Cassazione toga nera

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  9 maggio 2014, n. 19116

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 19/09/2013, depositata in data 5/10/2013, il tribunale della libertà di Bologna ha confermato l’appello cautelare proposto dal ricorrente avverso l’ordinanza emessa dal GIP presso il medesimo tribunale in data 12/07/2013, con cui era stata rigettata l’istanza ex art. 299 c.p.p., volta alla revoca della misura cautelare detentiva carceraria, emessa il 19/03/2013, applicata al ricorrente T.I. per carenza di gravi indizi.
2. Giova premettere, al fine di una migliore comprensione, che il ricorrente è indagato:
a) per il reato di riciclaggio (capo V, relativo a fatti commessi in Rimini tra l’anno 2008 ed l’anno 2012) in quanto, avendo egli accettato la carica di amministratore di diritto e di socio unico della Gescredit Romagna s.r.l., di fatto amministrata dal coindagato B.D. , ed avendo consentito ad accendere a nome della società due c/c su cui il B. aveva fatto transitare denaro per circa 427.000 Euro di origine delittuosa in quanto provenienti dalle condotte di peculato, corruzione in atti giudiziari ed altro, ne avrebbe ostacolato l’identificazione della provenienza illecita;
b) per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti ex art. 8, d. lgs. n. 74/00, perché nella qualità predetta, avrebbe posto in essere tale condotta al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sull’IVA negli anni 2011/2012 (capi U ed O, commessi in Rimini).
3. Ha proposto tempestivo ricorso il T. , a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, impugnando l’ordinanza predetta e deducendo un unico motivo di ricorso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. Deduce, con tale unico, articolato, motivo, la manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, travisamento del fatto ed erronea applicazione dell’art. 43 c.p. in relazione agli artt. 648-bis c.p. ed 8, d. lgs. n. 74/00.
In sintesi, dopo aver ricostruito fattualmente la vicenda, la difesa rileva come il T. non avesse mai avuto consapevolezza del programma criminoso posto in essere dal B. , il quale non risulta avesse mai comunicato al ricorrente (il rivestiva la qualifica di amministratore di diritto), che sul conto della società sarebbero confluite ingenti somme di denaro, con il rischio che questi, con un semplice bonifico, le trasferisse altrove; in sostanza, dunque, egli sarebbe stato raggiunto da ordinanza custodiale solo per aver aderito alla richiesta del B. , assumendo che il ricorrente abbia accettato di fare da “prestanome”, sufficiente per ritenere che, a titolo di dolo generico o eventuale, questi potesse prefigurarsi la possibilità che il c/c sarebbe stato utilizzato per porre in essere le illecite condotte di riciclaggio e false fatturazioni; a giudizio della difesa, tuttavia, le decisioni di legittimità richiamate nell’ordinanza applicativa sulla responsabilità del prestanome, non sarebbero applicabili al caso in esame, in quanto, con riferimento all’imputazione di riciclaggio, l’intestazione fittizia riguardava la società e non il c/c, sicché l’accensione del c/c da parte del ricorrente costituiva il naturale corollario della costituzione della società, essendo intercorso il rapporto bancario con la società e non con il T. quale persona fisica; l’argomento utilizzato dal tribunale sarebbe altresì illogico, in quanto secondo il tribunale il T. doveva prefigurarsi la possibilità che sul c/c, il cui reale gestore non voleva personalmente comparire, venissero depositate somme di illecita provenienza, affermazione illogica in quanto l’intestazione fittizia aveva ad oggetto la società e non il c/c; inoltre, generica sarebbe l’affermazione contenuta nell’ordinanza secondo cui “chi non vuol comparire come titolare di un c/c normalmente ha qualcosa da nascondere”, in quanto la prevedibilità nell’apprezzamento dell’elemento soggettivo del reato deve riguardare un accadimento concreto, e, secondo la difesa, plurime possono essere le ragioni che possono spingere una persona a non voler comparire come amministratore di una società, senza che il prestanome debba necessariamente prefigurarsi il peggio. Né, tantomeno commettere i reati addebitati, anche perché, se lo avesse previsto, o si sarebbe rifiutato, o avrebbe chiesto di partecipare alla spartizione dei profitti, cosa mai avvenuta.
