Corte di Cassazione, sezione IV penale, sentenza 1 agosto 2016, n. 33609

Sommario

Il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele

In presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontri nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una “constatazione”, che a un atto di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento

Il concetto di “evidenza”, richiesto dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p., presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato. Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui “positivamente” deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV penale

sentenza 1 agosto 2016, n. 33609

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza resa in data 20/1/2015, la Corte d’appello di Catania ha confermato la decisione in data 20/12/2013 con la quale il Tribunale di Catania ha condannato D.P. alla pena di giustizia, oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite, in relazione al reato di omicidio colposo commesso, ai danni di F.G. , in violazione della disciplina sull’esercizio della professione medica, in (omissis) .
All’imputato, in qualità di medico psichiatra in servizio presso il reparto di neuropsichiatria della casa di cura (omissis) , era stata originariamente contestata la condotta colposa consistita nell’omessa adozione, in violazione dei tradizionali parametri della colpa generica, delle adeguate misure di protezione idonee a impedire che la paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva caratterizzata da depressione del tono dell’umore con ideazione negativa a sfondo suicidario, si allontanasse dalla stanza in cui era ricoverata, raggiungesse un’impalcatura allestita all’esterno della struttura ospedaliera, lanciandosi infine cadere nel vuoto così trovando la morte.
2. Avverso la sentenza d’appello, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato sulla base di cinque motivi di impugnazione.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, essendo la corte territoriale incorsa in un evidente travisamento della prova con riguardo alla riconduzione del decesso della paziente a un preteso gesto suicidario, in contrasto con le evidenze probatorie acquisite nel corso del procedimento, dalle quali era piuttosto emersa la circostanza che la F. fosse stata cèlta, nelle occorrenze da cui ebbe a conseguirne il decesso, da un malore dovuto a problemi di natura vascolare.
In particolare, la corte territoriale si sarebbe sul punto illegittimamente sottratta all’esame e alla confutazione degli argomenti logico-giuridici e di carattere scientifico illustrati dalla difesa dell’imputato e analiticamente richiamati nel corpo dell’odierno ricorso.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, con particolare riguardo alle numerose contraddizioni concernenti la ricostruzione dell’evento lesivo oggetto di giudizio, tanto in relazione alla descrizione dello stato dei luoghi, quanto con riguardo alla mancata riconduzione, delle lesioni riscontrate in capo alla gabbia toracica della vittima, all’osteoporosi verosimilmente indotta dal prolungato uso del farmaco Eutirox, quanto, infine, al mancato approfondimento del tema relativo ai problemi vascolari alle quali la F. era con altissima probabilità soggetta.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel ritenere ricompreso, nell’ambito di prevedibilità dell’agente, il rischio suicidario asseritamente concretizzatosi nel caso di specie; asserzione fondata su elementi di fatto palesemente contraddittori e del tutto estranei alla fattispecie in esame.
2.4. Con il quarto motivo, l’imputato censura la sentenza impugnata per violazione di legge, avendo la corte territoriale pronunciato la relativa condanna in assenza di elementi di prova certi e inconfutabili, tali da legittimare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’accertamento della relativa responsabilità per il fatto lesivo allo stesso addebitato.
2.5. Con il quinto e ultimo motivo, l’imputato si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel respingere la riconducibilità della relativa (asserita) condotta colposa al paradigma della colpa lieve, da ritenersi – a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3 del d.l. n. 158/2012 conv. nella legge n. 189/2012 – del tutto irrilevante sul piano penale, tenuto conto della particolare complessità della legge scientifica applicabile nell’ambito della prognosi psichiatrica e, segnatamente, in relazione al difficile impedimento di gesti autolesivi da parte di pazienti affetti da sindromi o patologie di tipo psichiatrico senza ricorrere all’adozione di misure lesive della relativa dignità.

