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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  9 luglio 2013, n. 29071

Ritenuto in fatto

 

1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Con la sentenza impugnata, i ricorrenti si sono visti confermare dalla Corte d’appello la condanna loro inflitta per la violazione dell’art. 167 d.lgs. 196/03.
Tale accusa si fonda sul fatto che essi, nelle qualità di delegati alla raccolta di firme di sottoscritto/elettori delle liste di candidati (B. per la Lista … e M. per la Lista (omissis) ), ai fini dell’ammissione alla competizione elettorale del (omissis) , avevano formato degli elenchi di sottoscrittori con un numero imprecisato di Firme false e false indicazioni di documenti identificativi utilizzando i nominativi di elettori effettivamente esistenti del Comune di … i cui dati anagrafici erano stati prelevati da un CD Rom fornito a pagamento dallo stesso Comune di … esclusivamente per propaganda elettorale.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso, tramite difensore, deducendo:
1) erronea applicazione della legge e vizio motivazionale nella risposta che i giudici hanno dato alla eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 167 d.lgs. 196/03 da loro formulata in relazione all’art. 76 cost., vale a dire, per eccesso di delega dal momento che, detto in estrema sintesi:
– il Governo aveva ricevuto delega per emanare “disposizioni integrative” della normativa già esistente in materia di dati personali (l 675/96) ma la norma da integrare, asseritamente, non esiste più perché oggetto di specifica abrogazione da parte di quella stessa legge che avrebbe dovuto integrarla;
– la legge delega non conteneva alcuna previsione della possibilità di sanzionare materia penalmente le condotte;
– la legge delega prevedeva, per l’emanazione del decreto legislativo, un termine che non è stato rispettato;
2) erronea applicazione della legge penale, quanto al merito, perché non sussistenti gli elementi strutturali della fattispecie delittuosa ipotizzata.
In particolare, si ricorda che:
– non vi è stata alcuna “sistematicità” nella comunicazione e diffusione perché, al contrario, una volta presentate le liste presso la commissione elettorale, ed effettuato il vaglio di ammissione o meno della lista stessa, le firme raccolte dai sottoscrittori perdono ogni ulteriore utilizzo e rimangono giacenti presso l’archivio della commissione elettorale in corte d’appello.
A tal fine, si fa notare che:
– i giudici non hanno fornito risposta all’analogo rilievo e si richiama, in proposito, la sentenza n. 5728/04 di questa S.C. che richiede, appunto, il requisito della sistematicità;
– non vi è stato profitto visto che non è stata provata la tesi secondo cui le liste delle quali gli imputati sono rappresentanti hanno raggiunto il quorum proprio grazie all’impiego di tali firme. Manca pertanto la prova del profitto;
– il nocumento non è stato provato perché non può considerarsi tale la lesione dell’interesse giuridicamente rilevante dell’appartenenza o meno ad un partito. In primo luogo, infatti, la sottoscrizione della lista non equivale ad iscrizione al partito stesso e comunque la scelta elettorale non è certo condizionata. Anche in tal caso, si richiama l’attenzione sulla sentenza n. 30134/04 di questa Corte di legittimità che sottolinea la necessità del nocumento come elemento costitutivo della fattispecie;
– manca il dolo perché esso è dato dal “fine di recare ad altri un danno” mentre qui non è stato dimostrato e, nella sentenza, non se ne parla.
I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

