Cassazione 13

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 3 marzo 2016, n. 8653

Ritenuto in fatto

1. R.M. venne condannato con sentenza del 4/10/2013 dal Tribunale di Pordenone alla pena di Euro 600 di multa per il reato di cui all’art. 127 del d.lgs. 10/2/2015 n. 30, per avere esposto in vendita, ceduto e poi nuovamente esposto in vendita fino al 7 marzo 2008 l’automobile Nissan tipo Replica Ferrari GTO in violazione di un valido titolo di proprietà industriale. Con la medesima sentenza il Tribunale di Pordenone dispose anche la confisca e la distruzione della automobile in sequestro e la condanna generica dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile Ferrari S.p.a..
La Corte d’appello di Trieste, investita dell’impugnazione dell’imputato, con sentenza del 2 marzo 2015 ha dichiarato non doversi procedere per le condotte poste in essere fino al 2 settembre 2007 per intervenuta prescrizione, rideterminando la pena per le condotte successive in Euro 500 di multa.
Ha ritenuto la Corte d’appello integrata la violazione da parte dell’imputato del diritto di privativa della Ferrari S.p.a. sul proprio marchio, attraverso la messa in vendita da parte del R. nel suo autosalone di un veicolo con le stesse caratteristiche di forma e linea stilistica, oltre che di colore, della Ferrari 250 GTO, per quanto riguarda la livrea, il frontone, il codone, le prese d’aria frontali e laterali, i cerchi a raggi cromati, i doppi scarichi, ritenuti del tutto simili a quelli del suddetto modello Ferrari 250 GTO degli anni dal 1962 al 1964. La vettura posta in vendita dal R. , inoltre, riportava sul cofano il marchio Ferrari (composto da cavallino rampante su sfondo giallo), ed anche sulle fiancate, a ridosso delle portiere, sul codone e sulla maschera del radiatore, in analogia ai modelli dell’epoca di costruzione dell’originale. Tali caratteristiche del veicolo detenuto dall’imputato erano idonee, ad avviso della Corte territoriale, a trarre in inganno i non esperti e ad indurre in errore it consumatori circa l’origine e la provenienza del prodotto.
Ha ritenuto, inoltre, la Corte d’appello che vi sia continuità normativa tra l’art. 127 del codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2015) ed il vigente art. 517 ter cod. pen., e sussistente l’elemento psicologico richiesto da tale norma, per avere l’imputato acquistato consapevolmente una vettura costituente replica abusiva della Ferrari modello 250GTO per conseguire un profitto dalla vendita di tale veicolo, con la conseguente conferma della condanna dell’imputato, limitatamente alle condotte successive al 2 settembre 2007, e delle altre statuizioni contenute nella sentenza appellata.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, mediante il suo difensore, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo ha lamentato erronea applicazione di legge penale (art. 606, lett. b), cod. proc. pen.), in relazione all’art. 517 ter cod. pen., e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (art. 606, lett. e), cod. proc. pen.), sulla base del rilievo che l’applicazione ad un prodotto (nella specie il veicolo Nissan su cui erano stati applicati i segni distintivi Ferrari) di un marchio genuino non costituisce usurpazione, che presuppone la fabbricazione di copie di merci contenenti il segno distintivo senza il consenso del titolare; l’art. 517 ter cod. pen. sanzionerebbe solo la fabbricazione e la commercializzazione di oggetti in contrasto con i titoli di proprietà industriale (che costituirebbe usurpazione) e la fabbricazione di merci realizzata carpendo l’idea originale inserita nel titolo di proprietà industriale (che costituirebbe violazione).
L’applicazione ad un prodotto non proveniente dal titolare del marchio del segno distintivo di quest’ultimo avrebbe potuto integrare gli estremi del reato di cui all’art. 517 cod. pen., nella specie non contestato.
2.2. Con il secondo motivo ha nuovamente dedotto violazione della legge penale (art. 606, lett. b, cod. proc. pen.), in relazione agli artt. 517 e 517 ter cod. pen.), e mancanza ed illogicità della motivazione e travisamento delle prove (art. 606, lett. c, cod. proc. pen.), in quanto la vettura, detenuta per la vendita dall’imputato, presentava numerose caratteristiche tecniche e costruttive idonee a differenziarla da quella di cui avrebbe usurpato il marchio, e cioè una automobile Ferrari 250GTO, e dunque non sarebbe stata possibile la confusione o confusorietà affermata dalla Corte d’appello di Trieste.
2.3. Con il terzo motivo ha dedotto erronea applicazione della legge penale (art. 606, lett. b), cod. proc. pen.) in relazione all’art. 517 ter cod. pen., e mancanza di motivazione (art. 606, lett. e), cod. proc. pen.), per il mancato accertamento del dolo specifico di profitto richiesto dall’art. 517 ter cod. pen., in ordine al quale la Corte d’appello non aveva motivato in alcun modo, e dovendo, per contro, tale elemento essere escluso alla luce del prezzo di vendita che egli aveva indicato, in linea con quello di mercato per un veicolo Nissan del tipo di quello in questione.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.
