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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 9 febbraio 2015, n. 5735

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto – Sezione Distaccata di Lipari, con sentenza emessa in data 3/10/2012, a seguito di giudizio abbreviato condizionato, conseguente ad opposizione a decreto penale di condanna, ha dichiarato G.D. responsabile del reato di cui all’art. 659, comma 1 cod. pen., così qualificata l’originaria imputazione, riferita al comma 2 del medesimo articolo e lo ha condannato alla pena dell’ammenda, con riferimento ad una condotta di abuso di strumento sonori in ore notturne nell’ambito di un’attività di discoteca (in (omissis) ).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 461, commi 1, 3 e 4 e 464, comma 3 cod. proc. pen., lamentando che il giudice dell’opposizione ha tardivamente ammesso l’imputato al rito alternativo, richiesto soltanto nel corso del giudizio immediato, mentre avrebbe dovuto dichiarare la richiesta della difesa tardiva ed inammissibile, celebrando il giudizio nelle forme ordinarie.
Osserva che, in ogni caso, il Tribunale avrebbe dovuto trasmettere gli atti al giudice naturale competente e, cioè, a quello che aveva emesso il decreto penale di condanna e che, in caso di richiesta tempestiva, avrebbe dovuto definire il processo con il rito abbreviato.
3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 441-bis, 423 e 521 e ss. cod. proc. pen., rilevando che l’originaria imputazione riguardava l’art. 659, comma 2 cod. pen. e che il giudice, senza che il Pubblico Ministero procedesse a nuove o diverse contestazioni e senza previo avviso all’imputato della possibilità di un termine a difesa, aveva riqualificato il fatto, così ledendo i diritti della difesa, che aveva scelto il rito condizionando la richiesta all’esame di un teste ed alla produzione di documenti in relazione all’incolpazione iniziale.
4. Con un terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando che il giudice del merito avrebbe erroneamente interpretato l’art. 659 cod. pen., il quale, avuto riguardo al contenuto del secondo comma, prevede la sanzione penale, con riferimento ai mestieri ed attività rumorose, solo per la inosservanza di prescrizioni diverse da quelle concernenti le emissioni sonore, restando queste ultime soggette, in caso di superamento dei limiti di legge, alla sola sanzione amministrativa, mentre l’ambito di operatività del primo comma sarebbe, invece, residuale e riguarderebbe tutte le altre emissioni sonore lesive della pubblica quiete diverse da quelle originate da attività o mestieri rumorosi.
Aggiunge che la sentenza impugnata sarebbe caratterizzata da manifesta illogicità laddove valuta le dichiarazioni rese dai denuncianti, dai dipendenti della discoteca e da altri soggetti, nonché nel valutare l’entità del fenomeno senza considerare che lo stesso si era verificato nel periodo estivo, nelle sole serate del sabato ed in una località turistica.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
Va ricordato, con riferimento al primo motivo di ricorso, come l’art. 461, comma 3 cod. proc. pen. stabilisca che l’imputato possa chiedere al giudice che ha emesso il decreto di condanna, con l’atto di opposizione al decreto penale, il giudizio immediato, il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma dell’articolo 444.
Il successivo art. 464, comma 3 stabilisce che, nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato non può chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena su richiesta, né presentare domanda di oblazione.
2. Si tratta, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, di una preclusione dettata dalla peculiarità del rito e dalla conseguente esigenza di celere definizione del procedimento, che rende necessaria la immediata specificazione delle scelte processuali dell’imputato, in relazione alle quali derivano incombenti diversi, indicati dalPart. 464, comma 1 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 34596 del 17/06/2010, Ciotola, Rv. 248336).
Tra queste, nel caso di opposizione con richiesta di giudizio abbreviato, vi è la fissazione con decreto dell’udienza da parte del giudice che ha emesso il decreto, il quale deve anche darne avviso, almeno cinque giorni prima, al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa.
La competenza funzionale a celebrare il giudizio abbreviato chiesto in sede di opposizione a decreto penale di condanna appartiene, pertanto, al giudice per le indagini preliminari (cfr. Sez. 4, n. 25987 del 20/2/2013, Carapezza, Rv. 257185; Sez. 1, n. 31345 del 19/6/2008, Capaldo, Rv. 240673; Sez. 1, Sentenza n. 38595 del 30/9/2005, Galbignani, Rv. 232948).
