Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza del 3 dicembre 2012, n. 46736
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 15 marzo 2012, il Tribunale di Messina ha rigettato la richiesta di riesame proposta dal prevenuto avverso l’ordinanza del 27 febbraio 2012 del Gip dello stesso Tribunale, con la quale era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere in relazione ai reati di cui agli artt. 600 ter, terzo comma, e 600 quater, secondo comma, cod. pen., per la divulgazione e la detenzione di un’ingente quantitativo di materiale pedopornografico.
2. – Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di impugnazione, si rilevano l’erronea applicazione della legge penale, il travisamento della prova, la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, perché non si sarebbe tenuto conto della particolare tipologia del fatto e delle dinamiche soggettive, le quali avrebbero potuto al massimo far ritenere configurabile il reato di cui all’art. 600 quater cod. pen., che richiede la mera consapevolezza della detenzione del materiale. L’indirizzo IP corrispondente al computer dell’indagato non consentirebbe – ad avviso della difesa – l’individuazione univoca di tale soggetto, anche perché le operazioni compiute dai programmi sono spesso frutto di processi informatici automatici e standardizzati; con la conseguenza che potrebbe essere ritenuta provata solo la volontà dell’indagato di acquisire e visionare il materiale pedopornografico, ma non la volontà di diffondere tale materiale. Né sarebbero sufficienti a tal fine gli elementi presi in considerazione dal Tribunale, e cioè: il rinvenimento di parte del materiale pornografico in una cartella diversa da quella nella quale venivano automaticamente riversati i file scaricati; il quantitativo di file scaricati utilizzando un programma di file sharing; la piena comprensibilità del contenuto pornografico di tali file. Si sottolinea, in particolare, che un soggetto con normali cognizioni informatiche, quale l’indagato, ha difficoltà a rendersi conto della reale capacità diffusiva di programmi come Emule e non è, comunque, in grado di porre limiti alla condivisione dei file, che avviene già durante lo scaricamento e anche se tali file sono incompleti.
2.2. – Si deducono, in secondo luogo, l’inosservanza degli artt. 274 e 275 cod. proc. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione circa la ritenuta sussistenza dei presupposti per l’emissione della misura custodiale. La difesa lamenta, in particolare, che il Tribunale avrebbe basato la sua decisione su assunti tautologici disancorati dalla reale condotta tenuta dall’indagato e dai risultati delle investigazioni, in particolare omettendo di considerare la resipiscenza dell’indagato stesso e la sostanziale inconsistenza dei suoi precedenti penali. Né la misura della custodia cautelare in carcere potrebbe essere irrogata sulla semplice considerazione della difficoltà o del costo di eventuali verifiche sulla condotta tenuta dell’indagato nell’eventuale esecuzione della misura alternativa degli arresti domiciliari.
Considerato in diritto
3. – Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
3.1. – Il primo motivo di impugnazione – con il quale si contesta, sostanzialmente, la motivazione dell’ordinanza impugnata circa la consapevolezza in capo all’indagato della diffusione dei file contenenti immagini pedopornografiche – è infondato.
3.1.1. – Come evidenziato dalla giurisprudenza di questa Corte, affinché sussista il dolo del reato di cui all’art. 603 ter, comma 3, cod. pen., occorre che sia provato che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing. Va ricordato, infatti, che l’art. 600 ter, comma 3, richiamato punisce, tra l’altro, chiunque “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza” il materiale pedopornografico. Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perché il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che, nello stesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito, soltanto perché stanno utilizzando questi (e non altri) programmi, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere. Del resto, le due suddette esigenze ben possono essere entrambe soddisfatte perché, con indagini adeguate, è possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza del vero contenuto dei file detenuti. Una diversa interpretazione, secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (sez. 3, 10 novembre 2011, n. 44065, Rv. 251401; sez. 3, 12 gennaio 2010, n. 11082; sez. 3, 7 novembre 2008, n. 11169).
3.1.2. – Venendo al caso in esame, deve rilevarsi che il Tribunale ha correttamente applicato tali principi, perché ha desunto la volontà dell’indagato di diffondere il materiale pedopornografico da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing. Con iter logico analitico e coerente, ha, infatti, rilevato che: a) non tutti i file contenenti gli illeciti filmati erano posti nella cartella di condivisione del programma Emule; b) molti dei file presenti sul computer dell’indagato erano stati resi disponibili per il download da parte di altri utenti ed erano stati effettivamente scaricati; c) la condivisione dei file non era occasionale, perché è avvenuta per periodi compresi tra un minimo di due mesi e un massimo di un anno e tre mesi e l’indagato aveva operato una selezione dei file da condividere; d) i titoli dei file posti in condivisione rendevano immediatamente comprensibile il loro contenuto pedopornografico; e) la diffusione di tale materiale non coincideva, dunque, con il solo momento del download, ma era avvenuta più volte nel tempo, con la conseguenza che il programma non era stato utilizzato solo per procurarsi il materiale in questione.
3.2. – Quanto alle esigenze cautelari – oggetto del secondo motivo di gravame – l’ordinanza impugnata contiene una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente, perché esamina e confuta tutti i rilievi difensivi, poi riprodotti nel relativo motivo di ricorso per cassazione, evidenziando che: a) il quantitativo dei file dal contenuto pedopornografico divulgato e detenuto è ingente; b) vi è una particolare pervicacia dell’indagato nella perpetrazione dei reati, che emerge dal notevole tempo di detenzione e messa in condivisione dei video, la quale induce ad escludere l’occasionalità della condotta; c) la facilità dell’accesso alla rete Internet da qualsiasi luogo domestico e la particolare dedizione del soggetto alla materia inducono a ritenere insufficiente la misura degli arresti domiciliari; d) i precedenti penali dell’indagato evidenziano una sua scarsa capacità di astenersi dalla commissione di reati.
4. – Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di spese processuali.
Depositata in Cancelleria il 03.12.2012
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