cinghiale

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 4806  del 26 febbraio 2013

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 193 del 2004, il Giudice di pace di Teano condannava la Regione Campania al pagamento in favore S.G. della somma di Euro 900,00 oltre interessi, a titolo di risarcimento dei danni subiti dall’autovettura dell’attore in data (omissis) in (omissis), a causa di un cinghiale che si era improvvisamente immesso sulla sede stradale.
La decisione, gravata da impugnazione della Regione Campania, era parzialmente riformata con sentenza in data 15.12.2006 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che – confermata la legittimazione passiva dell’appellante – riduceva l’importo dovuto a titolo di risarcimento ad Euro 650,00 oltre interesse, in ragione del limitato concorso di colpa del danneggiato; compensava nella misura del 25% le spese del doppio grado del giudizio e condannava la Regione Campania alla rifusione del residuo importo di tali spese.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Regione Campania, svolgendo cinque motivi.
Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte intimata.

Motivi della decisione

1. Il Tribunale ha motivato la sua decisione rilevando che la L. 11 febbraio 1992, n. 157 affida alle regioni a statuto ordinario i poteri di gestione, controllo e tutela della fauna selvatica, costituenti patrimonio indisponibile dello Stato e che siffatti poteri, affiancandosi in posizione sovraordinata a quelli riconosciuti alle province in materia di caccia e protezione faunistica, dapprima dall’art. 14 della stessa legge n. 157/1992 e ora dall’art. 19 d.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, comportano che spetta alle stesse regioni adottare tutte le misure idonee a evitare tal genere di danni a persone e cose, non solo impartendo le opportune disposizioni alle province e agli altri enti gestori di riserve, oasi e parchi naturali, ma anche verificando la corretta esecuzione delle misure prescritte e attuando gli interventi sostitutivi richiesti per il caso di perdurante inerzia degli enti gestori.
Quanto alla concreta responsabilità per il sinistro per cui è causa, esclusa l’applicabilità alla fauna selvatica dei principi di cui all’art. 2052 cod. civ., il Tribunale ne ha attribuito la colpa alla Regione Campania ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. – con un limitato concorso di colpa del danneggiato, in ragione del 25%, in considerazione del fatto che una moderata condotta di guida avrebbe diminuito l’entità del danno – sul rilievo che l’animale aveva fatto irruzione sulla strada all’improvviso e che l’evento era sicuramente prevedibile da parte della Regione, atteso che si trattava di una zona di ripopolamento e cattura di cinghiali, in cui si verificati molti incidenti analoghi, negli anni precedenti, sì che l’appellante avrebbe dovuto approntare misure di vigilanza e, in particolare, invitare la Provincia a predisporre adeguata segnaletica stradale oppure avvalersi dei poteri sostitutivi ad essa riconosciuti dalla legge.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1, 9 e 19 L. 157/1992, 17 L.R. n. 8/1996, 19 del d.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (art. 360 n.3 cod. proc. civ.), nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n.5 cod. proc. civ.). Al riguardo parte ricorrente, articolando quesito di diritto, deduce l’erronea individuazione della legittimazione passiva in ordine alla domanda risarcitoria di danni causati da fauna selvatica su strada provinciale, assumendo che essa spettava alla sola Provincia e non alla Regione Campania; in particolare osserva che, in base alla normativa indicata in rubrica, non tutti i poteri di controllo in materia di fauna selvatica risultano delegati alle regioni, ma solo quelli necessari al perseguimento delle finalità previste dalla norma, non essendo in particolare le stesse regioni tenute ad adottare misure idonee ad evitare che la fauna selvatica arrechi danni a terzi e tantomeno ai veicoli in circolazione.
1.2. Il motivo – pur deducendo congiuntamente violazione di legge e vizio motivazionale – propone, esclusivamente, una questione di diritto, afferente alla legittimatio ad causam dal lato passivo, ergo alla astratta configurabilità, nel rapporto così come dedotto dall’attore, di un potere di azione dello stesso nei confronti del soggetto contro il quale la domanda è stata proposta.
Ritiene il Collegio che la decisione impugnata ha fatto corretta applicazione del principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la Regione, in quanto obbligata ad adottare tutte le misure idonee ad evitare che la fauna selvatica arrechi danni a terzi, è responsabile ex art. 2043 cod. civ. dei danni cagionati da un animale selvatico a persone o cose il cui risarcimento non sia previsto da specifiche norme (Cass., 24 ottobre 2003, n. 16008; Cass., 24.9.2002, n. 13907).