3. Nel caso di specie risulta che l’imputato è stato tratto a giudizio con decreto emesso a seguito di opposizione a decreto penale.
Il procedimento, dopo aver subito due rinvii – il primo per avverse condizioni meteorologiche marine che impedivano il raggiungimento della sede del Tribunale ed il secondo per l’omessa notifica del decreto di giudizio immediato all’imputato – veniva avviato, mutata la persona del giudice, all’udienza del 19/7/2012, in occasione della quale l’imputato, regolarmente comparso, chiedeva ed otteneva di poter definire il processo con giudizio abbreviato, condizionato all’escussione di un teste ed alla produzione di documenti.
Il processo veniva quindi definito dallo stesso giudice il quale, nel determinare la pena, applicava anche la prescritta diminuente per il rito.
4. Tali evenienze, chiaramente indicate nella sentenza impugnata, evidenziano che, effettivamente, la richiesta di giudizio abbreviato condizionato è stata proposta oltre il termine di legge ed il procedimento è stato celebrato dal Tribunale in composizione monocratica e non dal G.I.P..
Ciò posto, appare però di tutta evidenza che quanto verificatosi non ha prodotto alcuna lesione dei diritti della difesa e dell’imputato, il quale ha visto accolta la sua richiesta, benché tardiva ed ha beneficiato anche della riduzione della pena, dovuta per il rito prescelto, che non avrebbe invece potuto ottenere se il giudizio fosse stato celebrato nelle forme ordinarie.
Non risulta, inoltre che l’imputato o il suo difensore abbiano eccepito alcunché nel corso del giudizio, nell’ambito del quale sono state peraltro assunte, regolarmente e senza alcuna obiezione, le prove rispetto alle quali era stata condizionata la richiesta di giudizio abbreviato.
Il ricorrente si è quindi limitato a censurare l’accaduto soltanto con l’atto di impugnazione.
5. Deve ricordarsi che l’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. stabilisce che per proporre impugnazione è necessario avervi interesse.
È dunque di macroscopica evidenza la carenza di interesse del ricorrente ad impugnare un provvedimento che si è risolto nell’accoglimento di una sua esplicita richiesta.
Occorre invero ricordare anche che, secondo quanto più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite, l’interesse, quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l’impugnante determinando per il medesimo una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (ex pi. Sez. 5, n. 37677 del 10/07/2012, Cornicello, Rv. 254557; Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 (dep. 2012), Marinaj, Rv. 251693; Sez. 5, n. 32850 del 30/06/2011, Giuffrida, Rv. 250578; Sez. 3, n. 24272 del 24/3/2010, Abagnale, Rv. 247685; Sez. 2, n. 25715 del 28/5/2004, Fasano, Rv. 229724; Sez. 1, n. 47496 del 17/10/2003, Donnarumma, Rv. 226466; Sez. U, n. 7 del 25/6/1997, Chiappetta, Rv. 208165; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093; Sez. U, n. 10372 del 27/9/1995, Serafino, Rv. 202269). Ciò in quanto, si è pure precisato, non sussiste un diritto di impugnazione finalizzato alla sola esattezza teorica della decisione, senza alcun risultato pratico favorevole alla posizione giuridica del soggetto.
Il principio, peraltro, è stato ribadito ed applicato anche con riferimento ad un’ipotesi di inosservanza della competenza funzionale del Giudice per le indagini preliminari e celebrazione del giudizio abbreviato a seguito di opposizione a decreto penale innanzi al Tribunale monocratico (Sez. 1, Sentenza n. 31345 del 19/6/2008, Capaldo, Rv. 240673).
Va pertanto rilevato che nessun risultato favorevole potrebbe derivare al ricorrente dall’accoglimento del motivo di ricorso, il quale deve conseguentemente dichiararsi inammissibile per carenza di interesse all’impugnazione.
6. Per ciò che concerne, poi, il secondo motivo di ricorso, deve rilevarsi che lo stesso è infondato.
Va in primo luogo rilevato che, nel caso in esame, si verte in ipotesi di diversa qualificazione giuridica della condotta oggetto di imputazione e non anche di nuove contestazioni del Pubblico Ministero, cosicché il richiamo all’art. 441-bis cod. proc. pen. ed alle disposizioni cui esso rinvia non appare pertinente.
