Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 27 agosto 2015, n. 17198

Svolgimento del processo

1.- Il Dott. P.G. citò in giudizio risarcitorio la società editrice del quotidiano “Corriere della Sera” (R.C.S. Quotidiani S.p.A.) e il direttore responsabile (F.S. ), nonché i giornalisti Fu.Ma. e I.M. , per sentirli dichiarare responsabili di diffamazione in relazione a tre articoli a firma della prima ed uno a firma del secondo, pubblicati tra il 30 dicembre 2003 e il 3 febbraio 2004, in quanto lesivi dell’onore e dell’immagine professionale dell’attore, allora Procuratore della Repubblica di Parma.
La domanda è stata respinta dal Tribunale di Milano con sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello.
La Corte di merito, con la sentenza qui impugnata (pubblicata il 23 giugno 2011), ha ritenuto correttamente esercitato, da parte di entrambi i giornalisti, il diritto di critica, in relazione a fatti di cronaca, ed ha perciò escluso che gli articoli in questione avessero dato luogo alla “campagna denigratoria” lamentata dall’appellante. È quindi passata ad esaminare articolo per articolo.
Per quanto ancora rileva ai fini del presente ricorso, ha reputato non diffamatorio l’articolo del 28 gennaio 2004, pur se contenente una posizione delle fotografie accostate allo scritto “poco appropriata”; secondo la Corte di merito, il contenuto e la costruzione lessicale usati dal giornalista chiarirebbero bene “l’oggetto della notizia”.
P.E. , P.A. e B.M.F. , eredi di P.G. , impugnano per cassazione la sentenza con due motivi illustrati da memoria. RCS MEDIAGROUP S.p.A. (in qualità di incorporante RCS Quotidiani S.p.A.), F. , I. e Fu. resistono con unico controricorso.

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo si deduce violazione dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. in relazione all’art. 352, commi 2, 3, 4, cod. proc. civ., per omessa pronuncia sull’istanza di fissazione orale ritualmente formulata e per omessa fissazione dell’udienza di discussione orale ritualmente richiesta.
Le ricorrenti lamentano che, pur avendo richiesto sin dall’udienza di precisazione delle conclusioni, che fosse fissata un’udienza per la discussione orale della causa ai sensi dell’art. 352 cod. proc. civ. e pur avendo rinnovato la richiesta al presidente, nonché negli scritti conclusivi, la causa sia stata decisa senza discussione orale. Sostengono che sarebbe stato leso un fondamentale diritto della difesa e che questa violazione comporterebbe la nullità assoluta della sentenza.
1.1.- Il motivo è infondato.
È sufficiente al riguardo ribadire il precedente di questa Corte, richiamato dai resistenti, secondo cui “L’omessa fissazione, nel giudizio d’appello, dell’udienza di discussione orale, pur ritualmente richiesta dalla parte ai sensi dell’art. 352 cod. proc. civ., non comporta necessariamente la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa… omissis… poiché la discussione della causa nel giudizio d’appello ha una funzione meramente illustrativa delle posizioni già assunte e delle tesi già svolte nei precedenti atti difensivi e non è sostitutiva delle difese scritte di cui all’art. 190 cod. proc. civ., per configurare una lesione del diritto di difesa non basta affermare, genericamente, che la mancata discussione ha impedito al ricorrente di esporre meglio la propria linea difensiva, ma è necessario indicare quali siano gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o di approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi” (Cass. n. 18618/03).
La massima è espressione del principio di diritto, che la stessa richiama e che qui pure si ribadisce, secondo cui l’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo (così, tra le altre, anche Cass. n. 4435/08, n. 4340/10, n. 3024/11, n. 1201/12). Il principio trova oggi riscontro normativo nel disposto dell’art. 360 bis, n. 2, cod. proc. civ..
Non vi sono motivi per discostarsi dalla giurisprudenza sopra richiamata in ragione della (asserita) peculiarità del mezzo di difesa assicurato dalla norma di che trattasi, né il ricorso offre elementi per ritenere che la violazione dell’art. 352 cod. proc. civ. abbia comportato una significativa lesione del diritto di difesa dell’allora appellante (quale si sarebbe avuta, ad esempio, in caso di mancato approfondimento orale di argomenti o di questioni emerse soltanto a seguito degli scritti difensivi conclusivi).
