Corte di Cassazione, Sezione IIII, sentenza del 6 dicembre 2011, n. 26200. I criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli minori

 

Le massime estrapolate

I criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli minori consistono, sia nel potere-dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi, sia anche, e soprattutto, nell’obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli l’educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari.

Di conseguenza, il difetto di un adeguato insegnamento educativo, che induca il minore non emancipato a ritenere leciti e consentiti comportamenti violenti, ingiustificati ed antisociali, è fonte di responsabilità per i genitori, con conseguente obbligo di risarcire il danno cagionato dal proprio figlio.


Il testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

Sentenza 29 ottobre – 6 dicembre 2011, n. 26200

Svolgimento del processo

P. e M.T. convenivano, davanti al Tribunale di Bologna, L. e G.N e N.P. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti da M.T., all’epoca minorenne, ad opera di L.N., anch’egli minorenne, per un incidente verificatosi durante lo svolgimento di una partita di calcio.

I convenuti, costituitisi, contestavano il fondamento della domanda.

Il tribunale, con sentenza del 16.6.2003, dichiarava che l’infortunio si era verificato per colpa esclusiva di L.N. condannandolo al risarcimento dei danni, e rigettava le domande risarcitorie nei confronti dei genitori esercenti la potestà sul minore, escludendone la responsabilità ai sensi dell’art. 2048 c.c.

Ad eguale conclusione perveniva la Corte d’appello che, con sentenza del 30.8.2008, rigettava l’appello proposto dai T.

Questi ultimi hanno proposto ricorso per cassazione affidato ad un motivo illustrato da memoria.

Resistono con controricorso G.N. e N.P.

Motivi della decisione

Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il d.Lgs- 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I.

Secondo l’art. 366 bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto – i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo li descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, n. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, primo comma, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c., l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Se. Un. 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass 18 luglio 2007, n. 16002).

Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. Sez. Un. 11 marzo 2008, n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità, – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).

La funzione propria del quesito di diritto – quindi –è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass 7 aprile 2009, n. 8463; v. anche Sez. Un. ord. 27 marzo 2009, n. 7533).

Il ricorso rispetta i requisiti richiesti dall’art. 366 bis c.p.c.

Con unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2408 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.

Il motivo è fondato.

I criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli minori consistono, sia nel potere-dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi, sia anche, e soprattutto, nell’obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli l’educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari (Cass. 14.3.2008 n. 7050; Cass. 20.10.2005 n. 20322; Cass. 11.8.1997 n. 7459).

La norma dell’art. 2048 c.c. è costruita in termini di presunzione di colpa dei genitori (o dei soggetti ivi indicati).

In relazione al’interpretazione di tale disciplina, quindi, è necessario che i genitori, al fine di fornire una sufficiente prova liberatoria per superare la presunzione di colpa desumibile dalla norma, offrano, non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (e ciò perché si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere ed all’indole del minore (c. anche Cass. 14.3.2008 n. 7050).

Inoltre, l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su di un minore, può essere ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c. (Cass. 7.8.2000 n. 10357).

Nella specie, non solo una tale prova liberatoria non è stata fornita, ma le modalità stesse del fatto sono tali da apparire suscettibili di essere interpretate come indice di un deficit educativo.

La sentenza non offre alcuna indicazione di una prova liberatoria fornita o richiesta dagli attuali resistenti; né una supposta mancata pronuncia sul punto è stata oggetto di rilievo da parte degli stessi in questa sede.

La ricostruzione del fatto operata dalla Corte di merito – come si ricava dalla sentenza impugnata – è del seguente tenore: «…il N., nel corso di una partita di calcio, ebbe a colpire con una violenta testata alla bocca il giocatore della squadra avversaria T. M. e ciò mentre il gioco era fermo e senza avere in precedenza subito un’aggressione da parte del T.».

Ora, in considerazione di questo accertamento in fatto – rilevante e non contestato -, la Corte si sarebbe dovuta porre il problema se un comportamento anomalo di tal genere, volontario e violento, in alcun modo giustificabile, per non essere stato neppure commesso durante una fase del gioco e nella concitazione del momento, ma a gioco fermo e deliberatamente, fosse indice di una educazione inadeguata rispetto ai dettami civili della vita di relazione e sportivi, la cui responsabilità – in difetto di una puntuale prova liberatoria – non poteva che ricadere presuntivamente sui genitori, venuti meno ai doveri sugli stessi incombenti ai sensi dell’art. 147 c.c.

Una corretta applicazione della norma dell’art. 2048 c.c. – sulla base delle considerazioni che precedono – avrebbe imposto un tale esame; ma di ciò non vi è traccia nella sentenza impugnata.

Erra, inoltre, la Corte di merito quando afferma «…Ne discende che in tale contesto non ha alcun rilievo l’educazione e la vigilanza spettante ai genitori in linea generale posto che gli stessi non avrebbero in alcun modo potuto intervenire nel corso della competizione sportiva per impartire direttive al figlio o comunque prevedere o impedire l’evento trattasi di un ambito del tutto escluso dal loro intervento, dovendosi il comportamento del N. attribuire in via esclusiva al soggetto stesso ben consapevole delle regole del gioco e del comportamento a cui avrebbe dovuto attenersi e che invece ha deliberatamente violato».

Nessun rilievo, infatti, acquista nell’economia della vicenda, né la impossibilità di intervento nel corso della competizione da parte dei genitori, né un dovere di vigilanza che, in questo caso, potrebbe ritenersi spettare agli organi sportivi.

Ciò che è rilevante è il difetto di un adeguato insegnamento educativo che ha permesso al minore di ritenere lecito od anche solo consentito – nell’ambito di un evento sportivo ed in assenza di una qualche giustificazione anche solo presunta – un comportamento così violento, impulsivo ed ingiustificato in danno di un altro minore, giocatore anch’egli.

Questa regola di diritto, d’altra parte, è il frutto di un bilanciamento di interessi contrapposti (balancing test) che, nel complesso giudizio sulla responsabilità per i danni ingiusti alla persona, intende allocare il rischio sul danneggiante, con le conseguenze indicate.

La sentenza impugnata è pertanto cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi al seguente principio di diritto: ai sensi dell’art. 2048 c.c., i genitori sono responsabili dei danni cagionati dai figli minori che abitano con essi, per quanto concerne gli illeciti riconducibili ad oggettive carenze nell’attività educativa, che si manifestino nel mancato rispetto delle regole della civile coesistenza, vigenti nei diversi ambiti del contesto sociale in cui il soggetto si trovi ad operare.

Conclusivamente, il ricorso è accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione.

Le spese sono rimesse al giudice del rinvio

P.Q.M.

La corte accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione.

Così deciso in data 28 ottobre 2011 in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di cassazione.

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