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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 14535 del 10 giugno 2013

Svolgimento del processo

1. Il Giudice di pace di Roma, con sentenza del 17 giugno 2003, condannava E.D.S. e la s.p.a. Lloyd Adriatico al pagamento in favore di S.L., a titolo di risarcimento danni conseguenti ad un sinistro stradale, della somma di Euro 1.127,67, oltre interessi e con il carico delle spese.
2. La sentenza veniva appellata dal L. e dal suo difensore Avv. P., quest’ultimo in relazione all’omessa pronuncia in ordine alla domanda di distrazione in suo favore delle spese di lite.
Il Tribunale di Roma, con sentenza dell’11 settembre 2006, rigettava l’appello proposto dal L., accoglieva quello dell’Avv. P. in favore del quale ordinava la distrazione delle spese liquidate con la sentenza di primo grado e compensava le spese di secondo grado.

Osservava il Tribunale che l’appello del L. era infondato in quanto il primo giudice aveva esattamente escluso l’importo dell’IVA dalla somma liquidata per sorte capitale, poiché il preventivo depositato era inidoneo a dimostrare l’avvenuto effettivo pagamento della somma richiesta dal riparatore del mezzo e, conseguentemente, della relativa imposta. L’eventuale liquidazione dell’IVA, quindi, si sarebbe risolta in un indebito arricchimento a danno della parte soccombente.
Quanto all’entità delle spese liquidate in primo grado, il Tribunale rilevava che, non essendo stata depositata la relativa nota, la denunziata violazione dei minimi tariffari era da ritenere priva di dimostrazione; il Giudice di pace, quindi, aveva correttamente liquidato le spese in via equitativa in riferimento al valore della domanda accolta, non sussistendo un obbligo di liquidarle al minimo della tariffa. Né poteva tenersi conto del tardivo inserimento della nota spese relativa al giudizio di primo grado avvenuta nel testo dell’appello, sussistendo altrimenti una violazione dell’art. 345 del codice di procedura civile.
3. Avverso la sentenza del Tribunale di Roma propone ricorso L.S., con atto affidato a quattro motivi e sostenuto da memoria.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3) e 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 cod. civ., oltre ad omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Rileva il ricorrente che alla luce della sentenza 14 ottobre 1997, n. 10023, di questa Corte, il risarcimento del danno comprende anche l’IVA, pur se la riparazione non sia ancora avvenuta e manchi la relativa fattura, perché l’imposta deve essere per legge addebitata al committente il lavoro di riparazione. La violazione di legge si tradurrebbe, secondo il L. , anche in vizio di motivazione, non avendo la sentenza adeguatamente motivato sulle ragioni di esclusione dell’IVA.
1.2. Il motivo è fondato.
Questa Corte, con la sentenza n. 10023 del 1997 richiamata nel ricorso, confermata dalla più recente sentenza 27 gennaio 2010, n. 1688, ha affermato che, poiché il risarcimento del danno patrimoniale si estende agli oneri accessori e consequenziali, se esso è liquidato in base alle spese da affrontare per riparare un veicolo, il risarcimento comprende anche l’IVA, pur se la riparazione non è ancora avvenuta – e a meno che il danneggiato, per l’attività svolta, abbia diritto al rimborso o alla detrazione dell’IVA versata – perché l’autoriparatore è tenuto per legge ad addebitarla, a titolo di rivalsa, al committente (art. 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).
La sentenza impugnata non si è attenuta a tale principio e deve essere, quindi, cassata sul punto.
2.1. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in ordine al medesimo punto oggetto del precedente motivo.
Rileva il ricorrente, al riguardo, di avere a suo tempo avanzato domanda, in via subordinata, di condanna delle due convenute al pagamento dell’IVA con una pronuncia condizionata, ossia una pronuncia che condannasse al pagamento anche dell’imposta subordinatamente alla presentazione della fattura da parte dell’appellante, mentre il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla relativa domanda.
2.2. L’esame di tale motivo è assorbito dall’accoglimento del precedente.
3.1. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3) e 5), cod. proc. civ., omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, oltre a violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, dell’art. 60, quarto comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, nonché degli artt. 1 e 4 della tariffa forense allegata al d.m. 5 ottobre 1994, n. 585.