Analogo vizio motivazionale inficerebbe l’ordinanza impugnata, nella parte in cui afferma che quanto affermato per il reato di riciclaggio riguarderebbe anche il reato tributario, senza tuttavia spiegarne le ragioni, dimenticando che la qualità di amministratore di diritto non comporta automaticamente la responsabilità penale per i reati commessi dall’amministratore di fatto; infine, le affermazioni del tribunale si appalesano manifestamente illogiche nella parte in cui, da un lato, incentrano l’analisi sull’intestazione fittizia del c/c per sostenere che il ricorrente doveva presagire il riciclaggio e, dall’altra, incentra sull’intestazione fittizia delle società per affermare che il prestanome avrebbe dovuto immaginare l’emissione di fatture per operazioni inesistenti.
4. Con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 23/01/2014, la difesa del ricorrente ha illustrato con una memoria le ragioni dell’estraneità, soprattutto sotto il profilo soggettivo del ricorrente ai fatti addebitati, evidenziando che l’omissione di controllo può essere frutto di negligenza e non di dolo, sicché la mera assunzione della carica di amministratore non sarebbe sufficiente ad addebitare al prestanome a titolo di dolo eventuale qualunque illecito commesso a sia insaputa dall’amministratore di fatto; non risulterebbe, in ogni caso, alcun elemento indiziario che consenta di cogliere segnali di allarme in merito all’affidabilità del proponente o in merito alla correttezza della futura gestione societaria; nella fattispecie, la prova dell’elemento soggettivo dei reati addebitati, non può essere considerata in re ipsa, insita nell’accettazione della funzione di prestanome, sicché il tribunale avrebbe dovuto valutare in concreto l’elemento psicologico, tenendo conto che il ricorrente, mai ha avuto possibilità di ingerenza nell’amministrazione della società né di consultare documentazione.

Considerato in diritto

4. Il ricorso è parzialmente fondato, nei limiti e per le ragioni di cui si dirà oltre.
5. Deve premettersi che le valutazioni compiute dal giudice ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale devono essere fondate, secondo le linee direttive della Costituzione, con il massimo di prudenza su un incisivo giudizio prognostico di “elevata probabilità di colpevolezza”, tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché di tipo “statico” e condotto, allo stato degli atti, sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero, e non su prove, ma su indizi (Corte Cost, sent. n. 121 del 2009, ord. n. 314 del 1996, sent. n. 131 del 1996, sent. n. 71 del 1996, sent. n. 432 del 1995).
La specifica valutazione prevista in merito all’elevata valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, che devono tradursi in un giudizio probabilistico di segno positivo in ordine alla sua colpevolezza, mira, infatti, a offrire maggiori garanzie per la libertà personale e a sottolineare l’eccezionalità delle misure restrittive della stessa.
Il contenuto del giudizio da farsi da parte del giudice della cautela è evidenziato anche dagli adempimenti previsti per l’adozione dell’ordinanza cautelare. L’art. 292 c.p.p., come modificato dalla L. n. 332 del 1995, prevedendo per detta ordinanza uno schema di motivazione vicino a quello prescritto per la sentenza di merito dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), impone, invero, al giudice della cautela sia di esporre gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, di indicare gli elementi di fatto da cui sono desunti e di giustificare l’esito positivo della valutazione compiuta sugli stessi elementi a carico, sia di esporre le ragioni per le quali ritiene non rilevanti i dati conoscitivi forniti dalla difesa, e comunque a favore dell’accusato (comma 2, lett. c) e c bis).
5.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono di per sé a dimostrare, oltre ogni dubbio, la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995, dep. 01/08/1995, Costantino e altro, Rv. 202002, e, tra le successive conformi, Sez. 2, n. 3777 del 10/09/1995, dep. 22/11/1995, Tomasello, Rv. 203118; Sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, dep. 15/04/1999, Capriati e altro, Rv. 212998; Sez. 6, n. 2641 del 07/06/2000, dep. 03/07/2000, Dascola, Rv. 217541; Sez. 2, n. 5043 del 15/01/2004, dep. 09/02/2004, Acanfora, Rv. 227511).