Considerato in diritto

3. Tutti i motivi di ricorso illustrati dall’imputato – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte -, sono infondati.
Osserva in primo luogo il collegio come le motivazioni dettate dalla corte territoriale, in relazione alla ricostruzione del decorso causale che condusse al decesso della F. – così come alla riconduzione di tale evento alla responsabilità dell’imputato -, devono ritenersi pienamente complete ed esaurienti, immuni da vizi di natura logica o giuridica, pienamente idonee a sottrarsi alle censure argomentate dal ricorrente, nella specie per lo più inclini a prospettare un’inammissibile rilettura in fatto delle risultanze probatorie acquisite, come tali non sottoponibili al vaglio di questa corte di legittimità.
E invero, attraverso ciascuna delle diverse doglianze avanzate con l’odierna impugnazione, il D. ha circoscritto il proprio discorso critico sulla sentenza impugnata a una discordante lettura delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del giudizio, in difformità rispetto alla complessiva ricostruzione operata dai giudici di merito, limitandosi a dedurre i soli elementi astrattamente idonei a supportare la propria alternativa rappresentazione del fatto (peraltro, in modo solo parziale, selettivo e non decisivo), senza farsi carico della complessiva riconfigurazione dell’intera vicenda sottoposta a giudizio, sulla base di tutti gli elementi istruttori raccolti, che, viceversa, la corte d’appello (sulla scia del discorso giustificativo dettato dal primo giudice) ha ricostruito con adeguata coerenza logica e linearità argomentativa.
Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la modificazione dell’art. 606 lett. e) c.p.p., introdotta dalla legge n. 46/2006 consente la deduzione del vizio del travisamento della prova là dove si contesti l’introduzione, nella motivazione, di un’informazione (purché rilevante) che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia. Il sindacato della corte di cassazione resta tuttavia quello di sola legittimità, sì che continua a esulare dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processuali (v., ex multis, Cass., Sez. 2, n. 23419/2007, Rv. 236893).
Da ciò consegue che gli “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” menzionati dal testo vigente dell’art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p., non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati anche in relazione all’intero contesto probatorio, avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione si tramuti in una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Cass., Sez. 4, n. 35683/2007, Rv. 237652).
In termini analoghi, con riguardo alla valutazione e all’interpretazione delle risultanze testimoniali e degli altri elementi di prova valorizzati dai giudici del merito, osserva il collegio come, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della correttezza e della logicità della motivazione della sentenza, non occorre che il giudice di merito dia conto, in essa, della valutazione di ogni deposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano condurre a eventuali soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma è indispensabile che egli indichi le fonti di prova di cui ha tenuto conto ai fini del suo convincimento, e quindi della decisione, ricostruendo il fatto in modo plausibile con ragionamento logico e argomentato (cfr. Cass., Sez. 1, n. 1685/1998, Rv. 210560; Cass., Sez. 6, n. 11984/1997, Rv. 209490), sempre che non emergano elementi obiettivi idonei a giustificare il ricorso di un ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato, nella specie adeguatamente e plausibilmente escluso.
Tale principio, in particolare, appare coerente con il circoscritto orizzonte riservato all’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, dovendo il sindacato demandato alla corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento. Esula, infatti, dai poteri della corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (v. Cass., Sez. Un., n. 6402/1997, Rv. 207944, e altre di conferma).
In altri termini, una volta accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito, non è consentito alla corte di cassazione prendere in considerazione, sub specie di vizio motivazionale, la diversa valutazione delle risultanze processuali prospettata dal ricorrente sulla base del proprio differente soggettivo punto di vista (Cass., Sez. 1, n. 6383/1997, Rv. 209787; Cass., Sez. 1, n. 1083/1998, Rv. 210019).
