suprema CORTE DI CASSAZIONE
sezione III
SENTENZA 30 maggio 2014, n. 12264
Ritenuto in fatto
D.S.F. e S. convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Tolmezzo, la ASL X Alto Friuli, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni cagionati dal negligente compimento della propria attività professionale da parte dei sanitari della struttura.
Esposero gli attori che, nell'(omissis) , D.S.F. si era recata presso l’ospedale di (…), dove, appreso
del suo stato di gravidanza, era stata invitata a seguire un programma di controlli ginecologico, radiologico ed ecografico cui si era scrupolosamente attenuta.
In occasione di ciascuno dei previsti controlli, le era sempre stato assicurato che il feto era normale e che tutto procedeva secondo norma.
Ciò nonostante, nel novembre del 1997, sarebbe venuto alla luce un bimbo privo di due dita ed affetto da ipoaplasia congenita del femore sinistro.
Gli attori imputarono, pertanto, ai sanitari un duplice profilo di responsabilità, sotto l’aspetto sia del difetto di informazione, sia della non corretta esecuzione o interpretazione degli esami che avrebbero potuto svelare per tempo la malformazione.
Il giudice di primo grado respinse la domanda, ritenendo oggettiva la impossibilità di individuare la patologia attraverso una ecografia c.d. morfologica, eseguita in ventunesima settimana dal ginecologo, al quale non ritenne parimenti addebitabili ulteriori profili di negligenza quanto alla mancata rilevazione della anomala lunghezza del femore, atteso che la corretta scienza medica prevedeva la misurazione di uno soltanto dei quattro arti (operazione, nella specie, diligentemente compiuta senza che fosse venuta in rilievo una qualsiasi anomalia).
L’impugnazione proposta dai coniugi D.S. fu rigettata dalla Corte di appello di Trieste, che, corretta in parte la motivazione della prima sentenza, ritenne del tutto carente la prova circa il nesso eziologico tra la condotta (peraltro ritenuta colpevolmente omissiva) e il danno lamentato a cagione della omessa informazione sullo stato di salute del feto. Specificò, in proposito, il giudice d’appello come fosse rimasto indimostrato che una corretta visualizzazione di tutti gli arti (nella specie, colpevolmente omessa) e una precisa misurazione con riferimento visivo all’arto contro laterale (quello poi rivelatosi colpito dalla ipaoplasia) avrebbero avuto serie ed apprezzabili probabilità di disvelare la specifica patologia di cui il feto si sarebbe poi rivelato portatore.
La sentenza della Corte territoriale è stata impugnata da D.S.F. e S. con ricorso per cassazione sorretto da due motivi di censura.
Si sono costituiti in questa sede con controricorso illustrato da memoria sia la Asl X, sia il ginecologo curante, Dott. B.G. .
La Asl ha proposto altresì ricorso incidentale condizionato (cui resiste con controricorso il B. ).
LE RAGIONI DELLA DECISIONE.
I ricorsi, da riunire perché proposti avverso la medesima sentenza, devono essere congiuntamente decisi.
Il ricorso principale è infondato.
Al suo rigetto consegue l’assorbimento di quello incidentale condizionato.
Con il primo motivo, si denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto in punto di sussistenza del nesso di causalità ; in punto di non consentita introduzione di considerazioni probabilistiche circa l’accertamento del nesso di causalità nel caso concreto (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.); erronea determinazione delle conseguenze giuridiche relative al caso concreto; omessa lettura ed errata interpretazione e considerazione degli atti di causa e dei principi di diritto negli stessi enunciati (art. 360, n. 3 e/o 4 c.p.c.); omessa pronuncia (art. 360 n. 4 c.p.c.) ; ultrapetizione (art. 360 n. 4 c.p.c. ).
Con il secondo motivo, si denuncia motivazione illogica, insufficiente ovvero contraddittoria ovvero omessa circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in punto di ritenuta insussistenza del nesso di causalità in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.); se non addirittura motivazione apodittica, inesistente e quindi meramente apparente in punto di ritenuta insussistenza del nesso di causalità (art. 360 n. 4 c.p.c.).