1. L’art. 517 ter cod. pen., in relazione al quale è stata affermata la responsabilità dell’imputato (essendo stata ravvisata continuità normativa tra l’art. 127 del codice della proprietà industriale e tale norma, introdotta dall’art. 15 della L. 23 luglio 2009 n. 99), configura il delitto di fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino ad Euro 20.000.
Sotto la medesima rubrica legis confluiscono, accomunate nel medesimo trattamento sanzionatorio, due distinte fattispecie, contenute, rispettivamente, nel primo e nel secondo comma dell’art. 517 ter. La prima ha ad oggetto la condotta di chi fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati “usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso”, pur potendo conoscere dell’esistenza del suddetto titolo. La seconda, quella di colui che, al fine di trarne profitto, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita, pone in vendita “con offerta diretta ai consumatori” o mette comunque in circolazione i beni descritti nel primo comma.
L’elemento oggettivo delle due fattispecie sostanzialmente riproduce quello del delitto di cui al primo comma dell’art. 127 d.lgs. n. 30 del 2005 (codice della proprietà industriale), abrogato dal secondo comma dell’art. 15 della L. 23/7/2009 n. 99.
Per quanto riguarda le condotte selezionate per l’incriminazione, alcune (quelle di fabbricazione, utilizzo industriale ed introduzione nello Stato) sono le stesse già prese in considerazione dall’art. 127 d.lgs. n. 30 del 2005. Le altre – e cioè la detenzione per la vendita, la messa in vendita con offerta diretta ai consumatori, nonché la messa in circolazione – sono invece di nuova formulazione, ma in buona parte assorbono i contenuti di quelle previste dalla disposizione abrogata. Così la detenzione per la vendita e l’offerta diretta ai consumatori sostanzialmente anticipano la tutela penale in precedenza ancorata alla condotta di vendita, mentre la messa in circolazione in definitiva amplia ulteriormente i confini della fattispecie tipica.
L’unica significativa differenza tra l’assetto previgente e quello introdotto dalla I. n. 99 del 2009 si riduce dunque alla mancata riproduzione della condotta di “esposizione”, la cui funzione era soprattutto quella di attrarre nell’area di tipicità dell’incriminazione quei comportamenti di promozione dei beni prodotti in violazione dei titoli di privativa tenuti nell’ambito di manifestazioni commerciali non dirette al pubblico dei consumatori, ma a quello degli operatori dei singoli settori. Ulteriore novità riguarda la connotazione delle condotte che integrano il reato. Mentre per l’art. 127 d.lgs. n. 30 del 2005 queste ultime assumevano rilevanza penale in quanto commesse in violazione di un titolo di proprietà industriale, nella formulazione accolta nel primo comma dell’art. 517 ter cod. pen. oltre alla violazione del titolo rileva, in alternativa, anche la sua usurpazione.
Per comprendere l’esatta portata della novità è necessario innanzi tutto rilevare come il verbo “usurpare”, nel linguaggio comune, identifichi il comportamento di chi eserciti, appropriandosene, un potere, una funzione o un diritto la cui titolarità è riservata ad altri, e questo è il significato sostanzialmente accolto nelle norme penali che lo utilizzano (si v. ad esempio gli artt. 267, 347, 498, 631 cod. pen. e l’art. 117 cod. nav.), compreso l’art. 171, comma secondo, legge 22 aprile 1941, n. 633, che configura una circostanza aggravante del delitto di abusiva riproduzione di opere dell’ingegno per il caso che il fatto avvenga con usurpazione della paternità. E questo è anche il senso richiamato nel Regolamento comunitario del 22 luglio 2003, n. 1383, il quale nel disciplinare i poteri di intervento dell’autorità doganale sulle merci sospettate di violare i diritti di proprietà intellettuale, all’art. 2, lett. b) precisa che tali sono anche le “merci usurpative” e cioè quelle che “costituiscono o contengono copie fabbricate senza il consenso del titolare”.
Dunque anche l’art. 517 ter sembra volersi riferire non solo all’ipotesi dei prodotti realizzati ad imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in violazione del medesimo, bensì anche a quella della fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti, per così dire “originali”, da parte di colui che non ne sarebbe titolato. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del licenziatario cui il titolare del marchio abbia attribuito una esclusiva per la distribuzione dei propri prodotti in un determinato ambito territoriale e che invece smerci i beni anche in altri ambiti, ovvero a quella del fabbricante cui il titolare del brevetto affida la realizzazione di un determinato numero di copie della cosa oggetto dell’invenzione, il quale in violazione degli accordi contrattuali ne produca occultamente un numero superiore, provvedendo poi a sfruttare commercialmente in maniera autonoma quelle che costituiscono l’eccedenza.
