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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 21 marzo 2013, n. 7112

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18868-2007 proposto da:

G.D.E. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZA 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI Gina, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITA, già COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco p.t., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO DELLA VALLE 2, presso lo studio dell’avvocato GIUFFRE’ Patrizia, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORUSSO ENRICO giusta delega in atti;

X. COSTRUZIONI S.R.L. in liquidazione, in persona del liquidatore p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.B. TIEPOLO 4, presso lo studio dell’avvocato SPERTI ISIDORO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2015/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 08/05/2006, R.G.N. 3132/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/02/2013 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l’Avvocato ISIDORO SPERTI;

udito l’Avvocato PATRIZIA GIUFFRE’;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. – G.D.E. conveniva in giudizio il Comune di Roma, dinanzi al Tribunale della stessa città, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito di una caduta, in data (OMISSIS), verso le ore 18, all’incrocio tra (OMISSIS), verificatasi, allorchè si accingeva ad attraversare detto incrocio sul passaggio pedonale, per la presenza di una buca coperta da fogliame.

Il Comune convenuto contestava la fondatezza della domanda e, comunque, chiamava in causa, a titolo di manleva, sulla base di contratto di appalto, la X. Costruzioni S.p.A., unica responsabile del sinistro; la quale società chiedeva, a sua volta, la reiezione della domanda.

L’adito Tribunale, con sentenza del febbraio 2003, rigettava la domanda dell’attrice, la quale proponeva gravame avverso tale decisione, deducendo l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie e la mancata applicazione dell’art. 2051 cod. civ..

Il Comune chiedeva il rigetto del gravame e riproponeva, in subordine, la domanda di manleva; la X. Costruzioni S.p.A. instava per la reiezione di entrambe le impugnazioni.

2. – Con sentenza resa pubblica l’8 maggio 2006, la Corte di appello di Roma rigettava l’appello della G., escludendo, anzitutto, che, nella fattispecie alla sua cognizione, potesse applicarsi la norma di cui all’art. 2051 cod. civ., ravvisando nell’estensione viaria della città il presupposto per l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo da parte della P.A. del bene demaniale sul quale viene esercitato dai cittadini un uso ordinario, generale diretto.

Quanto, poi, alla causazione del sinistro, la Corte territoriale, ponendo in rilievo che nessuno dei testi escussi aveva “visto la dinamica dell’incidente”, presumendo soltanto che la causa della caduta potesse essere la “presenza della buca”, riteneva che si sarebbe potuto “configurare un dinamismo diverso che ha prodotto la caduta”, mancando “qualsiasi certezza che la irregolarità del manto stradale abbia avuto incidenza causale nel verificarsi dell’evento dannoso”.

Peraltro, il giudice del gravame, conformemente a quanto deciso dal primo giudice, reputava inesistente una “insidia”, tenuto conto “delle dimensioni della buca che la rendevano visibile pur in presenza di fogliame e della presenza di illuminazione artificiale”.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso G.D.E. sulla base di un unico motivo.

Resistono con controricorso il Comune di Roma (successivamente Roma Capitale) – che ha anche depositato memoria – e la X. Costruzioni S.r.l. in liquidazione.

Motivi della decisione

1. – Con l’unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, avuto riguardo all’art. 2051 cod. civ. e artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonchè vizio di motivazione ai sensi art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, e motivazione apparente.

La Corte territoriale avrebbe negato l’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ., sulla scorta di affermati principi generali – e, segnatamente, della possibilità da parte della P.A. di esercizio del controllo sul bene demaniale soltanto ove questo sia di estensione limitata – senza però “alcun riferimento alle condizioni concrete del luogo in cui si è verificato il sinistro” e cioè all’estensione della strada, alla sua collocazione all’interno del centro abitato, all’uso della stessa e, dunque, “senza alcuna motivazione concreta a suffragio della presunta impossibilità di controllo da parte della P.A.”.

Inoltre, sarebbe errata la motivazione della sentenza impugnata là dove si è ritenuto che nessuno dei testi avrebbe visto la dinamica del sinistro, senza però tenere conto della “determinante circostanza circa il fatto che nessuno dei testi ha riferito di altre cause diverse dalla buca in grado di avere determinato la caduta ad eccezione della descritta anomalia nel terreno”.