Pare opportuno richiamare, per una migliore comprensione della vicenda, il capo di imputazione che, riportato in sentenza, risulta così formulato: “del reato previsto e punito dall’art. 659, comma secondo c.p. poiché, quale titolare della discoteca denominata (…), abusando di strumenti sonori ed in particolare tenendo alto, in ore notturne, il volume degli impianti sonori della discoteca medesima, disturbava le occupazioni 6 il riposo delle seguenti persone [segue l’indicazione di 13 nomi, non rilevante per quel che qui interessa]. Aggravato ai sensi del secondo comma poiché l’indagato esercitava una professione o un mestiere rumoroso contro le prescrizioni dell’autorità. Accertato in (omissis) ”.
Va poi rilevato che l’analisi della questione prospettata consente anche di valutare, congiuntamente anche l’ulteriore censura formulata nella prima parte del terzo motivo di ricorso, la quale attiene, come si è detto in premessa, alla individuazione dell’ambito di applicazione del primo e del secondo comma dell’art. 659 cod. pen. anche alla luce della legge-quadro 447/95.
7. L’articolo 659 cod. pen., inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica, prevede due distinte ipotesi di reato: una, contemplata dal primo comma, che punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque determinato e cagionato con modalità espressamente e tassativamente determinate; l’altra, disciplinata dal secondo comma, che punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità.
8. La giurisprudenza di questa Corte non è unanime nell’individuare l’ambito di operatività della ipotesi contravvenzionale sanzionata dall’art. 659, comma 2 cod. pen., riscontrandosi tre diversi orientamenti: il primo che riconosce all’art.10 della legge quadro un effetto abrogativo integrale del secondo comma della disposizione codicistica; il secondo, che limita, invece, tale effetto abrogativo ai soli casi di superamento dei limiti fissato dalla legge-quadro verificatosi nell’ambito di esercizio di mestieri rumorosi, che resterebbero soggetti alla sola sanzione amministrativa prevista dalla legge-quadro, mentre la disposizione penale resta applicabile in caso di esercizio di attività rumorose in spregio a disposizioni impartite dall’autorità con modalità o per ragioni diverse da quelle prese in considerazione dalla legge quadro ed il terzo, che, in considerazione della diversità dei beni giuridici tutelati dall’art. 659 cod. pen. e dalla legge 447/1995, nega qualsiasi effetto abrogativo al menzionato art. 10 della legge-quadro (si rinvia, per i riferimenti specifici, alla relazione n. 33 del 15 maggio 2009 del Massimario che segue ed integra la precedente segnalazione di contrasto n. 48 del 22 maggio 2007).
9. Nelle successive pronunce la situazione di contrasto non è mutata, riscontrandosi adesioni al secondo (Sez. 1, n. 23866 del 9/6/2009, Valvassore, Rv. 243807; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 39852 del 12/6/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088;Sez. 1 n. 25601 del 19/4/2013, Casella, non massimata; Sez. 3, n. 13015 del 31/1/2014, Vazzana, Rv. 258702; Sez. 3, n. 42026 del 18/9/2014, Claudino, non massimata) ed al terzo (Sez. 1, n. 33413 del 7/6/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013 (dep. 2014), Giovannelli, Rv. 259156; Sez.3 n.37184 del 3/7/2014, Torricella, non massimata) degli indirizzi interpretativi richiamati, mentre il primo risulta, almeno al momento, del tutto abbandonato.
10. Va però osservato, con riferimento all’orientamento fondato sulla diversità del bene giuridico tutelato dalla norma codicistica e dalla legge quadro sull’inquinamento acustico, che una simile soluzione sembra essere ostacolata proprio dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge 447/95.
Si è infatti sostenuto (cfr., da ultimo Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013 (dep. 2014), Giovannelli, Rv. 259156, cit.) che la fattispecie penale di cui all’art. 659, comma 2 cod. pen. ”…contiene un elemento, mutuato da quella prevista nel comma 1, estraneo all’illecito amministrativo previsto dalla L. n. 447 del 1995, art. 10, comma 2, che tutela genericamente la salubrità ambientale: tale elemento è rappresentato proprio da quella concreta idoneità della condotta rumorosa, che determina la messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità tutelato da entrambi i commi dell’art. 659 cod. pen., a recare disturbo ad una pluralità indeterminata di persone”.
In effetti, l’art. 1 della legge 447/95, nell’individuare le finalità perseguite, specifica che “la presente legge stabilisce i principi fondamentali in materia di tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 117 della Costituzione”.