In particolare è stato osservato che – sebbene la fauna selvatica rientri nel patrimonio indisponibile dello Stato e sia tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale – la L. 11 febbraio 1992, n.157, recante la disciplina in materia di protezione della fauna selvatica omeoterma e di prelievo venatorio, attribuisce alle regioni a statuto ordinario l’emanazione di norme relative al controllo e alla protezione di tutte le specie della fauna selvatica (art. 1, comma 3), alle stesse affidando i connessi, necessari poteri gestori, mentre riserva alle province le funzioni amministrative ad esse delegate ai sensi del d.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (e precedentemente ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142). Invero costituisce principio generale del nostro ordinamento che le regioni, laddove non vi si oppongano esigenze di carattere unitario, organizzano l’esercizio dei compiti amministrativi a livello locale attraverso i comuni e le province (art. 118 Cost.; art. 4 d.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), derivandone, di conseguenza, che la regione, anche in caso di delega di funzioni alle province, è responsabile, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., dei danni provocati da animali selvatici a persone o a cose, il cui risarcimento non sia previsto da specifiche norme, a meno che la delega non attribuisca alle province un’autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentire loro di svolgere l’attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. 21 febbraio 2011, n. 4202; Cass. 6 dicembre 2011, n. 26197; Cass. civ. 8 gennaio 2010, n. 80).
Nel caso di specie – precisato che la L.R. Campania n. 8 del 1996, (abrogata dall’art. 42, comma 4, L.R. 9 agosto 2012, n. 26, ma applicabile ratione temporis) stabilisce che la Regione Campania provvede, conformemente a quanto disciplinato, in via generale, dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 alla tutela le specie faunistiche viventi anche temporaneamente sul territorio regionale (art. 1) nell’interesse della comunità regionale, nazionale ed internazionale (art. 2, comma 1), prevedendo che siano delegate alle province le funzioni amministrative in materia di caccia, salvo quelle espressamente riservate dalla stessa legge e dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157, alla Regione (art. 9) e segnatamente riservando alla Giunta regionale il coordinamento dei piani faunistici provinciali, nonché, in caso di inadempienza, l’esercizio di poteri sostitutivi di cui al comma 10. dell’art. 10 della già citata legge 11 febbraio 1992, n. 157 (art. 11) – costituisce corretta applicazione della regola di cui all’art. 2043 cod. civ. l’individuazione nella stessa Regione del soggetto, correlativamente gravato dell’obbligo di adottare tutte le misure idonee ad evitare che la fauna selvatica arrechi danni a terzi.
È il caso di aggiungere che il richiamo di parte ricorrente all’art. 26 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, che dispone che sia costituito un apposito fondo regionale per il risarcimento dei c.d. danni non altrimenti risarcibili (e all’analogo art. 26 della L.R. Campania n. 8 del 1996), non è conducente ai fini di cui trattasi, giacché la norma riguarda i danni arrecati dagli animali alle coltivazioni ed ai fondi agricoli che non siano imputabili a colpa di alcuno, il rischio del cui verificarsi sia inevitabilmente collegato alla stessa esistenza della fauna selvatica, laddove, nel caso di specie, il soggetto passivamente legittimato va individuato alla stregua dei generali principi della responsabilità aquiliana.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 cod. civ., 112 e 163 cod. proc. civ. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.) e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.).
3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 co. 2 cod. civ. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.) e omessa,insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n.5 cod. proc. civ.).