A norma dell’art. 273 c.p.p., comma 1-bis, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per l’adozione di una misura cautelare personale si applicano, tra le altre, le disposizioni contenute nell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, (Sez. F, n. 31992 del 28/08/2002, dep. 26/09/2002, Desogus, Rv. 222377; Sez. 1, n. 29403 del 24/04/2003, dep. 11/07/2003, Esposito, Rv. 226191; Sez. 6, n. 36767 del 04/06/2003, dep. 25/09/2003, Grasso Rv. 226799; Sez. 6, n. 45441 del 07/10/2004, dep. 24/11/2004, Fanara, Rv. 230755; Sez. 1, n. 19867 del 04/05/2005, dep. 25/05/2005, Cricchio, Rv. 232601).
Relativamente alle regole da seguire, questo Collegio ritiene che, alla stregua del condivisibile orientamento espresso da questa Corte, dell’art. 273 c.p.p., comma 1-bis, nel delineare i confini del libero convincimento del giudice cautelare con il richiamo alle regole di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, pone un espresso limite legale alla valutazione dei “gravi indizi”.
5.2. Si è, inoltre, osservato che, in tema di misure cautelari personali, quando sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame riguardo alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il controllo di legittimità è limitato, in relazione alla peculiare natura del giudizio e ai limiti che ad esso ineriscono, all’esame del contenuto dell’atto impugnato e alla verifica dell’adeguatezza e della congruenza del tessuto argomentativo riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (tra le altre, Sez. 4, n. 2050 del 17/08/1996, dep. 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104; Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998, dep. 01/02/1999, Sabatini G., Rv. 212565; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, dep. 02/05/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 2, n. 9532 del 22/01/2002, dep. 08/03/2002, Borragine e altri, Rv. 221001; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, dep. 08/06/2007, Terranova, Rv. 237012), senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini (tra le altre, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, dep. 12/12/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; Sez. 1, n. 1496 del 11/03/1998, dep. 04/07/1998, Marrazzo, Rv. 211027; Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999, dep. 08/02/2000, Alberti, Rv. 215331). Il detto limite del sindacato di legittimità in ordine alla gravità degli indizi riguarda anche il quadro delle esigenze cautelari, essendo compito primario ed esclusivo del giudice della cautela valutare “in concreto” la sussistenza delle stesse e rendere un’adeguata e logica motivazione (Sez. 1, n. 1083 del 20/02/1998, dep. 14/03/1998, Martorana, Rv. 210019).
Peraltro, secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema di misure cautelari, “l’ordinanza del tribunale del riesame che conferma il provvedimento impositivo recepisce, in tutto o in parte, il contenuto di tale provvedimento, di tal che l’ordinanza cautelare e il provvedimento confermativo di essa si integrano reciprocamente, con la conseguenza che eventuali carenze motivazionali di un provvedimento possono essere sanate con le argomentazioni addotte a sostegno dell’altro” (Sez. 2, n. 774 del 28/11/2007, dep. 09/01/2008, Beato, Rv. 238903; Sez. 6, n. 3678 del 17/11/1998, dep. 15/12/1998, Panebianco R., Rv. 212685).
6. Tanto premesso è quindi possibile affrontare l’unico, articolato, motivo, di cui emerge, la parziale fondatezza.
7. Deve, anzitutto, rilevarsi, con riferimento al perimetro della cognizione del giudice dell’appello cautelare, che questi non deve riesaminare le condizioni legittimanti il provvedimento restrittivo, ma deve solo valutare i nuovi elementi allegati siano o meno idonei a modificare apprezzabilmente il quadro probatorio.
