L’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicché non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente né rilevano possibili fini ulteriori – di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale – dal medesimo perseguiti
Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 4 ottobre 2016, n. 41469
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAMACCI Luca – Presidente
Dott. MOCCI Mauro – Consigliere
Dott. DI STASI Antonella – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
Dott. RICCARDI Giuseppe – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/01/2015 della Corte di Appello di Cagliari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. RICCARDI Giuseppe;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore della parte civile (OMISSIS), Avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’Avv. (OMISSIS), che ha concluso riportandosi alle conclusioni;
udito il difensore dell’imputato, Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 19 gennaio 2015 la Corte di Appello di Cagliari, in riforma della sentenza del Gup del Tribunale di Cagliari di assoluzione perche’ il fatto non costituisce reato, condannava (OMISSIS), previo riconoscimento dell’attenuante del fatto di minore gravita’ prevalente sulle contestate aggravanti, alla pena di anni uno, mesi uno e giorni dieci di reclusione, oltre pene accessorie, ed al risarcimento del danno, in ordine al reato di violenza sessuale, per avere costretto, con violenza e abuso di autorita’ (per essere superiore in servizio rispetto alla vittima), (OMISSIS), Carabiniere in servizio presso la medesima Stazione CC di (OMISSIS), a subire atti sessuali, consistiti nel prenderla alle spalle, cingendole i fianchi con le mani, toccarle il seno, dandole baci sulla testa, ed attaccandosi al corpo della vittima, costretta a piegarsi in avanti.
2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso (OMISSIS), deducendo un articolato motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
Deduce i vizi di violazione di legge sostanziale e vizio di motivazione: lamenta che la sentenza impugnata abbia riformato la pronuncia di assoluzione emessa in 1 grado, procedendo ad una mera rivalutazione delle fonti di prova, senza la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in violazione dell’articolo 533 c.p.p. e dell’articolo 6 CEDU, nell’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo nella sentenza 05/07/2011, Dan c. Moldavia; censura la diversa valutazione attribuita, sulla base delle dichiarazioni inattendibili della vittima, al toccamento del seno, in quanto casuale, ed ai baci sul capo, nonche’ alla mancanza di intervento del Brig. (OMISSIS), presente ai fatti; la sentenza violerebbe altresi’ il principio devolutivo, in quanto avrebbe dato rilevanza anche all’abbraccio avvolgente, e la regola della c.d. motivazione rafforzata in caso di riforma di sentenza di assoluzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ manifestamente infondato.
2. Va, al riguardo, premesso che la sentenza di primo grado aveva assolto l’imputato dal reato ascrittogli perche’ il fatto non costituisce reato, avendo ritenuto non raggiunta, all’esito di un’articolata ed attenta ricostruzione della dinamica dei fatti, la prova del dolo della violenza sessuale.
La stessa sentenza attestava che la dinamica dei fatti era stata descritta in maniera dettagliata dalla persona offesa ed aveva trovato conferma nelle dichiarazioni di tutti i testimoni, oltre che, nella sostanza, in quelle dell’imputato (p. 3), concludendo che “l’episodio di cui si discute non ha rappresentato un semplice scherzo fra colleghi, inoffensivo e condiviso, ma inaspettatamente equivocato dalla (OMISSIS)” (p. 7); nondimeno, aveva escluso la connotazione sessuale dei baci, e, pur riconoscendo l’inequivoca valenza sessuale del toccamento del seno, ne aveva affermato la dubbia intenzionalita’, in ragione delle circostanze del contatto (brevita’, assenza di ulteriori gesti, presenza di un collega).
La sentenza della Corte di Appello, correttamente richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte EDU a proposito della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di riforma di una precedente pronuncia assolutoria, ha negato la doverosita’ della rinnovazione, sul rilievo che la riforma della sentenza assolutoria discende proprio dal vaglio positivo di attendibilita’ delle testimonianze operato dal primo giudice; sulla base della medesima valutazione delle fonti di prova, alla cui stregua la dinamica dei fatti era stata ricostruita non gia’ come un innocente scherzo (secondo la versione dell’imputato), bensi’ come un’invasione della sfera sessuale della vittima, la Corte territoriale ha operato una diversa interpretazione: correttamente collocando i gesti di cui all’imputazione in una serie di antefatti che tradivano palesemente la natura sessuale dell’interesse del (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS), la sentenza impugnata ha evidenziato che i contatti di natura sessuale erano iniziati con la presa dei fianchi della donna con le mani e con l’adesione del corpo al proprio, trattandosi di condotta che implicava il coinvolgimento della corporeita’ della ragazza, costretta a subire un’invasione della sua sfera piu’ intima; sul punto, la Corte territoriale, nel sottolineare che i fianchi di una donna sono parti del corpo dotati di forte carica erotica, ha evidenziato l’irragionevolezza di un’interpretazione che attribuisse natura di atto sessuale ad una semplice “pacca sulla natica”, negando tale natura al toccamento delle stesse natiche con il grembo di un uomo; nella considerazione complessiva, e non atomistica, della condotta tenuta dall’imputato, a partire dal toccamento dei fianchi e dall’abbraccio avvolgente, dunque, la sentenza impugnata ha attribuito la corretta interpretazione, altresi’, ai baci, impressi sul capo della giovane sol perche’ questa si era chinata per evitarli, ma che nulla avevano di innocente ed infantile, ed al toccamento del seno, che tanto fuggevole, e dunque involontario, non poteva ritenersi, atteso che la donna era stata costretta a spostare la mano del (OMISSIS) dal proprio seno.