2. Nella vicenda in esame è stata ravvisata la violazione del marchio appartenente alla Ferrari S.p.a. nella esposizione per la vendita da parte dell’imputato di un veicolo con le stesse caratteristiche di forma e linee stilistiche della Ferrari modello 250 GTO (quanto alla livrea, il frontone, il codone, le prese d’aria frontali e laterali, i cerchi a raggi cromati, i doppi scarichi), sul quale era apposto (sul cofano, sulle fiancate, a ridosso delle portiere, sul codone e sulla maschera del radiatore) il noto marchio Ferrari (composto da cavallino rampante nero su sfondo giallo): non si tratta, dunque, della detenzione per la vendita di un bene derivante da una condotta di usurpazione (nel senso anzidetto) di un titolo di proprietà industriale, bensì dell’ipotesi di un prodotto realizzato ad imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in violazione del medesimo.
Ciò comporta l’infondatezza del primo motivo di ricorso, mediante il quale il ricorrente ha denunciato violazione dell’art. 517 ter cod. pen. e vizio di motivazione, in quanto la violazione di un valido titolo di proprietà industriale sanzionata dalla norma citata non consiste solamente nella fabbricazione di merci realizzata carpendo l’idea originale insita nel titolo di proprietà industriale (come sostenuto dal ricorrente), ma anche, come nella specie, nella imitazione dei prodotti protetti dalla privativa anche utilizzando segni distintivi autentici (giacché altrimenti si verserebbe nella diversa ipotesi contemplata dall’art. 517 cod. pen.), come ampiamente illustrato nella motivazione della sentenza impugnata, con la conseguente insussistenza sia della violazione di legge sia del vizio motivazionale denunciati dal ricorrente con il primo motivo di ricorso.
3. Infondato risulta anche il secondo motivo di ricorso, mediante il quale il ricorrente ha denunciato ulteriore violazione degli artt. 517 e 517 ter cod. pen. e vizio motivazionale, per la erronea affermazione della confondibilità del veicolo detenuto per la vendita, in ragione della presenza di numerose caratteristiche costruttive e tecniche idonee a differenziarlo dal prodotto originale, anche in considerazione della peculiarità di quest’ultimo, trattandosi di veicolo di notevole rarità e peculiarità e di caratteristiche assai diverse rispetto a quello detenuto per la vendita dall’imputato, di cui avrebbe quindi potuto agevolmente riscontrarsi la differenza.
Deve al riguardo osservarsi che la messa in circolazione di beni prodotti in violazione di un titolo di proprietà industriale non coinvolge solo gli interessi del titolare della privativa, bensì anche quelli della collettività, e quindi, in tal senso, l’immissione del bene nel circuito commerciale determina un pericolo per il pubblico dei consumatori e, in ultima analisi, per l’ordine economico in generale, tale da giustificare l’intervento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dalla concreta induzione in errore dei consumatori circa la provenienza del prodotto dal titolare della privativa, essendo sufficiente per la sussistenza del reato (che ha natura di reato di pericolo) l’astratta confondibilità del prodotto imitato.
Al riguardo la Corte d’appello ha dato atto della idoneità del veicolo detenuto dal ricorrente per la vendita a trarre in inganno i non esperti circa l’origine e la provenienza del prodotto, sulla base delle sue caratteristiche di linea e di forma, con apprezzamento di fatto diffusamente motivato sulla scorta delle caratteristiche del veicolo, insuscettibile di riesame in sede di legittimità se adeguatamente (come nella specie) motivato, con la conseguente infondatezza della censura di carenza di motivazione sollevata al riguardo dal ricorrente, per essere stata accertata la idoneità dei veicolo realizzato in violazione della privativa industriale a trarre in inganno consumatori non esperti, che consente di ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato contestato.
4. Del pari infondato risulta anche il terzo motivo di ricorso, mediante il quale il ricorrente ha denunciato ulteriore violazione di legge e difetto di motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato, ed in particolare al fine di profitto richiesto dal secondo comma dell’art. 517 ter cod. pen., che dovrebbe essere escluso, ad avviso del ricorrente, per la facile riconoscibilità della non genuinità del veicolo e per la conseguente impossibilità di rivenderlo ad un prezzo pari o prossimo a quello dell’originale.
La Corte d’appello ha dato atto del fine di profitto che ha mosso l’imputato nel vendere, riacquistare e porre nuovamente in vendita il medesimo veicolo, per ragioni esclusivamente economiche e con lo scopo di ritrarne un guadagno, derivante quanto meno dall’interesse che il veicolo poteva suscitare tra i consumatori per la sua peculiarità, con la conseguenza che debbono essere escluse sia la lamentata violazione di legge (essendo stato accertato il fine di profitto richiesto dalla norma), sia la denunciata carenza di motivazione (avendo la Corte territoriale illustrato in modo logico le ragioni della ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico).
Il ricorso in esame deve, pertanto, essere respinto, stante l’infondatezza di tutti e tre i motivi ai quali è stato affidato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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