La massima

In tema di infortuni sui luoghi di lavoro, se è possibile che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponda a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l’adozione di misure prevenzionali doverose, è pur vero che la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica e che agisce come semplice ausiliario del datore di lavoro, il quale rimane direttamente obbligato ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE  IV PENALE

SENTENZA 11 luglio 2012, n.  27934

 

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 10 marzo 2011, ha parzialmente riformato quella resa dal Tribunale di Pavia con la quale C.M. , direttore dello stabilimento Yogolat di (omissis) con delega a provvedere alla corretta applicazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro e quindi di dirigente, veniva condannato alla pena di mesi due di reclusione, sostituita con la pena di Euro 3.000,00 di multa, perché ritenuto responsabile del reato di lesioni colpose commesse con violazione degli artt. 4, co. 5, 35, co. 1, 2, 4 lett. e) d.lgs. n. 626/1994, nonché dell’art. 375 dpr 547/1955, in danno del dipendente Ca.Em.Er. , che per effetto dello schiacciamento della mano ad opera del gruppo di teste di saldatura dell’impianto HAMBA n. 17, riportava la frattura pluriframmentaria scomposta ed articolare della falange basale del 1 dito della mano destra, da cui derivava una malattia con incapacità ad attendere alle proprie occupazioni per un periodo superiore a gg. 180.

2.1. I giudici di entrambi i gradi di giudizio hanno ritenuto che il C. , nella menzionata duplice qualità, avesse disposto o comunque consentito lavori di manutenzione sulla indicata apparecchiatura, nonostante la stessa non fosse idonea ai fini della sicurezza in relazione ai lavori di manutenzione sul gruppo delle teste di saldatura. Secondo il giudice di prime cure, il Ca. si era infortunato mentre svolgeva operazioni di manutenzione sul gruppo di teste di saldatura dell’apparecchiatura Hambda 17, provvista di un sistema di sollevamento costituito da un’asta da collocare in un apposito foro per reggere a 45 il gruppo, sistema ritenuto inidoneo sotto il profilo della sicurezza in quanto poteva essere forzato o eluso dal lavoratore, intenzionato a procedere alla sostituzione della testa di saldatura reggendo direttamente con la mano libera l’intero blocco.

L’apparecchiatura in questione era stata messa in esercizio senza che fosse stata elaborata alcuna valutazione del rischio ad essa connesso; siffatta valutazione non era stata eseguita neppure dopo che l’apparecchiatura aveva subito modifiche e revisioni; la messa in esercizio dell’apparecchiatura era avvenuta senza attendere o pretendere che il R.s.p.p. svolgesse i propri compiti, mentre il C. , nella qualità, avrebbe dovuto pretendere tali adempimenti. Il Tribunale rilevava che era stato accertato che le operazioni di manutenzione non erano state eseguite per la prima volta con le indicate modalità e riteneva che non potesse considerarsi abnorme il comportamento del Ca. , il quale non aveva avuto alcuna formazione sulla specifica macchina così come mancava un protocollo aziendale per l’intervento di sostituzione delle teste di saldatura.

2.2. La Corte di Appello di Milano condivideva integralmente le valutazioni del Tribunale di Pavia aggiungendo che, a fronte della mancata effettuazione della valutazione del rischio connesso all’utilizzo della macchina, andava ritenuto che siffatto adempimento “doveva essere preteso proprio dal C. , nella sua veste di (sic!) qualificata di RSPP”. Il decidente non condivideva l’assunto difensivo per il quale l’imputato, direttore dello stabilimento, non aveva potuto intervenire per la struttura piramidale delle responsabilità aziendali e perché la catena informativa non lo aveva mai portato a conoscenza di problematiche connesse all’uso della Hambda 17. Riteneva, infatti, che l’obbligo di verificare le condizioni di sicurezza del lavoro era connaturato alle funzioni e alle mansioni assegnate all’imputato. Inoltre il rischio da schiacciamento era intrinseco ad un’operazione di manutenzione fatta movimentando un pezzo del peso di circa 45 kg.; quindi non poteva evocarsi in chiave difensiva la mancata segnalazione del rischio.