3. Tanto premesso, va innanzitutto evidenziata l’inammissibilita’ delle doglianze relative alla diversa valutazione attribuita, sulla base delle dichiarazioni (dal ricorrente ritenute) inattendibili della vittima, al toccamento del seno, in quanto casuale, ed ai baci sul capo, nonche’ alla mancanza di intervento del Brig. (OMISSIS), presente ai fatti, in quanto sollecitano, in realta’, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimita’; infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie della violazione di legge e del vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., sono in realta’ dirette a richiedere a questa Corte un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale.
Valutazione, peraltro, che – a differenza di quella operata dal primo giudice, che risulta inspiegabilmente avulsa dal tessuto probatorio, pur oggetto di analitica e logica ricostruzione – e’ coerente con le premesse di fatto e con i principi di diritto richiamati in ordine alla nozione di atto sessuale rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie di violenza sessuale.
Anche la censura secondo la quale la sentenza violerebbe il principio devolutivo, in quanto avrebbe dato rilevanza anche all’abbraccio avvolgente, e’ manifestamente infondata, in quanto la condotta rientra nell’imputazione formulata, e’ stata oggetto di accertamento giudiziale fin dal primo grado, e soltanto una interpretazione atomistica e manifestamente illogica ne ha escluso la natura sessuale ovvero la volontarieta’; laddove l’impugnazione della pubblica accusa concerne l’intera imputazione, non gia’ singole frazioni di condotte, arbitrariamente selezionate dall’imputato.
Al riguardo, del resto, va rammentato che ai fini della configurabilita’ del delitto di violenza sessuale, la rilevanza di tutti quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente definibili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo, anche con finalita’ del tutto diverse, come i baci o gli abbracci, costituisce oggetto di accertamento da parte del giudice del merito, secondo una valutazione che tenga conto della condotta nel suo complesso, del contesto in cui l’azione si e’ svolta, dei rapporti intercorrenti fra le persone coinvolte e di ogni determinazione della sessualita’ del soggetto passivo (Sez. 3, n. 10248 del 12/02/2014, M, Rv. 258588).
Con riferimento all’asserita mancanza di dolo, va altresi’ richiamata la pacifica giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale e’ integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volonta’ di compiere un atto invasivo e lesivo della liberta’ sessuale della persona offesa non consenziente, sicche’ non e’ necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente ne’ rilevano possibili fini ulteriori – di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale – dal medesimo perseguiti (Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014, dep. 2015, P, Rv. 262470, in una fattispecie in cui e’ stata ritenuta la responsabilita’ di un giovane militare che, in concorso con altri, dopo aver bloccato il riscio’ su cui viaggiavano due ragazze, saliva da dietro e toccava loro il seno, i glutei e la zona dei genitali); tale principio, in ossequio ai principi generali del dolo affermati sulla base delle norme di parte generale del codice penale, sanziona l’erroneita’ dell’interpretazione sostenuta dalla sentenza di assoluzione di primo grado a proposito della involontarieta’ degli atti sessuali accertati.
4. Le doglianze concernenti l’asserita mancanza di una “motivazione rafforzata” e la violazione del principio “convenzionale” del divieto di riforma in peius della sentenza di assoluzione senza rinnovazione dell’istruttoria, che meritano un esame congiunto, in quanto strettamente collegate, sono manifestamente infondate.
Va, al riguardo, osservato che recentemente le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito i principi, gia’ consolidati nella giurisprudenza di legittimita’, alla stregua dei quali “La previsione contenuta nell’articolo 6, par. 3, lettera d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, la quale costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne, implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non puo’ riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilita’ penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’articolo 603 c.p.p., comma 3, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta).
Condivisibilmente, le Sezioni Unite collocano l’interpretazione “convenzionalmente orientata” nel solco della precedente elaborazione sulla c.d. “motivazione rafforzata”, evidenziando che gia’ a partire da Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226093, era stato fatto riferimento al particolare dovere di motivazione che incombe sul giudice di appello che affermi la responsabilita’ dell’imputato gia’ prosciolto in primo grado; e tale principio era stato poi ribadito e ulteriormente precisato da Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679, affermandosi che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i piu’ rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato. In senso analogo, Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, dep. 2006, Aglieri, Rv. 233083, che ha affermato che “la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilita’ sul piano logico e giuridico degli argomenti piu’ rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, § 7.1.).