Tale discorso deve ritenersi comune alla valutazione di attendibilità scientifica della ricostruzione delle cause del decesso della F. fatta propria dai giudici del merito, rilevando il collegio, in conformità al consolidato insegnamento di questa corte di legittimità, come, in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito può scegliere, tra le diverse tesi prospettate dal perito o dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia motivatamente conto delle ragioni della scelta, nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Cass., Sez. 4, n. 34747/2012, Rv. 253512; Cass., Sez. 4, n. 45126/2008, Rv. 241907; Cass., Sez. 4, n. 11235/1997, Rv. 209675).
Nella specie, la corte territoriale ha provveduto a chiarire in modo analitico le ragioni della privilegiata considerazione ascritta alle tesi prospettate dal consulente dell’ufficio, non trascurando l’apprezzamento delle contrarie deduzioni della difesa, anch’esse specificamente considerate e confutate sulla base di argomentazioni logicamente lineari e del tutto congrue in termini esplicativi.
Peraltro, l’esigenza di fornire un’appropriata motivazione del rigetto delle tesi e delle deduzioni contrarie a quelle condivise, può ritenersi adeguatamente soddisfatta dal giudice anche attraverso l’esame complessivo delle ragioni giustificative della decisione, allorché le articolazioni dello sviluppo argomentativo della sentenza appaiano tali da lasciar ritenere implicitamente superate le deduzioni disattese, per la logica incompatibilità delle stesse con l’obiettiva ricostruzione dei fatti operata dal giudice sulla base delle fonti probatorie richiamate e della coerente connessione delle stesse da parte del consulente richiamato.
4. Ciò posto, rileva il collegio come la corte territoriale abbia ricapitolato le scansioni del decorso causale che condusse al decesso della F. in termini di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, avendo proceduto a un’analitica ricostruzione esplicativa della causa della morte della paziente sulla base di rilievi scientificamente fondati e adeguatamente corroborati attraverso un’esauriente caratterizzazione probatoria della fattispecie concreta, sì da pervenire alla ricostruzione del nesso causale tra il decesso e le omissioni imputate al D. in termini di elevata probabilità logica prossima alla certezza, in ogni caso oltre il parametro del ragionevole dubbio, in assenza di alcun indice probatorio idoneo a prospettare la sussistenza di ragionevoli o plausibili decorsi causali alternativi.
In particolare, con riguardo alle cause del decesso della paziente, la corte territoriale ha evidenziato come il consulente tecnico del pubblico ministero, diversamente dall’ausiliario della difesa, avesse avuto modo di procedere personalmente all’esame autoptico della vittima, successivamente provvedendo alla redazione di una dettagliatissima relazione tecnica dalla quale è emerso l’accertamento, al di là di ogni ragionevole dubbio, della riconducibilità della causa della morte della F. a una precipitazione dall’alto.
Sul punto, i giudici d’appello hanno evidenziato la coerente valorizzazione della circostanza consistita nell’accertata compatibilità della distribuzione delle lesioni presenti esternamente sul corpo della donna e delle lesioni viscerali subite dalla stessa con un impatto in regione antero-laterale destra, integrando la valutazione con il risultato degli esami anatomoistopatologici, dai quali è emersa la sussistenza di evidenti danni a livello encefalico, mediastinico, nonché a carico dei polmoni e dei reni.
Da tale quadro, i giudici del merito hanno apprezzato la coerente conseguenza tratta dal consulente dell’accusa circa l’avvenuta compromissione acuta e irreversibile delle funzioni vitali della donna, estrinsecatasi nella sopravvenuta insufficienza cardiocircolatoria e respiratoria esitata nel decesso. La Corte territoriale ha quindi rilevato come il consulente tecnico dell’accusa avesse ritualmente e correttamente proceduto a confrontarsi con le prospettazioni alternative avanzate dalla difesa, evidenziandone l’assoluta incondivisibilità, escludendo che gli elementi probatori complessivamente acquisiti (e sottoposti a serrata valutazione critica) fossero valse a confermare la riconducibilità delle fratture riportate dalla F. all’azione rianimatoria posta in essere nell’immediatezza del fatto dal dottor Napoli, ovvero che il decesso della stessa potesse causalmente ricollegarsi all’azione di un ipotetico ictus cerebrale, nella specie escluso da tutti dati clinici rilevati in sede autoptica.