Il primo motivo di ricorso va perciò rigettato.
2.- Col secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 595 cod. proc. civ..
Con un primo profilo di censura, le ricorrenti lamentano che il giornale avrebbe usato “espressioni diffamatorie”, per di più destinate ad un magistrato, allora Procuratore Capo della Repubblica di Parma, che – per quanto si legge in ricorso – “quale che sia il contesto in cui esse si inseriscono, recano in sé una portata offensiva che non ne giustifica in alcun modo la prolusione a ripetizione in seno agli articoli in contestazione”. Pertanto, non sarebbe conforme a diritto la sentenza impugnata che ha ritenuto che quegli articoli fossero espressione di critica giornalistica.
2.1.- Per questo primo profilo, il motivo è inammissibile.
Come rilevato nel controricorso, non è rispettato affatto il canone dell’autosufficienza. Il ricorso non riporta i passi degli articoli ovvero le espressioni ed i commenti che assume diffamatori, tanto che non è chiaro nemmeno se la censura si riferisca, ed in quali termini, a tutti e quattro gli articoli ovvero soltanto ad uno o ad alcuni, pur avendoli la Corte di merito esaminati sia nell’insieme e nella relativa successione cronologica, che tenendoli distinti, al fine di valutare (ed escludere) l’effettiva portata diffamatoria di ciascuno.
Nel ricorso si fa un generico riferimento ad un “contesto” nel quale le espressioni diffamatorie si sarebbero inserite, senza chiarire di quale contesto si tratti; così come si accenna in ricorso al “numero e […] successione temporale degli articoli”, senza indicare né l’uno né l’altra, così che potrebbero essere desunti soltanto dalla motivazione della sentenza ovvero dalla lettura degli atti difensivi dei precedenti gradi (senza che ciò, ovviamente, consenta di colmare le lacune del ricorso: cfr., per tutte, Cass. n. 1113/06 e n. 13556/06). Nemmeno appare sufficiente all’ammissibilità del ricorso l’accenno fatto alla pag. 6 ad un’isolata e non meglio contestualizzata espressione (“notabile di provincia, non è probabilmente un genio, sta dalla parte dei potenti, non si fa nemici”). Tanto più che questo accenno non è fatto per illustrare la censura di cui al secondo motivo, bensì nel contesto dell’illustrazione del primo motivo.
2.2.- Proprio per i ricorsi in materia di diffamazione a mezzo stampa la giurisprudenza di questa Corte ha richiamato il criterio di autosufficienza del ricorso, di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., onde affermare che “la parte che muova critiche alla valutazione compiuta dal giudice di appello, sia in fatto che in diritto, circa la natura diffamatoria dello scritto in questione e la sussistenza del relativo reato, è tenuta, in ossequio al c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ad individuare – se del caso riproducendolo direttamente, ove necessario in relazione all’oggetto della critica di cui al motivo, ed eventualmente indirettamente, ove l’apprezzamento della critica lo consenta – il contenuto dell’articolo nella parte cui la critica si riferisce, specificando anche dove la Corte possa esaminarlo per verificarne la conformità del contenuto riprodotto rispetto a quello effettivo”. (così Cass. n. 3338/09).
In applicazione di questo principio, è inammissibile la prima censura del secondo motivo.
3.- Con un secondo profilo di censura, le ricorrenti criticano la sentenza laddove ha ritenuto non diffamatoria l’impaginazione dell’articolo del 28 gennaio 2004, che, pur riferito al Dott. P.G. , era stato “improvvidamente ma scientemente accostato all’immagine di Tanzi in manette”. Censurano, in particolare, l’assunto del giudice a quo secondo cui, ad escludere la portata diffamatoria dell’articolo così impaginato, sarebbe stata sufficiente la lettura dell’articolo (che avrebbe chiarito che il Dott. P. nulla avrebbe avuto a che fare con lo “scandalo Parmalat” allora balzato agli onori della cronaca, cui era riferita, invece, la fotografia che vi era accostata).
Richiamano allo scopo la giurisprudenza di legittimità per la quale le modalità di presentazione della notizia sarebbero di per sé rilevanti, a prescindere dal contenuto dello scritto, ove idonee a fuorviare i lettori che non si soffermino a leggere quel contenuto.
