leggi, nel dichiarare la parziale incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p., aveva esplicitamente affermato che la più ampia alternativa decisoria offerta al giudice dell’udienza preliminare, dopo la legge Carotti “riposa su una valutazione del merito della accusa ormai non più distinguibile – quanto ad intensità e completezza del panorama delibativo – da quella propria di altri momenti processuali, già ritenuti non solo “pregiudicanti”, ma anche “pregiudicabili”, ai fini della sussistenza della incompatibilità“.
Ne consegue, alla luce di quanto esposto, che il giudice dell’udienza preliminare è odiernamente abilitato a svolgere una valutazione del “merito” dell’accusa.
Quanto ai limiti dell’esercizio di tale potere, questa Corte ha già avuto modo di precisare che “…. l‘insufficienza e la contraddittorietà degli elementi [probatori] devono avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili in giudizio, con la conseguenza che, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di non colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita quando l’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi acquisiti siano superabili in dibattimento… Di tale che, il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato solo in presenza di una situazione di innocenza tale da apparire non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuovi elementi di prova o da una possibile diversa valutazione del compendio probatorio già acquisito….. tale disposizione altro non è, infatti, se non la conferma che il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza, bensì…. l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio….. e la prognosi dell’inutilità del dibattimento….” (cfr. Cass. IV, 11335/08, Huscer; vedi anche : Cass. Sez. 6, Sentenza n. 33921 del 17/07/2012 Cc. (dep. 06/09/2012), Rv. 253127; Cass. Sez. 6, Sentenza n. 10849 del 12/01/2012 Cc. (dep. 20/03/2012), Rv. 252280; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 43483 del 06/10/2009 Cc. (dep. 13/11/2009), Rv. 245464; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 13163 del 31/01/2008 Cc. (dep. 28/03/2008), Rv. 239597).
5.2. Ciò detto, nel caso di specie, il G.U.P. ha fatto mal governo dei principi sopra enunciati. Invero, come puntualmente evidenziato dai ricorrenti, il B. , all’interno della casa di riposo, aveva assunto, contrattualmente e per le funzioni esercitate, una posizione di garanzia nei confronti delle persone ivi ricoverate; era suo compito quindi ridurre al minimo i rischi di danni, anche con riferimento a gesti autolesionistici, tenuto conto che in una casa di riposo non tutti i ricoverati sono nel pieno delle loro facoltà mentali.
In sede dibattimentale sarebbe stato quindi possibile con maggiore approfondimento ed in contraddicono, verificare se l’imputato avesse esercitato tutti i poteri connessi alla sua carica, organizzativi ed impeditivi di situazioni di pericolo, come ad esempio spostare di piano la S. (dal terzo al primo); porre ostacoli all’apertura delle finestre; disporre una sorveglianza continua. Oppure accertare che tali soluzioni non erano possibili o che non avrebbero evitato l’evento.
Orbene, a fronte di tale duplice possibilità ricostruttiva della vicenda, l’opzione del giudice di merito per la seconda e, quindi, per il caso fortuito, appare arbitraria e non sufficientemente giustificata.
Ne consegue che per valutare la fondatezza dell’accusa formulata, come osservato dai ricorrenti nei motivi di ricorso, il dibattimento non si palesava inutile.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza con rinvio al Tribunale di Trento per il nuovo giudizio.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Trento per nuovo giudizio.

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