Si rileva, in proposito, che l’inottemperanza all’obbligo di deposito della nota spese fa sì che la relativa determinazione debba avvenire sulla base degli atti del procedimento; il giudice, pertanto, è tenuto a verificare le risultanze di causa e a liquidare le spese distinguendo tra diritti ed onorari. Il fatto controverso sarebbe costituito, secondo il ricorrente, dalla “questione della dimostrazione della violazione dei minimi tariffari e dei medesimi sottintesi importi fissi ed esborsi su cui si è illogicamente motivato, indi la risoluzione negativa adottata”.
Quanto alla violazione di legge, il ricorrente censura l’affermazione del Tribunale secondo cui l’omissione della nota spese non rende obbligatoria l’osservanza dei minimi tabellari, in mancanza di una norma in tal senso.
3.2. Anche questo motivo è fondato.
La sentenza d’appello ha dato conto del fatto che il giudice di primo grado ha liquidato le spese di giudizio in favore del L. in assenza dì nota spese, stabilendo una somma unica, comprensiva di diritti ed onorari. Il Tribunale ha poi aggiunto – fraintendendo il reale contenuto della sentenza 16 gennaio 2003, n. 554, di questa Corte – che in tal caso il giudice di merito non ha l’obbligo di liquidarle al minimo della tariffa, non essendo siffatta prescrizione imposta da alcuna norma. A suo dire, pertanto, il giudice di primo grado aveva correttamente proceduto alla liquidazione delle spese in via equitativa.
Tale decisione va incontro a più di una censura.
L’attenta lettura della motivazione della sentenza ora citata, innanzitutto, avrebbe consentito al Tribunale di verificare che in quella pronuncia è stato affermato un principio esattamente contrario: questa Corte, cioè, investita di un ricorso nel quale si pretendeva, in assenza di nota spese, che queste dovessero essere liquidate al minimo, ha affermato che “nessuna norma impone la liquidazione ai minimi in assenza di notula”, così riconoscendo che la liquidazione può anche essere superiore ai minimi, ma non certo inferiore (v. sentenza 23 maggio 2003, n. 8158).
L’ulteriore giurisprudenza, del resto, ha affermato che il rispetto dei minimi tariffari costituisce un elemento inderogabile e che, in assenza della nota spese, il giudice è tenuto comunque alla liquidazione d’ufficio, determinando i compensi in base ad una puntuale verifica dell’attività svolta (sentenze 9 febbraio 2000, n. 1440, 18 giugno 2003, n. 9700, e 13 maggio 2011, n. 10663). La liquidazione globale delle spese, diritti ed onorari non è consentita, dovendo invece essere eseguita in modo tale da mettere la parte interessata in grado di controllare se il giudice abbia rispettato i limiti delle relative tabelle e così darle la possibilità di denunciare le specifiche violazioni della legge o delle tariffe (sentenza 8 marzo 2007, n. 5318, nonché sentenza 25 novembre 2011, n. 24890).
Questa Corte ha anche più volte ribadito che la liquidazione delle spese processuali, in particolare sotto il profilo della scelta tra i minimi e i massimi tariffari, costituisce valutazione discrezionale del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per violazione dei minimi tariffari, nel qual caso la violazione deve essere dedotta con riferimento non solo alle singole voci ma anche agli importi considerati, così da consentire alla Corte il controllo senza l’esame degli atti, trattandosi di error in iudicando (v., fra le altre, le sentenze 4 marzo 2003, n. 3178, 7 agosto 2009, n. 18086, e 4 luglio 2011, n. 14542); il ricorrente, cioè, non può limitarsi ad una generica denuncia del principio di inderogabilità, ma ha l’onere di indicare specificamente ed analiticamente i singoli importi a lui spettanti (sentenza 19 aprile 2006, n. 9082).
L’odierno ricorrente ha provveduto, nel caso in esame, ad indicare voce per voce le attività da lui svolte e la controparte, rimasta intimata in questa sede, non ha ritenuto di contestare alcunché al riguardo.
Ne consegue l’accoglimento del presente motivo.
4.1. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 4) e 5), cod. proc. civ., falsa applicazione dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. oltre ad omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
In tale motivo si censura l’affermazione del Tribunale secondo cui della nota spese inserita tardivamente nel testo dell’atto di appello non potrebbe tenersi conto alla stregua dell’art. 345 del codice di rito. La nota spese, secondo il ricorrente, non sarebbe un mezzo di prova, bensì un atto di parte che il giudice deve valutare alla stregua delle emergenze processuali.
4.2. L’accoglimento del terzo motivo di ricorso esime questa Corte dall’esame del quarto, che rimane assorbito.
5. In conclusione, il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata.
Il giudizio va rinviato al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, che deciderà attenendosi ai principi sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, che provvedere anche in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

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