I motivi possono essere congiuntamente esaminati, attesane la intrinseca connessione.
Entrambi devono essere rigettati.
Lamentano, nella sostanza, i ricorrenti che la Corte territoriale, chiamata ad esaminare il determinante profilo della causalità e del riparto del relativo onere probatorio, non abbia fatto buongoverno dei principi (ricondotti dai ricorrenti medesimi nella dimensione del diritto vivente, alla luce delle pronunce di questa Corte indicate nella n. 13 del 2010 e nella 14488 del 2005) che, ove correttamente applicati, avrebbero imposto una affermazione di responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera.
Ci si duole, in particolare, della omessa applicazione alla fattispecie concreta del principio secondo il quale l’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni del feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato clinico alla gestante, devono ritenersi circostanze idonee a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto rispondenti ad un criterio di regolarità causale rispetto al mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza. Deve, difatti, ritenersi – si conclude in sentenza – che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza.
La questione di diritto che si pone oggi al collegio è, pertanto, quella se, nel giudizio intentato dai genitori per il risarcimento del danno da nascita indesiderata conseguente al mancato rilievo, da parte del sanitario, di malformazioni congenite del feto, i rispettivi oneri probatori debbano ritenersi ripartiti sulla base di una presunzione iuris et de iure (o anche soltanto semplice) che conduca ipso facto, e in assenza di qualsivoglia ulteriore elemento di prova, ad un automatismo insensibile ad ulteriori dimostrazioni, in fatto e volta per volta, al di là di rilievi assiomatico-statistici, del nesso tra l’omissione e l’intenzione abortiva.
Osserva il collegio come a tale questione, con radicale revirement rispetto al passato, questa Corte abbia di recente fornito risposta con la sentenza n. 7269 del 22 marzo 2013, che a sua volta richiama un principio già affermato con la pronuncia di cui a Cass. n. 16754 del 2012, per la prima volta predicativa di un diritto al risarcimento iure proprio per il minore nato con una grave malformazione da una madre che aveva, nella specie, espressamente (ed Incontestatamente) manifestato la volontà di interrompere la gravidanza.
In questa stessa sentenza, sia pur a livello di obiter dictum, la Corte si era soffermata funditus sul problema del riparto degli oneri probatori con riguardo a tutte le (ben più frequenti) ipotesi in cui mancasse, agli atti, una espressa ed inequivoca dichiarazione della gestante nei sensi sopra indicati, e si era risolta ad affermare che, in tale caso, i relativi oneri probatori incombono, secondo il consueto criterio dell’eius incumbit qui dicit, sulla madre.
La pronuncia del 2013, non più a titolo di obiter, bensì adottandola quale vera e propria ratio decidendi, ha nuovamente specificato che, nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo da parte del sanitario dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di abortire) è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché tale prova non può essere desunta dal solo fatto della richiesta di sottoporsi ad esami volti ad accertare l’esistenza di eventuali anomalie del feto.
Il ragionamento probatorio svolto in quella sede, interamente condiviso oggi da questo collegio, muove, nel solco del precedente del 2012, dalla constatazione che, in caso di azione per il risarcimento del danno da nascita indesiderata, allorché sia mancata una espressa manifestazione di volontà della gestante di interrompere la gravidanza, qualora l’indagine su eventuali malformazioni del feto – ove effettuata – avesse avuto esito infausto, la mera richiesta di accertamento diagnostico integra un semplice elemento indiziario dell’esistenza di una volontà che si presume orientata verso l’esercizio della facoltà prevista dall’art. 6, primo comma, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194. In tal caso, si legge ancora in sentenza, è la parte attrice – ricorrendo una simile evenienza – ad essere tenuta ad integrare il contenuto di tale presunzione semplice con elementi probatori ulteriori (e, va aggiunto, sufficientemente significativi) da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza di quel labile elemento indiziario all’asserto illustrato in citazione, non incombendo, invece, sul medico l’onere di provare che, in presenza di una tempestiva informazione, la gestante non avrebbe potuto o voluto abortire.