Nel successivo art. 2, ove vengono fornite le definizioni, si chiarisce, al comma 1, lett. a), che per inquinamento acustico si intende “l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”.
La lettera b) del medesimo comma fornisce, invece, la seguente descrizione di ambiente abitativo: “ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l’immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive”.
Alla luce di tali specificazioni, la evidenziata differenza del bene giuridico tutelato non sembra sostenibile, risultando, anzi, quello considerato dalla legge quadro ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno “inquinante”, tale cioè, da avere effetti negativi sull’ambiente, alterandone l’equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti.
11. Riguardo, invece, al diverso indirizzo che riconosce un rapporto di specialità tra l’art. 659, comma 2 cod. pen. e l’art. 10 della legge 447/95, merita attenzione il contenuto di quest’ultima disposizione, la quale punisce, con sanzione amministrativa pecuniaria, “chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di emissione o di immissione di cui all’articolo 2, comma 1, lettere e) e f), fissati in conformità al disposto dell’articolo 3, comma 1, lettera a)”.
Per sorgenti sonore fisse si intendono, secondo la definizione fornita dall’art. 2, comma 1, lett. c), “gli impianti tecnici degli edifici e le altre installazioni unite agli immobili anche in via transitoria il cui uso produca emissioni sonore; le infrastrutture stradali, ferroviarie, aeroportuali, marittime, industriali, artigianali, commerciali ed agricole; i parcheggi; le aree adibite a stabilimenti di movimentazione merci; i depositi dei mezzi di trasporto di persone e merci; le aree adibite ad attività sportive e ricreative”. Sono invece sorgenti sonore mobili “tutte le sorgenti sonore non comprese nella lettera c)” (art. 2, comma 1, lett. d).
Sempre lo stesso art. 2 definisce, alla lett. e), i valori limite di emissione come “il valore massimo di rumore che può essere emesso da una sorgente sonora, misurato in prossimità della sorgente stessa” e, alla lettera f), i valori limite di immissione come “il valore massimo di rumore che può essere immesso da una o più sorgenti sonore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno, misurato in prossimità dei ricettori”.
Detti limiti, ai fini dell’applicabilità della sanzione amministrativa, devono essere infine fissati secondo quanto stabilito dall’articolo 3, comma 1, lettera a) e, cioè, “a; sensi della legge 8 luglio 1986, n. 349, e successive modificazioni, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro della Sanità e sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano”.
Va a questo punto ricordato l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010 (dep. 2011), Di Lorenzo, Rv. 248722), secondo le quali, in caso di concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve trovare applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all’altra all’esito del confronto tra le rispettive fattispecie astratte.
Deve così ritenersi, avuto riguardo anche al contenuto dell’art. 659, comma 2, cod. pen., il quale, come è noto, sanziona “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’autorità”, che una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie si avrà soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima, restando conseguentemente escluso il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, oltre, ovviamente, tutte quelle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità.
12. Restano da considerare i rapporti intercorrenti tra il primo ed il secondo comma dell’art. 659 cod. pen., oggetto di plurime valutazioni da parte della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato che il reato di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen. resta assorbito in quello previsto dal secondo comma, avente medesima obiettività giuridica, se il disturbo sia arrecato nel normale esercizio di un mestiere rumoroso, mentre risulta integrato in via autonoma se l’esercizio del predetto mestiere eccede le sue normali modalità o ne costituisce uso smodato (cfr. Sez. 3, n. 42026 del 18/9/2014, Claudino, non massimata, cit.; Sez.3, n. 37313 del 3/7/2014, Scibelli, non massimata; Sez. 1, n. 46083 del 6/11/2007, Cerrito, Rv. 238168; Sez.l, n. 30773 del 25/5/2006, Galli, Rv. 234881).
In altre occasioni, più esplicitamente, si è operata una distinzione tra le due ipotesi contemplate dall’art. 659 cod. pen., rilevando che la condotta sanzionata dal secondo comma è soltanto quella costituita dalla violazione delle disposizioni della legge o delle prescrizioni dell’autorità che disciplinano l’esercizio della professione o del mestiere, mentre l’emissione di rumori eccedenti la normale tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone rientra nella previsione del primo comma, indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono, quindi anche nel caso in cui l’abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio della professione o del mestiere rumoroso (v. Sez. 1, n. 1075 del 6/12/2006 (dep. 2007), Raggio, Rv. 235791; Sez. 1, n. 382 del 19/11/1999 (dep. 2000), Piccioni, Rv. 215139; Sez. 1, n. 3908 del 26/3/1997, Cavallini, Rv. 207381; Sez. 1, n. 7188 del 2/5/1994, Sereni, Rv. 199730 ed altre prec. conf.).