Pertanto la Corte di Appello confermava la condanna dell’imputato, riformando la decisione impugnata nella parte in cui non riconosceva al medesimo come prevalenti sulla contestata aggravante le attenuanti generiche e quella di cui all’art. 62, n. 6 cod. pen., e rideterminava la pena in giorni 36 di reclusione, sostituita con la pena di Euro 1.800 di multa.

3.1. L’imputato ha presentato ricorso per cassazione a mezzo del difensore deducendo, con un primo motivo, il difetto di motivazione per quanto riguarda l’omessa valutazione del dato processuale, emergente dalle deposizioni dei testi M. e B. , consistente nell’esistenza di una procedura di intervento cui il lavoratore si sarebbe dovuto attenere e deliberatamente non attuata dal medesimo. In virtù di tale procedura l’operazione di collocazione della testa di saldatura avrebbe dovuto essere eseguita da due persone, laddove il Ca. aveva operato da solo, pur essendo a conoscenza del corretto modus operandi. La Corte avrebbe espresso al riguardo una motivazione meramente apparente, derivando l’inesistenza di un protocollo aziendale di intervento dal fatto che il Ca. aveva effettuato altre volte e senza che nessuno se ne accorgesse l’operazione di sollevamento del gruppo in violazione delle norme di sicurezza.

Peraltro, il ricorrente lamenta come il giudizio di attendibilità del Ca. sia stato espresso senza esplicitare il vaglio di credibilità, anche in relazione al fatto che la ricostruzione dell’accaduto offerta dall’infortunato non risulta riscontrata da altre deposizioni dibattimentali.

La Corte avrebbe poi omesso di motivare in ordine al fatto che il sistema di sollevamento a pistone impiantato successivamente all’infortunio non è correlato al rischio di schiacciamento bensì a quello derivante dalla movimentazione manuale del gruppo di teste di saldatura e sulla circostanza che l’ASL, intervenuta a seguito del sinistro, non impose alcuna modifica ai sistema di sollevamento, con ciò implicitamente confermando la validità dell’impiego di un’asta metallica quale misura di sicurezza.

3.2. Con un secondo motivo di ricorso il C. deduce la violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen., per erronea applicazione delle norme relative agli oneri penalmente rilevanti del direttore di stabilimento e l’illogicità ed apparenza della motivazione. Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe erroneamente attribuito al C. la qualità di R.s.p.p. e comunque non esplicitato la posizione di garanzia a questi attribuita, ricavando i doveri al medesimo imposti dalla legislazione prevenzionistica in via congetturale ed apparente; laddove i ruoli al medesimo facenti capo implicano che egli doveva limitarsi a garantire il corretto utilizzo delle macchine e avrebbe dovuto assumere ulteriori provvedimenti solo se altri, e segnatamente il R.s.p.p., avesse rilevato e comunicato un difetto di sicurezza. Egli, quindi, non può vedersi addebitato di aver permesso l’utilizzo della macchina senza la previa integrazione del D.V.R. con una specifica valutazione dei rischi (che non competeva al C. ), stante la pregressa utilizzazione dell’apparecchiatura senza infortuni e la diffusa conoscenza delle corrette modalità di sostituzione delle teste di saldatura.

Inoltre la Corte non avrebbe motivato in ordine alla effettiva attribuibilità dell’evento al C. , non valendo come tale l’affermazione secondo cui si trattava di un “onere connaturato con le funzioni e le mansioni assegnategli”.