Giova sottolineare, al riguardo, come la corte d’appello si sia incaricata di esaminare, punto per punto, tutti gli argomenti tecnico-scientifici al riguardo sollevati dalla difesa, giungendo a destituire di fondamento tutte le valutazioni dei consulenti di parte attraverso la segnalazione del relativo carattere frammentario o generico e, in ogni caso, della ragionevole incompatibilità delle stesse rispetto ai dati obiettivi acquisiti al processo.
Quanto all’accertamento dell’effettivo stato dei luoghi e alle condizioni del rinvenimento della vittima, i giudici di appello hanno evidenziato, con motivazione logicamente coerente e linearmente argomentata, come gli elementi di prova acquisiti al processo avessero consentito di affermare la certa possibilità per la F. di accedere all’impalcatura realizzata attorno all’edificio della casa di cura attraverso la scala a pioli esistente ai piedi del ponteggio (documentata dei rilievi fotografici), senza neppure poter escludere la possibilità di un accesso attraverso le porte interne dell’edificio.
Neppure è mancata, nell’articolazione argomentativa della corte territoriale, la specificazione delle condizioni del rivestimento dell’impalcatura, caratterizzata dalla presenza di fori e di strappi, come attestato dal verbale di sopralluogo, dalle dichiarazioni del maresciallo S. e dal figlio della vittima, non smentiti, sul punto, dalla documentazione fotografica prodotta dalla difesa, realizzata successivamente al fatto a seguito di una più che plausibile modificazione dello stato dei luoghi, come plausibilmente argomentato, sul piano logico-argomentativo, nella motivazione della sentenza impugnata; rilievo critico da estendere alle stesse considerazioni dettate dalla corte territoriale in relazione ai rilievi fotografici della difesa e alla posizione ivi attribuita al corpo della vittima, largamente pregiudicata dalle contraddizioni puntualmente enumerate dai giudici d’appello.
Quanto agli estremi della colpa dell’imputato (di cui i giudici del merito hanno evidenziato i corretti presupposti di legittimazione della relativa posizione di garanzia, neppure contestata in questa sede), la corte territoriale ha avuto modo di specificare come la vittima soffrisse da molto tempo di una grave forma di depressione, come attestato dalla diagnosi di ingresso nella casa di cura, in cui compare la sussistenza, a carico della paziente, di una depressione del tono dell’umore, ansia, insonnia, ideazione negativa a sfondo suicidario e labilità emotiva, aggiungendo come la presenza di idee di suicidio nella F. fosse attestata anche nella cartella clinica, sia nella parte relativa all’anamnesi che in quella riservata all’esame psichico.
Sul piano della valutazione tecnica, la patologia psichiatrica della F. è stata quindi inquadrata nelle forme di un “disturbo bipolare II” o psicosi maniaco-depressiva che si caratterizza per l’alternarsi di episodi di malattia con momenti di compenso; una malattia caratterizzata da un alto rischio di suicidio, valutabile come trenta volte superiore rispetto quello della popolazione generale.
La corte territoriale ha quindi evidenziato come il consulente del pubblico ministero avesse fedelmente registrato la circostanza costituita da due precedenti tentativi di suicidio già messi in atto nel tempo dalla F. , coerentemente definita come paziente major et grand repeaters in una fase terminale, attestata da una recrudescenza della sintomatologia depressiva, come evidenziato in sede medica e confermato dalle significative testimonianze delle persone (i figli della donna e la dottoressa B. , di cui la corte territoriale ha coerentemente evidenziato le ragioni della relativa piena attendibilità) che ebbero ad avere ravvicinatissimi contatti con la paziente nell’imminenza del suicidio.
Ciò posto, la corte territoriale ha evidenziato come in modo pienamente coerente sul piano logico e plausibile in termini tecnico-scientifici l’ausiliario dell’accusa avesse sottolineato il carattere di soggetto ad alto rischio della paziente per la quale, secondo le linee-guida più riconosciute nel settore specifico psichiatrico, si rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico, a una stretta sorveglianza, intesa come assistenza della paziente ventiquattr’ore su ventiquattro.
Tale misura non fu in nessun caso e in nessun momento adottato nei confronti della paziente, che risultò pienamente libera di muoversi per tutto l’edificio senza alcuna sorveglianza.