Tali osservazioni sono pienamente condivisibili, atteso che, il secondo comma dell’art. 659 cod. pen. tiene conto della intrinseca rumorosità di determinate attività che il legislatore preventivamente disciplina attraverso disposizioni specifiche o apposite prescrizioni, la mera violazione delle quali viene penalmente sanzionata (qualora non si risolva nel solo superamento dei limiti fissati secondo le disposizioni della legge quadro), mentre il primo comma sanziona il disturbo della pubblica quiete, che ben può essere causato esorbitando dal normale esercizio di una determinata attività con condotte concretamente idonee a disturbare il riposo e le occupazioni di un numero indeterminato di di persone.
13. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, va pertanto affermato il principio secondo il quale l’ambito di operatività dell’art. 659 cod. pen., con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere individuato nel senso che, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i criteri di cui alla legge 447/95, mediante impiego o esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima, si configura il solo illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2 della legge quadro; quando, invece, la condotta si sia concretata nella violazione di disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere o dell’attività, sarà applicabile la contravvenzione sanzionata dall’art. 659 comma 2 cod. pen., mentre, nel caso in cui l’attività ed il mestiere vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1 cod. pen..
14. Fatta tale necessaria premessa, ritiene il Collegio, che, nella fattispecie in esame, emergono dalla sentenza impugnata alcuni dati fattuali significativi, che consentono di escludere, in primo luogo, che la condotta contestata si sia concretata nel mero superamento dei limiti di legge fissati per le emissioni sonore, dovendosi così escludere la possibile applicazione dell’art. 10 legge 447/1995 ed, in secondo luogo, che il fenomeno rumoroso disturbante sia stato cagionato esclusivamente dall’utilizzazione specifica di apparecchiature e strumenti tipici di una professione o un mestiere rumoroso, sebbene risultino violate anche le prescrizioni dell’autorità dettate per l’esercizio dell’attività svolta dal ricorrente.
Invero, il Tribunale pone in evidenza che, in alcuni casi, l’attività di discoteca era proseguita oltre l’orario fissato dall’autorizzazione amministrativa, che consentiva l’apertura del locale e le attività di intrattenimento danzante dalle 22,00 alle 3,00.
In particolare, osserva il giudice del merito che, nella notte del 4/7/2010, era giunta ai Carabinieri una segnalazione alle 3,15 del mattino e la cessazione dell’attività veniva constatata alle successive ore 3,40, mentre il 20/8/2010 un altro sopralluogo consentiva di rilevare che il locale era in attività alle 3,05. In occasione di altro accertamento, effettuato il 16/8/2010, rileva sempre lo stesso giudice, la cessazione della musica veniva accertata alle ore 4,30 ma, dalla reazione degli avventori, che ad alta voce chiedevano di riaccendere le apparecchiature, dimostrava che le emissioni sonore erano state sospese poco prima.
Il Tribunale, tuttavia, oltre ad aver accertato la causazione di una ripetuta ed effettiva turbativa al riposo ed alle occupazioni delle persone, evidenzia anche che, oltre alle emissioni sonore provenienti dal sistema di amplificazione del locale, almeno in un caso il disturbo sarebbe stato provocato da cause diverse e, segnatamente, da canti intonati in coro dagli avventori rimasti sul posto dopo che l’intervento dei Carabinieri (il 20/8/2010 alle 3,05) aveva indotto il personale del locale allo spegnimento delle apparecchiature.
I fatti, come accertati dal Tribunale, consentivano, dunque, di ricondurre la condotta contestata nell’ambito del primo comma dell’art. 659 cod. pen..
15. Vero è che la formulazione dell’imputazione appare confusa laddove, nell’ultima parte, indica il secondo comma dell’art. 659 come un’aggravante, menzionando la stessa disposizione come quella che si intende violata, tuttavia la condotta risulta compiutamente descritta in ogni sua parte in modo chiaro e comprensibile.