Una diversa distribuzione degli oneri probatori equivarrebbe, infatti (come appare utile sottolineare ancora in questa sede), a trasformare il giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa, indebitamente collegata, nella sostanza, al solo verificarsi dell’evento di danno conseguente all’inadempimento del sanitario.
Il giudice, a propria volta, è invece chiamato a desumere caso per caso, senza ricorrere ad algide generalizzazioni di tipo statistico (come è sempre buona regola quando si è chiamati a muoversi nel microsistema della responsabilità civile per danni alla persona), le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri, posto che la richiesta di uno o più accertamenti diagnostici in corso di gravidanza, ove non espressamente e specificamente finalizzata alla verifica di eventuali anomalie del feto ed alla conseguente interruzione, costituisce un indice niente affatto univoco della volontà di avvalersi della facoltà di interrompere la gestazione in presenza di anomalie, in quanto innumerevoli sono le ragioni che possono spingere una donna e una madre, anche se soltanto futura, ad esigere – e il medico a prescrivere – quegli accertamenti, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza indirizzandola verso un parto che, per le condizioni i tempi ed il tipo, risulti il più consono alla nascita del figlio, ancorché malformato.
Oltre che con le pronunce indicate da parte ricorrente, il principio oggi ribadito in questa sede si pone altresì in contrasto con quanto ancora affermato da questa Corte con la pronuncia n. 22837 dell’11 novembre 2010 (ove si legge che, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità tra l’omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio, da parte della madre, della facoltà di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso, tra le quali – dopo il novantesimo giorno di gestazione – v’è il pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia, mentre l’esigenza di prova al riguardo sorgerebbe solo quando il fatto sia contestato dalla controparte, nel qual caso si deve stabilire – in base al criterio del “più probabile che non” e con valutazione correlata all’epoca della gravidanza – se, a seguito dell’informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna), ed infine con il dictum di cui a Cass. n. 6735 del 10 maggio 2002 (che aveva a sua volta ritenuto rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, si sarebbe determinata a non portare a termine la gravidanza).
Il collegio intende, dal suo canto, dare ulteriore continuità al più recente orientamento, che appare più rispettoso delle regole probatorie stabilite ex lege in seno al processo civile, oltre che più consapevole della estrema delicatezza di una questione sicuramente nodale dell’intera vicenda risarcitoria (pur nella sconfortante consapevolezza della assoluta inadeguatezza degli strumenti del diritto ad offrire risposte appena accettabili a dolorose e talvolta sconvolgenti vicende umane e familiari), che non può prescindere da una precisa assunzione di responsabilità delle proprie dichiarazioni da parte della donna, unico soggetto cui la legge (e non solo) riconosce il diritto di decidere, sia pur a precise condizioni, della prosecuzione o meno di una gravidanza.
Quanto alle restanti censure rappresentate con entrambi i motivi in esame, esse sono irrimediabilmente destinate ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello già descritto, dacché esse, nel loro complesso, pur formalmente abbigliati sotto la veste di una (peraltro del tutto genericamente denunciata) violazione di legge e un di decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. I ricorrenti, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza realmente rilevante sotto i diversi profili lamentati ex art. 360 c.p.c., si volgono piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare (come puntualmente accaduto nella specie, volta che la Corte territoriale ha ritenuto, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede perché immune da vizi logico-giuridici, che la lamentata e verificata omissione non potesse dirsi causalmente rilevante rispetto all’accertamento della ipoplasia) le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. È principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
Quanto alla disciplina delle spese, osserva la Corte che permangono in questa sede le ragioni di compensazione già individuate in sede di giudizio di merito, e qui non espressamente censurate.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condizionato.
Dichiara interamente compensate le spese del giudizio di cassazione.
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