Sul punto, varrà richiamare l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele (Sez. 4, Sentenza n. 48292 del 27/11/2008, Rv. 242390).
Particolarmente significativa, nel senso della conferma della grave negligenza dell’imputato, è apparsa, secondo la lineare argomentazione della corte territoriale, la circostanza della falsa affermazione, rilasciata dal D. al figlio della paziente poche ore prima del suo suicidio, circa l’avvenuta sospensione della somministrazione del farmaco che la stessa aveva in precedenza assunto, la cui dose iniziale era stata viceversa triplicata.
Proprio le condizioni della paziente evidenziatesi nell’imminenza del fatto, le notizie anamnestiche legate alle precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione, rendevano con evidenza largamente prevedibile, e altamente intenso sul piano obiettivo, il rischio di un rinnovato tentativo di suicidio della donna, che viceversa l’imputato ebbe a trascurare e dunque a gestire con manifesta superficialità e scoperta negligenza.
Con motivazione immune da vizi d’indole logica o giuridica, la corte territoriale ha quindi tratto la conclusione che, laddove l’imputato avesse assicurato una stretta e continua sorveglianza della paziente, l’evento lesivo oggetto di giudizio non si sarebbe verificato con certezza, secondo una valutazione prognostica ex ante condotta in coerenza al principio dell’elevata probabilità logica e credibilità razionale.
Da ultimo, la corte d’appello ha correttamente escluso l’applicabilità dell’art. 3 del d.l. n. 158/2012 conv. nella legge n. 189/2012, essendo nella specie propriamente mancata l’osservanza delle regole tecniche trasfuse nelle linee-guida da osservare nel caso di specie, che avrebbero nell’occasione imposto la predisposizione di una stretta e continua sorveglianza della donna ventiquattr’ore su ventiquattro, dall’imputato totalmente omessa.
Il complesso delle argomentazioni dettate nella motivazione della sentenza d’appello, in relazione alla ricostruzione del nesso causale tra il decesso della paziente e la condotta colpevole dell’imputato, deve dunque ritenersi completo ed esauriente, immune da vizi d’indole logica o giuridica, come tale pienamente idoneo a sottrarsi a tutte le censure sul punto avanzate dall’odierno ricorrente.
5. L’accertata infondatezza di tutti i motivi di ricorso in questa sede avanzati dall’imputato non esime peraltro il collegio dal rilievo dell’intervenuta prescrizione del reato per il quale il D. è stato tratto a giudizio, trattandosi di un’ipotesi di omicidio colposo da ritenersi consumato alla data del 17/10/2006, in relazione al quale non risultano essersi verificati periodi di sospensione della prescrizione sufficienti a ritenere la stessa non ancora maturata.
Al riguardo, occorre sottolineare, in conformità all’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, come, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontri nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una “constatazione”, che a un atto di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (v. Cass., n. 35490/2009, Rv. 244274).
E invero il concetto di “evidenza”, richiesto dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p., presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato (cfr. Cass., n. 31463/2004, Rv. 229275).
Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui “positivamente” deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (v. Cass., n. 26008/2007, Rv. 237263).
Tanto deve ritenersi certamente non riscontrabile nel caso di specie, avendo questa Corte positivamente riscontrato l’infondatezza di tutte le doglianze avanzate dall’odierno ricorrente avverso la sentenza di condanna pronunciata nei propri confronti.
Ne discende che, ai sensi del richiamato art. 129 c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio in relazione agli effetti penali per essere il reato contestato estinto per prescrizione.
6. La rilevata infondatezza dei motivi di ricorso avanzati dall’imputato – di là dall’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla condanna penale pronunciata a carico del D. a causa dell’intervenuta prescrizione – impone peraltro la conferma delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, in conformità alle previsioni di cui all’art. 578 c.p.p..

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.

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