3.3. Con motivi aggiunti depositati l’11.4.2012 il ricorrente ha ribadito l’erroneità della motivazione della condanna, laddove definisce il concetto di comportamento abnorme del lavoratore, e deduce il travisamento della prova, perché la Corte di appello non si sarebbe pronunciata in ordine alle prove testimoniali rappresentate dalle deposizioni del M. e del B. , senza peraltro spiegare perché esse sarebbero inattendibili o irrilevanti. L’esponente reitera la censura relativa all’errato inquadramento del ricorrente quale R.s.p.p. ed il rilievo secondo il quale non è all’imputato che può muoversi l’addebito per il mancato inserimento della macchina nel documento di valutazione dei rischi, non essendo il C. datore di lavoro.

 

Considerato in diritto

 

4. Il ricorso è infondato e pertanto non merita accoglimento.

4.1. La prima doglianza del C. concerne il dedotto vizio motivazionale in ordine alle valutazioni probatorie circa l’inesistenza di una procedura aziendale di intervento sulla macchina HAMBA n. 17, imponente il concorso di due unità, un manutentore meccanico ed un manutentore elettricista. Si tratta quindi di un rilievo volto a contestare un presupposto di fatto, che si assume essere emerso da alcune deposizioni dibattimentali, dal quale muove la sentenza impugnata per pervenire all’affermazione di responsabilità.

Con riguardo a tale aspetto, il ricorso si risolve in una censura di fatto integrante questione insuscettibile di considerazione nel giudizio di cassazione. A fronte dei rilievi operati dal ricorrente, compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver questa tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata.

In realtà, le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Cass. Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Ciò posto, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, occorre allora tener conto che: 1) la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso, dovendosi semmai parlare di “travisamento della prova”. Esso, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito difettosa per commissione oppure per omissione, a seconda che si sia incorsi nell’utilizzazione di un’informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della L. n. 46 del 2006, ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e) – nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente “specificamente indicati” – detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 lett. c) (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere “l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 cit. – anche un peculiare onere di inequivoca “individuazione” e di specifica “rappresentazione” degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr. Cass. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri).

In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti (in tal senso, “ex plurimis”, Cass. sez. 1, n. 16223 del 02/05/2006, Scognamiglio, Rv. 233781): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte fornite dalle integrative pronunce di primo e secondo grado alle questioni prospettate dalla difesa dell’imputato. Ma v’è di più, posto che, sempre con riferimento alla portata delle innovazioni della L. n. 46 del 2006, relativamente allo specifico caso di ricorso per cassazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), non è sufficiente: a) che gli atti del processo evocati con il ricorso siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e/o vantazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità; b) né che tali atti possano essere astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorre invece che gli “atti del processo”, presi in considerazione per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione, siano “decisivi”, ossia autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del “testo del provvedimento impugnato”, anche di “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, Capri ed altri).

4.2. Tenendo conto di tutti i principi testé ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure appena esaminate non valgono a scalfire la congruenza logica della struttura motivazionale impugnata.

La Corte di appello ha compiutamente esposto i dati di fatto dai quali ha dedotto l’inesistenza di un protocollo aziendale di intervento per la sostituzione delle teste di saldatura, tenendo ben presente la deposizione del teste M. (pg. 5). Ciò detto, occorre aggiungere che anche qualora fosse stato diversamente, si tratterebbe di un’omissione inidonea a disarticolare l’intero ragionamento condotto dalla Corte territoriale. Infatti, più che l’inesistenza di una procedura aziendale di intervento, il dato fattuale giustamente valorizzato dalla Corte è l’inesistenza di una previa valutazione dello specifico rischio connesso allo svolgimento delle operazioni di manutenzione sul gruppo di teste di saldatura della macchina Hambda n. 17. Circostanza, questa, neppure discussa dal ricorrente. A fronte di ciò non assumerebbe valore equipollente l’esistenza di una semplice prassi operativa, appunto quella di svolgere le operazioni in coppia, la cui conformità legale non potrebbe certo dedursi dal fatto che in precedenza non si erano verificati incidenti. La valutazione del rischio è operazione complessa che consiste nell’analisi dei dati e nella loro valutazione, in funzione di una concomitante definizione delle misure da attuare per eliminare o, ove impossibile, ridurre il rischio individuato; essa sfocia peraltro in una compiuta formalizzazione (il DVR). Una prassi operativa è per definizione priva di ogni premessa analitica e valutativa, come di una veste formale; nasce dalla mera ripetizione dell’attività, in assenza di eventi di disconferma e in forza di una conferma legata ad un rapporto costi/benefici che non tiene conto necessariamente del valore prioritario della sicurezza e della salute dei lavoratori.