In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di condanna del giudice di primo grado, nella specie pervenendo a una sentenza di assoluzione, non puo’ limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005).
4.1. Tanto premesso, va innanzitutto osservato che la sentenza impugnata, nel riformare la pronuncia assolutoria di primo grado, ha condivisibilmente confutato le ragioni poste a fondamento della stessa, dimostrando l’insostenibilita’ della valutazione parcellizzata dei singoli atti (presa per i fianchi, abbraccio, baci sulla testa e toccamento del seno) costituenti la complessiva condotta abusante, e l’erroneita’ dell’interpretazione che ne escludeva, in alcuni casi, la natura sessuale (i baci), e, in altri, la volontarieta’.
Sotto altro profilo, correttamente la Corte territoriale ha proceduto alla riforma della pronuncia assolutoria negando la doverosita’ della rinnovazione, essendo l’affermazione di responsabilita’ fondata sul medesimo vaglio positivo di attendibilita’ delle testimonianze operato dal primo giudice.
Al riguardo, e’ stato affermato che per riformare “in peius” una sentenza assolutoria emessa all’esito di giudizio abbreviato condizionato, il giudice di appello e’ obbligato – in base all’articolo 6 CEDU, cosi’ come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia – a rinnovare l’istruzione dibattimentale quando intende operare un diverso apprezzamento dell’attendibilita’ di una prova orale acquisita dal primo giudice in sede di integrazione probatoria (ex multis, Sez. 3, n. 11658 del 24/02/2015, P., Rv. 262985).
In altri termini, l’obbligo di rinnovazione diviene attuale solo allorquando venga in rilievo un diverso apprezzamento dell’attendibilita’ di una prova dichiarativa, non, altresi’, quando la valutazione di attendibilita’ rimanga inalterata, mutando, come nel caso in esame, la valutazione del compendio probatorio o l’interpretazione della fattispecie incriminatrice.
In tal senso, del resto, e’ la stessa giurisprudenza della Corte EDU che ha delimitato l’obbligo di rinnovazione, affermando che “la valutazione dell’attendibilita’ di un testimone e’ un compito complesso che di solito non puo’ essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni” (Corte EDU, Sez. 3, 14 giugno 2011, Dan c/Repubblica di Moldavia).
E’, dunque, la diversa valutazione dell’attendibilita’ di una prova dichiarativa, strettamente connessa al canone dell’oralita’, a fondare l’obbligo di rinnovazione, non gia’, di per se’, la diversa valutazione del complessivo compendio probatorio, nella sua inalterata dimensione dimostrativa; che’, altrimenti, si imporrebbe una inutile superfetazione processuale, per l’audizione di una fonte il cui contenuto e la cui attendibilita’ sono rimasti inalterati nel corso del procedimento, anche allorquando la fallacia risieda non gia’ nel giudizio di attendibilita’, ma nel ragionamento probatorio, in quanto contraddittorio o illogico.
Conclusione, del resto, che appare riaffermata anche dalle Sezioni Unite infra richiamate, secondo cui “neppure puo’ ravvisarsi la necessita’ della rinnovazione della istruzione dibattimentale qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua qualificazione giuridica” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, § 10).
Non appare, al riguardo, ridondante sottolineare le differenze tra le categorie logiche dell'”interpretazione”, quale attivita’ di ricostruzione ed individuazione dei confini astratti della norma applicabile nel rapporto di interazione tra fattispecie astratta e fatto concreto, della “discrezionalita’”, relativa alla fase di ricostruzione, individuazione e/o concretizzazione dei concetti c.d. elastici della norma applicabile al caso concreto, e della “valutazione” delle prove, relativa alla fase di accertamento del fatto concreto: ebbene, nel caso in esame, l’obbligo “convenzionale” di rinnovazione non ricorre, in quanto l’affermazione di responsabilita’ penale, in riforma della precedente pronuncia assolutoria, e’ fondata innanzitutto su una interpretazione diversa, relativa alla natura sessuale dei baci e della presa dei fianchi, e, dunque, sull’estensione applicativa della fattispecie incriminatrice, e, in parte, su una valutazione logica e complessiva dell’intero compendio probatorio, immune dalle censure di contraddittorieta’ ed illogicita’ che calamitava la pronuncia assolutoria, in ragione del ragionamento probatorio atomistico e parcellizzato.
Cio’ che non viene in rilievo, in altri termini, e’ un diverso apprezzamento dell’attendibilita’ delle fonti dichiarative.
5. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.500,00: infatti, l’articolo 616 c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilita’, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilita’ dichiarata ex articolo 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilita’ pronunciata ex articolo 591 c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
La Corte dispone inoltre che copia del presente dispositivo sia trasmessa all’Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico, Ministero della Difesa, a norma del Decreto Legislativo n. 150 del 2009, articolo 70.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52 in quanto imposto dalla legge.
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