Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza n. 33157 del 31 luglio 2013
Ritenuto in fatto
Con decreto di giudizio immediato emesso in data 19 giugno 2008 M.R. veniva chiamato a rispondere davanti al Tribunale di Siracusa dei reati di cui agli artt. 600 ter, 81 e 600 quater c.p. per aver diffuso, tramite programma di file sharing e-mule installato sul proprio computer, file contenenti materiale pedopornografico e per aver detenuto all’interno di 3 hard disk del proprio PC ed in CD-rom numerosi filmati e fotografie contenenti materiale pedopornografico.
Difatti durante una perquisizione effettuata dalla Guardia di Finanza di Siracusa in data 26 marzo 2008, nell’abitazione del M. era stato reperito un computer connesso alla rete internet ed in funzione con il programma di file shearing denominato E-mule. Al momento della perquisizione altri utenti della rete stavano scaricando dal PC del M. alcuni files dal contenuto pedopornografico: infatti il computer era in fase di downloading.
Sulla base di tali circostanze il Tribunale di Siracusa con sentenza emessa in data 19 gennaio 2009 dichiarava il M. responsabile dei suddetti reati di pornografia minorile e di detenzione di materiale pornografico e lo condannava alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione e 2.500 euro di multa.
Proposto appello dal difensore dell’imputato, la Corte di Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escludeva il concorso tra la cessione e la detenzione del materiale pedopornografico in quanto la condotta di detenzione rappresenta un antefatto non punibile rispetto alla condotta di cessione, rimanendo la prima assorbita nella seconda. Di conseguenza, escludeva la punibilità del M. anche per il reato di cui all’art. 600 quater c.p. e rideterminava la pena in anni 1 e mesi 4 di reclusione e 2.000 euro di multa.?Avverso tale pronuncia ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell’imputato lamentando l’errata applicazione dell’art. 600 ter comma 3 c.p. e la manifesta illogicità della motivazione sul punto.
Ritenuto in diritto
In sostanza la difesa censura la ritenuta esistenza dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 600 ter co. 3 c.p. e l’illogicità della motivazione addotta in proposito dalla Corte di appello. Nota correttamente il ricorrente che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in esame richiede la volontà consapevole di divulgare o, comunque, diffondere il materiale pedopornografico mentre non basta la mera accettazione del rischio di diffonderlo. In altre parole, la norma richiede un dolo intenzionale ed esclude il dolo eventuale.
Orbene secondo la difesa il giudice di primo grado e la Corte di appello avrebbero ricavato l’elemento psicologico del reato dal solo fatto che l’imputato stava utilizzando un programma di condivisione quale E-mule e ciò non è sufficiente a ritenere provata una volontà consapevolmente diretta alla divulgazione. Al più, afferma il ricorrente, si potrebbe ritenere sussistente l’accettazione del rischio di una diffusione che, come già detto, non è sufficiente ad integrare l’elemento psicologico richiesto dalla fattispecie in esame.
Inoltre la difesa sottolinea l’illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza nella misura in cui prima afferma che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 600 ter co. 4 occorre non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico ma anche la specifica volontà di distribuirlo; e, poi, ritiene che nel caso di specie essa sussista in quanto il computer era in funzione ed altri utenti stavano scaricando da esso files a contenuto pedopornografico: “fatto palese da quanto appariva sul monitor alla stregua delle dirette constatazioni degli operatori di PG”. A detta del ricorrente da tale inciso deriva un palese contrasto logico tra l’affermata necessità di accertare il dolo specifico della divulgazione e la successiva sostenuta sufficienza a tal fine del dato riscontrato dei mero impiego del programma di condivisione e-mule.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto. Come più volte precisato da questa stessa corte, infatti, per ritenere sussistente l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 600 ter c.p. occorre la prova della consapevolezza e della volontà diretta a divulgare il file contenente il materiale pedopornografico come avviene, ad esempio, nell’ipotesi in cui il soggetto dopo aver scaricato il suddetto materiale lo inserisca in un’apposita cartella destinata alla condivisione.
Orbene, quando, come nel caso di specie, manca la prova di una specifica volontà di divulgazione del materiale de quo, è possibile presumere solo una volontà corrispondente al comportamento effettivamente tenuto dal soggetto: cioè una volontà di procurarsi i suddetti files scaricandoli dalla rete e non anche: una volontà di diffonderli.
Del resto lo stesso codice agli artt. 600 ter e 600 quater c.p.p. distingue tra dolo diretto a procurarsi e a detenere materiale pedopornografico e dolo diretto a diffondere tale materiale.
Dunque dalla sussistenza di un dolo diretto a procurarsi e detenere non si può ricavare automaticamente anche la presenza di un dolo diretto a diffonderlo.
In altri termini l’esistenza di un dolo diretto in concreto non alla sola acquisizione ma anche alla divulgazione deve risultare da elementi precisi e inequivocabili e non può certo desumersi dal semplice fatto che il soggetto ha fatto uso di un determinato programma quale e-mule.
Una diversa soluzione porta a conseguenze eccessive: la mera volontà di acquisire un file illecito tramite un programma come e-mule implicherebbe sempre e comunque anche la volontà di divulgarne il contenuto stante le modalità di funzionamento di tali programmi che, come è noto, permettono l’upload senza che sia necessario alcun intervento volto a porre il file scaricato in condivisione.
A ben vedere si prospetterebbe una sorta di presunzione assoluta di esistenza della volontà di diffusione fondata sul solo fatto che il soggetto per procurarsi il file pedopornografico abbia fatto ricorso ad un programma di condivisione e non abbia impiegato un altro metodo.
Né peraltro si può ricavare la volontà di diffusione dal fatto che il soggetto conosceva le modalità di funzionamento del programma e-mule in quanto una siffatta cognizione non implica automaticamente anche una volontà di divulgazione. Al contrario è necessario valutare il comportamento in concreto tenuto dall’imputato verificando, ad esempio, se lo stesso trasferiva i files scaricati in apposita cartella o supporto oppure era solito inserirli nella cartella dei files posti in condivisione.?Nella motivazione della sentenza di appello manca una verifica quale quella appena delineata: la Corte di appello pone a fondamento della ritenuta esistenza dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 600 ter il solo fatto che il M. stava scaricando delle materiale pornografico impiegando un programma di file-sharing.
La sentenza impugnata deve quindi essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catania per nuovo giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Catania.
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