Ciò posto, occorre ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte, in materia di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, hanno chiarito il mutamento del fatto presuppone una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da configurarsi un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione tale da determinare un effettivo pregiudizio dei diritti della difesa, con la conseguenza che la verifica circa la violazione del principio suddetto non deve esaurirsi nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, abbia comunque avuto la concreta possibilità di difendersi relativamente all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051; conf. Sez. 6, Sentenza n. 6346 del 9/11/2012 (dep. 2013), Domizi, Rv. 254888; Sez. 3, n. 36817 del 14/6/2011, T.D.M., Rv. 251081).
Si è successivamente affermato anche che nella valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione deve tenersi conto non soltanto del fatto descritto nell’imputazione, ma pure di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, in modo tale che questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6, Sentenza n. 47527 del 13/11/2013, Di Guiglielmi, Rv. 257278; Sez. 6, n. 5890 del 22/1/2013, Lucera, Rv. 254419), cosicché la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza viene a configurarsi nel caso in cui il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, dando luogo ad un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte dei quali l’imputato è impossibilitato a difendersi (Sez. 1, n. 28877 del 4/6/2013, Colletti, Rv. 256785).
La questione è stata inoltre presa in considerazione anche con riferimento ai contenuti della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, osservando che il rispetto della regola del contraddittorio, che deve essere assicurato all’imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, in conformità all’art. 111, comma secondo, Cost., integrato dall’art. 6 Convenzione Europea, come interpretato dalla Corte EDU, richiede soltanto che la diversa qualificazione giuridica non avvenga nei confronti dell’imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all’originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo non previsto. In conseguenza di ciò si è ritenuta la insussistenza della violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. quando la diversa qualificazione giuridica del fatto si configuri come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire sui contenuti dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione (Sez. 5, n. 1697 del 25/9/2013 (dep. 2014), Cavallari, Rv. 258941; Sez. 5, n. 7984 del 24/9/2012 (dep.2013), Jovanovic, Rv. 254649;).
Con riferimento specifico all’opposizione a decreto penale di condanna, si è inoltre affermato che nel caso in cui, a seguito della richiesta di giudizio immediato o abbreviato o di applicazione della pena, il decreto penale venga revocato, il giudice può dare al fatto contestato una diversa qualificazione giuridica a condizione che l’imputato abbia avuto la possibilità di interloquire sul punto e non si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato nei suoi elementi essenziali e tale da rappresentare un inaspettato sviluppo dell’originaria contestazione (Sez. 1, n. 48848 del 25/9/2013, Sparla, Rv. 258409; Sez. 3, n. 2430 del 22/10/2008 (dep. 2009), Pettine, Rv. 242342).
Nel caso di specie risulta, dalla sentenza impugnata, che il giudice ha formalmente investito le parti della questione concernente la diversa qualificazione e la difesa nulla ha eccepito sul punto, procedendo alla discussione previa produzione di ulteriore documentazione e, da quanto avvenuto, non emerge alcuna violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, né, tanto meno, del diritto di difesa.
Il fatto storico, come emerge chiaramente dal contenuto della decisione impugnata, è rimasto infatti del tutto immutato, senza che sia possibile ravvisare alcuna trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito tale da sottrarre all’imputato la possibilità di una difesa effettiva.
Ne consegue che la diversa qualificazione del fatto, sebbene effettuata con riferimento ad una diversa valutazione dei dati fattuali acquisiti e dei principi, dianzi ricordati, sull’ambito di operatività dell’art. 659, commi 1 e 2 cod. pen., appare sostanzialmente corretta, in quanto la condotta, così come accertata in fatto, per le ragioni già dette può comunque collocarsi nell’ambito della fattispecie delineata dal primo comma dell’art. 659 cod. pen..
16. Resta da rilevare, per ciò che riguarda la seconda parte del terzo motivo di ricorso, l’infondatezza della ulteriore censura concernente il vizio di motivazione, poiché sul punto il ricorso è articolato in fatto, con richiami ad atti del procedimento l’accesso ai quali è precluso al giudice di legittimità e sostanzialmente prospetta una nuova e diversa valutazione di elementi fattuali e prove già oggetto di considerazione da parte del giudice del merito non possibile in questa sede.
La motivazione, peraltro, non presenta alcuna carenza evidente ed è perfettamente idonea a rappresentare il ragionamento giustificativo che ha portato alla decisione impugnata, la quale risulta pertanto del tutto idonea a superare il vaglio di legittimità cui è stata sottoposta.
17. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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