3. Motivi della decisione – L’eccezione di illegittimità costituzionale è irrilevante, tuttavia, nel merito, il ricorso deve essere accolto perché la fattispecie concreta in esame non è riconducibile nella previsione normativa di cui all’art. 167 196/03.
3.1. Il primo motivo, come visto, contiene una questione di legittimità costituzionale che, tuttavia, la Corte ha bene esaminato evocando le decisione di questa S.C. nelle quali è stato asserito che, tra la fattispecie dell’art. 35 L n. 675 del 1996 e quella dell’art. 167 D.Lgs. n. 196 del 2003, “sussiste un rapporto di continuità normativa, essendo identici sia l’elemento soggettivo sia gli elementi oggettivi, in quanto le condotte di comunicazione e “diffusione” dei dati sensibili sono ora ricomprese nella più ampia dizione di “trattamento” dei dati sensibili, ed il nocumento per la persona offesa, che si configurava nella previgente fattispecie come circostanza aggravante, rappresenta, nella nuova disposizione, una condizione obiettiva di punibilità” (sez. III, 5.3.08, Amorosi, Rv. 239898; Sez. III, 26.3.04, Modena, Rv. 229465).
In ogni caso, deve qui soggiungersi, non vi è dubbio che la nuova previsione sia anche più favorevole della precedente, non solo, sul piano sanzionatorio, ma anche per il fatto di “restringere” in qualche modo la operatività della nozione di “nocumento”.
Pertanto, anche se molto sincreticamente, il discorso della Corte è corretto ed errano i ricorrenti quando lamentano una assenza di risposta alle loro censure sul punto quasi che il richiamo al significato ed alla portata della successione di leggi nel tempo non avesse pertinenza.
Al contrario, i giudici di merito – richiamando il concetto espresso dalla giurisprudenza di legittimità circa i rapporti tra la norma del 1996 e quella del 2003 – hanno esattamente voluto replicare alle critiche relative alla pretesa assenza di delega per sanzionare penalmente la condotta descritta nell’art. 167 d.lgs. 196/03.
Semmai, l’unico appunto che può muoversi, sotto tale profilo, alla motivazione impugnata è di avere dichiarato la manifesta infondatezza della questione costituzionale laddove, invece, essa era – ed è – addirittura irrilevante, visto che, stante la citata continuità normativa, non si può ravvisare nella questione sollevata dai ricorrenti un rapporto di strumentante tra la risoluzione della questione e la decisione del giudizio principale.
Ed infatti, la pregiudizialità necessaria della questione di costituzionalità, rispetto alla decisione del giudizio di merito “va intesa considerando tale decisione come conclusiva di un itinerario logico in cui ciascuno dei passaggi necessari può dar luogo ad un incidente di costituzionalità ogni qual volta che il giudice dubita della legittimità costituzionale delle disposizioni normative che in quel momento è chiamato ad applicare per la prosecuzione e/o la definizione del giudizio” (C. cost. 3.3.82, n. 53).
Come anticipato, alcun dubbio ricorre nella specie anche per l’ulteriore – e non marginale – ragione che la legge delega di cui si discute era finalizzata ed integrare e riordinare una disciplina già esistente, sostituendola in toto come consegue naturalmente dal rilievo che l’art. 183 d.lgs. 196/03 dispone l’abrogazione espressa della 675/96. Oltretutto, il d.lgs. 196/03 è un “testo unico” – come recita lo stesso art. 1 – ed, in quanto tale, ha lo scopo precipuo di dare omogeneità ad un complesso di norme che disciplinano la stessa materia coordinando tra loro le varie disposizioni esistenti ed, ovviamente, sostituendole.
Di qui, l’abrogazione della pregressa disciplina senza, per ciò stesso, farne venire meno i contenuti che siano stati ripresi negli stessi termini (o quasi) nella nuova normativa.
3.2. Conformemente a quanto anticipato, il ricorso merita accoglimento nel merito, che viene trattato nel secondo motivo.
La sentenza impugnata, a riguardo, è, infatti, censurabile, non solo, perché è priva di adeguato apparato motivazionale sui punti portati alla sua attenzione dai ricorrenti ma, comunque, perché, effettivamente, le caratteristiche della vicenda che vede come protagonisti gli imputati, pur avendo portato alla luce un loro comportamento certamente non specchiato sotto il profilo della correttezza, non è tuttavia tale da dar vita all’elemento oggettivo costitutivo della fattispecie criminosa ipotizzata.
Il concetto che il reato di trattamento illecito di dati personali (art. 35 l. 31 dicembre 1996, n. 675, oggi art. 167 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196) “non è integrato se il trattamento dei dati avvenga per fini esclusivamente personali, senza una loro diffusione o destinazione ad una comunicazione sistematica” è stato ripetutamente affermato da questa S.C. (sez. III, 17.11.04, Paciocco, Rv. 230834; Sez. V, Polimenl, Rv. 241966).
Ne deriva che, colgono nel segno le obiezioni dei ricorrenti quando richiamano l’attenzione sul fatto che i dati personali dei quali essi hanno fatto un uso improprio sono stati impiegati esclusivamente in occasione della presentazione delle liste presso la commissione elettorale e, quindi, una volta operato il vaglio di ammissibilità della lista stessa, esse rimangono (e sono, in effetti rimaste) inutilizzate presso gli archivi della corte d’appello.
Deve, quindi, escludersi, all’evidenza, qualsiasi “sistematicità” nella condotta di diffusione o comunicazione dei dati stessi.
Come si osservava, non solo, la Corte non si é pronunciata sulla medesima questione ad essa sottoposta, ma, anche a voler verificare la motivazione del Tribunale (che, come noto, da luogo, insieme a quella d’appello, ad un unico apparato argomentativo quando venga da quest’ultima confermata), si constata che essa richiama proprio la sentenza n. 5728/04 che però è favorevole alla tesi dei ricorrenti.
Per completezza, si deve stigmatizzare anche l’assenza di una replica adeguata, da parte della Corte d’appello, a proposito del dolo. Tale concetto viene, infatti, abbastanza sommariamente ed impropriamente associato a quello di nocumento sostenendo – giustamente – che esso è dato dal “fine di profitto” ma finendo, poi, per sovrapporre il concetto di profitto con quello di nocumento attraverso al sintetica e, non molto chiara, affermazione che il dolo sarebbe da intendere “in senso lato come finalità perseguita, a prescindere dal concetto raggiungimento matematico del quorum attraverso il computo delle false sottoscrizioni”.
In tal modo, non viene neppure messa a fuoco l’effettiva natura del “profitto” che, nella specie, gli imputati volevano lucrare e che era (abbastanza intuitivamente) da identificare nell’obiettivo di vedere le rispettive liste ammesse alla competizione elettorale.
In ogni caso, già l’assenza, sopra evidenziata, dell’elemento della “diffusività” è sufficiente ad impedire la strutturazione dell’ipotesi astratta prevista dalla norma e giustifica la decisione di annullamento che si va qui adottando.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p., dichiara irrilevante la questione di legittimità costituzionale.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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