Per questo aspetto il motivo non pone la questione di inammissibilità di cui sopra, dato che l’articolo è chiaramente individuato con la data di pubblicazione e la doglianza è esposta in termini autosufficienti, ricavabili dalla descrizione dell’impaginazione. Esso è inoltre fondato.
3.1.- Nella giurisprudenza di questa Corte è ripetuta l’affermazione per la quale, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca soggiace al limite della continenza, che comporta moderazione, misura, proporzione nelle modalità espressive, le quali non devono trascendere in attacchi personali diretti a colpire l’altrui dignità morale e professionale, con riferimento non solo al contenuto dell’articolo, ma all’intero contesto espressivo in cui l’articolo è inserito, compresi titoli, sottotitoli, presentazione grafica, fotografie, trattandosi di elementi tutti che rendono esplicito, nell’immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo, e quindi idonei, di per sé, a fuorviare e suggestionare i lettori più frettolosi (così, da ultimo, Cass. n. 25739/14).
La percezione visiva concorre quindi in maniera determinante all’attribuzione, da parte del pubblico dei lettori, di un significato diffamatorio alla pubblicazione a mezzo stampa. Questo carattere determinante dell’aspetto visivo è viepiù accentuato quando l’articolo è pubblicato su un quotidiano ad ampia diffusione, come nel caso di specie, rispetto al quale i lettori appartengono ad un pubblico notevolmente indifferenziato, e comunque non specialistico; trattasi di pubblico più incline ad una lettura poco approfondita, ed anche frettolosa, che può risolversi nella sola attenzione rivolta, sfogliando il giornale, ai titoli ed alle fotografie. Ne consegue la rilevanza dell’impaginazione; e, nel contesto dell’impaginazione, la rilevanza delle fotografie e dell’accostamento al contenuto scritto di immagini, titoli e sottotitoli.
Tanto ciò è vero che si è esplicitamente affermato che “per stabilire se uno scritto giornalistico abbia o meno contenuto diffamatorio non è sufficiente avere riguardo alla verità delle notizie da esso diffuse, né limitarsi alla sola analisi testuale dello scritto, ma è invece necessario considerare tutti gli ulteriori elementi – come ad esempio i titoli, l’occhiello, le fotografie, gli accostamenti, le figure retoriche – che formano il contesto della comunicazione e che possono arricchirla di significati ulteriori, anch’essi lesivi dell’altrui onore o reputazione” (Cass. n. 25157/08, che, in applicazione di tale principio, ha confermato, sul punto, la decisione di merito che aveva ritenuto diffamatoria la pubblicazione da parte di un quotidiano della falsa notizia di un sequestro di fascicoli processuali da parte dei Carabinieri nella sezione fallimentare di un tribunale, pubblicata accanto alla fotografia del magistrato che presiedeva quella sezione).
3.2.- La Corte d’Appello di Milano, in riferimento all’articolo pubblicato il 28 gennaio 2004, dopo aver riconosciuto che “la posizione dell’immagine rispetto all’articolo de quo risulta essere indubbiamente poco appropriata”, per scriminare la pubblicazione ha rinviato al “contenuto dell’articolo” ed alla “costruzione lessicale usata dal giornalista”, in quanto “ben chiariscono l’oggetto della notizia, nonché la separazione della vicenda di P. (in particolare nell’articolo si fa riferimento all’accusa di corruzione emersa a suo carico e non contestata dallo stesso) con quella Parmalat”.
Così motivata quanto all’apprezzamento di fatto, la sentenza non risulta conforme a diritto poiché giudica il carattere non diffamatorio della pubblicazione limitandosi alla sola analisi testuale dello scritto, senza considerare il contesto in cui è inserito.
La sentenza va perciò cassata sul punto, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano perché proceda ad un nuovo apprezzamento della portata diffamatoria o meno dell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 28 gennaio 2004, considerandone non solo lo scritto, ma anche, in base ai principi di diritto sopra richiamati, gli elementi dell’impaginazione, oltre che, eventualmente, ulteriori elementi fattuali (diversi dalla sola lettura del testo) idonei a far ritenere od a scriminare la portata diffamatoria dell’accostamento dell’articolo alla fotografia.
Si rimette al giudice del rinvio anche la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, rigettato il primo motivo, accoglie il secondo per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata nei limiti specificati in motivazione e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

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