Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 10 luglio 2015, n. 29800
Ritenuto in fatto
S.M. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, resa in esito a giudizio abbreviato, l’ha riconosciuta colpevole del reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente del tipo metanfetamina [shaboo o ice] [grammi 7,5 lordi, con percentuale di purezza del 96,66%, utile per il confezionamento di 68 dosi medie singole], in concorso con altri due coimputati, separatamente giudicati.
La doppia conferma statuizione di responsabilità valorizzava, per quanto interessa, le circostanze dell’acquisto della droga, cui pure materialmente non aveva partecipato l’imputata, rimasto sull’autovettura, durante l’acquisto, il ruolo compartecipativo, dimostrato dalla presenza in loco, il quantitativo complessivo della droga e la suddivisione dello stesso in due bustine, tale da non accreditare la versione difensiva dell’imputata [l’avere dato 50 Euro al coimputato che provvedeva all’acquisto per una porzione di droga da utilizzare per uso personale], la qualità di assuntrice di sostanze stupefacenti non era stata comunque dimostrata.
La Corte di merito negava l’ipotesi della lieve entità del fatto valorizzando il quantitativo della droga, ma anche la gravità della condotta, definita come denotante un’attività di spaccio organizzata sia pure rudimentale [sul punto venivano considerate sia la presenza di tre correi, ma anche la disponibilità di strumenti atti al frazionamento della droga, nella disponibilità di uno dei correi].
Con il ricorso si censurano gli argomenti posti a supporto della condanna di cui si sostiene l’insussistenza ai fini di una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio.
Si ripropone l’assenza di prova del contributo causale e la tesi dell’acquisto per uso personale.
Si invoca la qualificazione del fatto ex articolo 73, comma 5, del dpr n. 309 del 1990.
Considerato in diritto
Il ricorso è manifestamente infondato, perché, al di là della ricchezza degli argomenti spesi in fatto, si è in presenza di una doppia statuizione di responsabilità, assistita da motivazione che non può essere censurata in quanto non è affatto manifestamente illogica e risulta peraltro anche adottata in ossequio ai principi vigenti in materia.
La Corte territoriale ha ricostruito il ruolo concorsuale efficiente che, come è noto, può essere fornito anche da chi senza avere materialmente commesso o partecipato a commettere il fatto incriminato con la sua presenza in loco. Ciò in ossequio al principio pacifico secondo cui, in tema di concorso di persone nel reato, mentre la connivenza non punibile postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, si ha concorso nel reato, penalmente rilevante, ogni qualvolta l’agente partecipa in qualsiasi modo alla realizzazione dell’illecito e, quindi, anche quando con la propria presenza agevola o rafforza il proposito criminoso altrui (Sezione V, 24 giugno 2008, Venuto).
In questa prospettiva, non è in cassazione che può procedersi a rinnovarsi l’apprezzamento sviluppato dal giudice di merito.
Ciò vale anche in relazione alla finalità illecita della condotta incriminata [non arbitrariamente desunta dal quantitativo della droga, dal possesso dello strumentario atto a confezionare le dosi] e alla parallela smentita – con argomenti non illogici, siccome desunti principalmente dalle modalità di confezionamento della droga – della tesi dell’acquisto per uso personale.
È noto, in proposito che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’articolo 73 del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, non è la difesa a dover dimostrare l’uso personale della droga detenuta, ma è invece l’accusa, secondo i principi generali, a dover provare la detenzione della droga per uso diverso da quello personale. Infatti, la destinazione della sostanza allo “spaccio” è elemento costitutivo del reato di illecita detenzione della stessa e, come tale, deve essere provata dalla pubblica accusa, non spettando all’imputato dimostrare la destinazione all’uso personale della sostanza stupefacente di cui sia stato trovato in possesso (di recente, Sezione VI, 10 gennaio 2013, Proc. gen. App. Catanzaro in proc. Grillo). Il giudice, in questa prospettiva, in caso di contestazione della detenzione illecita deve prendere in esame, oltre alla quantità di principio attivo, tutti gli indici indicati dalla norma (modalità di presentazione, peso lordo complessivo, confezionamento frazionato, altre circostanze dell’azione: cfr. ora l’articolo 75, comma 1 bis del dpr n. 309 del 1990). L’apprezzamento sviluppato è incensurabile laddove assistito da adeguata motivazione.
Ciò che qui deve ritenersi, non essendovi spazio per la lettura alternativa, opinabile, offerta nel ricorso, avendo il giudice, del resto in modo conforme rispetto alla decisione di primo grado, considerate come significative le suindicate circostanze fattuali.
In questa prospettiva, anche il profilo del possibile uso personale, proposto già in sede di merito, ha trovato una risposta non illogica.
Inaccoglibile è la doglianza relativa al fatto di lieve entità.
Il giudicante ha fatto corretta e logica applicazione del principio in forza del quale, in tema di sostanze stupefacenti, il fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, del dpr 9 ottobre 1990 n. 309) può essere riconosciuta solo in ipotesi di “minima offensività penale” della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla norma (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove venga meno anche uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l’eventuale presenza degli altri. Ciò in quanto la finalità dell’attenuante si ricollega al criterio di ragionevolezza derivante dall’articolo 3 della Costituzione, che impone – tanto al legislatore, quanto all’interprete – la proporzione tra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto (Sezione IV, 13 maggio 2010, Lucresi).
Qui, il giudicante ha ampiamente motivato sulle ragioni che deponevano per l’insussistenza dell’attenuante e il relativo giudizio regge al vaglio di legittimità anche a fronte di motivazione sicuramente satisfattiva, siccome basata su una “complessiva” ed attenta disamina dei diversi profili della condotta, con conseguente valorizzazione negativa – nei termini suindicati – di quelli ritenuti significativi, con particolare riguardo al quantitativo della droga, ma senza trascurare la riferita pericolosità della condotta.
Nessuna conseguenza, sotto questo specifico profilo, deriva dal novum normativo introdotto dal decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, convertito dalla legge 21 febbraio 2014 n. 10, con scelta confermata dal decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014, in forza del quale quella che prima era, pacificamente, una circostanza attenuante, è stata trasformata in reato autonomo.
Infatti, i presupposti del reato autonomo sono rimasti quegli stessi che potevano
giustificare [o, per converso, negare] la concessione dell’attenuante.
Va affermato con chiarezza, infatti, che nella “ricostruzione” della nuova fattispecie autonoma di reato sono utilizzabili gli stessi parametri che caratterizzavano la previgente previsione di circostanza attenuante. Il fatto di “lieve entità”, cioè, deve essere apprezzato considerando i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la qualità e quantità delle sostanze stupefacenti, riproponendo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, che vale tuttora per cogliere il proprium anche della nuova fattispecie di reato. I principi cardine, in proposito, sono quelli della “valutazione congiunta” dei parametri normativi e della rilevanza ostativa anche di un solo parametri quando risulti “esorbitante” e cioè chiaramente dimostrativo della “non lievità” del fatto.
La valutazione congiunta, infatti, consente di apprezzare, in modo equilibrato, il fatto in tutte le sue componenti, senza peraltro trascurare le connotazioni particolari che assumono, nel concreto, i singoli parametri di riferimento.
Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa della ricorrente (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna della ricorrente medesima al – pagamento delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in mille Euro, in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e a quello della somma di 1.000,00 Euro in favore della cassa delle ammende.
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