Trattasi di principio più volte affermato da questa Corte che, sul punto, ha infatti sottolineato che la decisione del giudice sull’appello avverso la ordinanza di rigetto della richiesta di revoca di misura cautelare è vincolata, oltre che dall’effetto devolutivo proprio di questo tipo di impugnazione, anche dalla natura del provvedimento impugnato, del tutto autonomo rispetto a quello impositivo della misura stessa. Ne consegue che in tale sede il Tribunale non è tenuto a riesaminare la questione della sussistenza delle condizioni legittimanti il provvedimento restrittivo (specialmente quando queste siano già state verificate con la procedura di cui all’art. 309 cod. proc. pen.), bensì soltanto a controllare – salvo l’applicabilità dell’art. 299 comma primo cod. proc. pen. – che l’ordinanza gravata sia giuridicamente corretta e adeguatamente motivata in ordine ad eventuali allegati nuovi fatti, preesistenti o sopravvenuti, idonei a modificare apprezzabilmente il quadro probatorio o a escludere la sussistenza di esigenze cautelari (Sez. 1, n. 961 del 13/02/1996 – dep. 28/05/1996, Cotugno, Rv. 204696).
Il tribunale del riesame di Bologna, nel procedere alla valutazione dell’appello proposto, ha fatto buon governo di tale principio, rivalutando il compendio indiziario alla luce della nuove allegazioni difensive contenute nel memoriale prodotto dalla difesa in prossimità dell’udienza camerale ex art. 310 cod. proc. pen..
7.1. Quanto, poi, al tema della responsabilità del ricorrente e, dunque, con riferimento alla configurabilità del grave quadro indiziario, sia sotto il profilo oggettivo che – per quanto qui di interesse – anche sotto il profilo soggettivo, è pacifico che il ricorrente abbia accettato di fungere da “prestanome” per l’intestazione della società che per l’accensione del c/c societario. Osserva, tuttavia, il Collegio che quanto affermato dal tribunale a proposito della configurabilità del delitto di riciclaggio, sotto il profilo soggettivo, è sicuramente corretto, attesa la natura di reato a dolo generico del delitto di cui all’art. 648-bis cod. pen. (Sez. 2, n. 546 del 07/01/2011 – dep. 11/01/2011, P.G. in proc. Berruti, Rv. 249445).
Ed infatti, è stato affermato da questa Corte che l’amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Sez. 3, n. 22919 del 06/04/2006 – dep. 04/07/2006, Furini, Rv. 234474).
Diversamente, non può essere condiviso da questa Corte quanto affermato dal tribunale del riesame a proposito dell’ulteriore imputazione afferente al reato tributario contestato ai capi o) ed u) della rubrica. Ed infatti, è pacifico che il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti richiede quale elemento soggettivo il dolo specifico (di favorire l’evasione fiscale di terzi: Sez. 3, n. 17525 del 17/03/2010 – dep. 07/05/2010, Mura, Rv. 246991).
Ne consegue, dunque, che la responsabilità penale dell’amministratore di diritto può sì essere affermata, posto che risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento ex artt. 40, cpv., cod. pen. e 2932 cod. civ., ma a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesta della norma penale incriminatrice (v., sul punto: Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011 – dep. 10/06/2011, Ceravolo, Rv. 250962).
Orbene, nel caso in esame, ciò che difetta è proprio il necessario approfondimento in ordine alla configurabilità del dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale della condotta prevista dall’art. 8, d. lgs. n. 74/2000, atteso che l’equiparazione operata sul piano motivazionale in relazione alla configurabilità soggettiva dei due illeciti (riciclaggio e reato tributario), non è sostenibile, attesa, come detto, la diversa natura del dolo (generico, per il primo; specifico, per il secondo), ciò che impone un approfondimento in sede di rinvio.
8. L’impugnata ordinanza dev’essere pertanto annullata, limitatamente ai capi in cui è contestato il reato tributario, con rinvio per nuovo esame al tribunale di Bologna. Nonostante il parziale rigetto, nel resto, del ricorso, non dev’essere pronunciata condanna alle spese processuali.
Ed invero, al parziale accoglimento dell’impugnazione dell’imputato deve conseguire l’esclusione della sua condanna alle spese del procedimento di impugnazione (v., per tutte: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 – dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207947).

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente ai capo o) ed u) della rubrica, con rinvio al tribunale di Bologna. Rigetta, nel resto, il ricorso.

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