3.1. I due motivi si esaminano congiuntamente, giacché esprimono un’unica sostanziale censura, e cioè che la responsabilità ex art. 2043 c.c. per i danni provocati dalla fauna selvatica sia stata affermata dal Tribunale sulla base del solo fatto storico dell’incidente, senza che venisse accertata e, prima ancora, allegata e provata la responsabilità per colpa della Regione.
3.2. I suddetti motivi, per una parte, riecheggiano il tema della pretesa “sussidiarietà” dei compiti della Regione in materia rispetto a quelli della Provincia, già sotteso al primo motivo di ricorso, in relazione al quale può sinteticamente rinviarsi alle considerazioni già svolte sub 1.2. e, per altra parte, svolgono censure di stretto merito, alla luce del principio costantemente affermato da questa Corte, secondo cui la ricostruzione delle modalità del fatto generatore del danno, la valutazione della condotta dei singoli soggetti che vi sono coinvolti, l’accertamento e la graduazione della colpa, l’esistenza o l’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, integrano altrettanti giudizi di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità se il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico.
Va in particolare precisato che, nella specie, parte ricorrente non sviluppa argomentazioni in diritto sulla denunziata violazione dell’art. 2697 cod. civ. nel senso inteso dalla giurisprudenza di legittimità in tema di motivi ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. e cioè, non lamenta che il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata, secondo le regole dettate da quella norma. Del resto il Tribunale è pervenuto all’impugnata decisione, svolgendo argomentazioni basate su risultanze istruttorie astrattamente idonee allo scopo e regolarmente acquisite – segnatamente in punto di accertamento della prevedibilità dell’evento, desunto dalle stesse ammissioni della Regione in ordine alla localizzazione del sinistro in una zona di ripopolamento e cattura cinghiali, oltre che dalle emergenze della prova testimoniale circa la frequenza, nella stessa zona, di incidenti similari – e correlativamente evidenziando che siffatta ricostruzione fattuale corrispondeva alla prospettazione difensiva di parte attrice, laddove aveva addebitato alla Regione di essersi “comportata con negligenza, imprudenza ed imperizia per avere omesso di adottare tutte le misure idonee ad evitare il fatto dannoso”.
Del resto il principio dell’onere della prova non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere, giacché nel nostro ordinamento vige il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute – ivi incluse quelle desumibili ex art.116 cod. proc. civ. dal comportamento delle parti – concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, per cui non è ravvisabile alcuna violazione dell’onere in questione; mentre, per quanto attiene alle censure di segno motivazionale – prima ancora dell’inammissibilità delle stesse per mancanza del c.d. quesito di fatto – rileva la mera assertività della doglianza, al più tradotta in una mera valutazione alternativa rispetto a quella offerta dal giudice del merito.
In definitiva i motivi all’esame vanno rigettati.
4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n.5 cod. proc. civ.) sul riconoscimento di un limitato concorso di colpa del danneggiato.
5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n.5 cod. proc. civ.) in ordine alla determinazione quantitativa del danno.
5.1. Entrambi i motivi sono inammissibili, perché privi della “chiara indicazione” (c.d. quesito di fatto) richiesta dalla seconda parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., la quale secondo i canoni elaborati da questa Corte, applicabili ratione temporis alla fattispecie in esame, per la riconosciuta ultrattività della norma nonostante la sua formale abrogazione – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, da cui risulti non solo “il fatto controverso” in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ma anche – se non soprattutto – “la decisività” del vizio, e cioè le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (cfr. Sez. Unite, 1 ottobre 2007, n.20603; Cass. ord., 18 luglio 2007, n.16002; Cass. ord. 7 aprile 2008, n.8897). Tale requisito non può, dunque, ritenersi rispettato quando solo la completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di un’interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure (Cass., ord. 18 luglio 2007, n. 16002).
In conclusione il ricorso va rigettato.
Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di legittimità non avendo parte intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Roma, lì 29 gennaio 2013

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