Ecco quindi confermato come il ricorrente, pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, in realtà ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito. Le allegazioni difensive non valgono dunque a disarticolare l’apparato argomentativo delle integrative pronunce di primo e secondo grado (trattasi di doppia conforme): è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (in termini, “ex plurimis”, Cass. Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994, Rv. 197497; conf. Cass. Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Rv. 209145).

A fronte di ciò manifestano l’assenza di pregio tutte le altre censure, miranti a veder affermata l’inattendibilità del Ca. e l’idoneità prevenzionistica del sistema di sollevamento in uso.

In particolare, risulta insignificante che il sistema a pistone successivamente impiantato sia o meno volto a ridurre il rischio di schiacciamento degli arti dell’operatore piuttosto che quelli connessi alla movimentazione di carichi. Da un canto va registrata – come già fatto dalla Corte territoriale – la natura puramente assertiva e congetturale di tale affermazione difensiva; dall’altro va rilevato come la violazione dell’obbligo di valutazione del rischio non sia identificabile alla luce delle misure assunte successivamente al fatto, essendo – quella della previa valutazione del rischio – adempimento preliminare all’adozione delle misure necessarie e non altrimenti surrogabile. Per altro aspetto, correttamente il giudice di merito non ha attribuito valore dirimente al fatto che l’organo di vigilanza non impartì prescrizioni volte ad eliminare o ridurre il rischio di schiacciamento: l’individuazione della misura prevenzionistica da adottare può essere confermata o coadiuvata dalla determinazione dell’organo ispettivo (o di altra autorità pubblica competente), ma non può esaurirsi nel recepimento di questa. Lo esclude sia il fatto che la normativa antinfortunistica pone direttamente a carico dell’imprenditore l’obbligo di attuare le misure previste e di accertarsi della loro esistenza, sia la possibilità che ricorrano carenze delle attività ispettive, osservazioni superficiali, pareri sommariamente espressi (Sez. 4, n. 32128 del 06/05/2011, Monti ed altro, Rv. 251456).

4.3. Quanto al secondo motivo di ricorso, attinente alla motivazione in ordine alla posizione di garanzia assunta dal C. , e quindi ai doveri che questi può aver violato, è vero che la Corte, riferendosi all’imputato, utilizza in un passo (pg. 9) la locuzione “nella sua veste di qualificata di R.S.P.P.”; ma è parimenti vero che il complessivo sviluppo dell’argomentazione, sin dalle righe subito successive, manifestando chiaramente che quella locuzione è effetto di un refuso, avendo in ogni momento la Corte fatto riferimento al C. come direttore dello stabilimento. In tale veste egli assunse la posizione di garanzia che la normativa prevenzionistica identifica con la locuzione “datore di lavoro” (cfr. art. 2, lett. b) d.lgs. n. 626/1994 ed ora art. 2 lett. b) d.lgs. n. 81/2008), in capo al quale è posto, quale dovere non delegabile, l’obbligo di eseguire la valutazione dei rischi. Né siffatto adempimento né gli ulteriori imposti dalla normativa prevenzionistica sono condizionati da previe segnalazioni dei R.S.P.P.. Se è possibile che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponda a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l’adozione di misure prevenzionali doverose (Cass. sez. 4, n. 2814 del 21/12/2010, Di Mascio, Rv. 249626), è pur vero che la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica e che agisce come semplice ausiliario del datore di lavoro, il quale rimane direttamente obbligato ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio (Cass. sez. 4, n. 32357 del 12/08/2010 Mazzei ed altro, Rv. 247996).

4.4. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

P.Q.M.

 

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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