Infine, la motivazione stessa sarebbe illegittima là dove, soltanto per relationem e senza esprimere un proprio convincimento, ritiene esatta la decisione del primo giudice sull’inesistenza dell’insidia;

peraltro, la motivazione sarebbe comunque erronea giacchè i testi avrebbero indicato come unica causa del sinistro la presenza di una buca di “esigue dimensioni”, altresì “escludendo che la strada, luogo del sinistro, fosse illuminata”.

A chiusura del motivo viene formulato il seguente “quesito di diritto”: dica la Suprema Corte se: “ai fini dell’esclusione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ., per gli Enti Pubblici sia necessario che la motivazione dimostri il concreto ed oggettivo accertamento di circostanze incompatibili, per estensione, ubicazione e collocazione del bene demaniale, con un potere di vigilanza dell’Ente e pertanto che la motivazione riferisca anche delle caratteristiche del bene demaniale incompatibili con il suddetto potere di vigilanza; se sia da ritenersi per relationem la motivazione della sentenza pronunciata in sede di gravame ove il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo Giudice, non abbia espresso le proprie ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti; se sia apparente la motivazione della sentenza con cui il giudice abbia respinto la domanda omettendo di considerare circostanze e risultanze anche probatorie determinanti ai fini della decisione”.

La ricorrente chiede, infine, la rimessione della causa alle Sezioni Unite in ragione dei diversi orientamenti emersi nella giurisprudenza di questa Corte sull’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ., alla P.A. siccome custode di beni demaniali.

2. – Il motivo, nel suo complesso, non può trovare accoglimento.

2.1. – E’ innanzitutto inammissibile la censura con la quale si aggredisce il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie circa la dinamica del sinistro, giacchè la doglianza non è assistita dal ed. “quesito di fatto”, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ..

Nel caso all’esame la sentenza impugnata è stata pubblicata l’8 maggio 2006 e, quindi, nella vigenza della disciplina dettata dal citato art. 366-bis cod. proc. civ., che nella fattispecie è pienamente operante ratione temporis. Infatti, detta disposizione processuale ha iniziato ad esplicare i propri effetti in relazione alle sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che l’ha introdotta, e ha cessato di essere applicabile a decorrere dal 4 luglio 2009 e cioè dalla sua abrogazione ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47.

Ciò precisato, occorre rammentare – sulla scorta dell’ormai consolidato orientamento di questa Corte (tra le altre, Cass., 16 luglio 2007, n. 16002; Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603;

Cass., 30 dicembre 2009, n. 27680; Cass., 18 novembre 2011, n. 24255) – che, in base al capoverso dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il ricorrente che denunci un vizio di motivazione della sentenza impugnata è tenuto, nel confezionamento del relativo motivo, a formulare in riferimento alle anzidette censure un ed. “quesito di fatto” e cioè ad indicare chiaramente, in modo sintetico, evidente ed autonomo, il fatto controverso rispetto al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, così come le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, a tal fine necessitando, segnatamente, la enucleazione conclusiva e riassuntiva di uno specifico passaggio espositivo del ricorso nel quale tutto ciò risalti in modo in equivoco. Con l’ulteriore precisazione che tale requisito non può dirsi rispettato allorquando solo la completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di un’interpretazione svolta dal lettore, anzichè su indicazione della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure, posto che la ratio che sottende la disposizione di cui al citato art. 366 bis, è associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso alla Suprema Corte, la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito di fatto, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito.

Nulla di tutto ciò è, all’evidenza (e, a tal fine, è già solo sufficiente rilevare l’assenza di indicazione fatto controverso), ravvisabile nel quesito posto dalla ricorrente.

Del resto, l’inammissibilità della denuncia in esame persisterebbe anche ove si reputasse che la G. abbia inteso veicolarla tramite le doglianze sulla motivazione per relationem o apparente (sebbene queste appaiano indirizzate, piuttosto, a quella parte della motivazione che attiene soltanto alla affermata insussistenza dell’insidia), giacchè il quesito all’uopo formulato si presenta palesemente inidoneo (già solo, anche in questo caso, per la totale omissione del fatto controverso) a rispettare la prescrizione di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ..

Ciò, peraltro, a prescindere dal fatto che là dove la motivazione della sentenza di appello ha aderito a quella fornita dal giudice di primo grado (negando la stessa ravvisabilità nel caso di specie di una insidia) non può neppure reputarsi in violazione dell’art. 111 Cost., art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e art. 132 cod. proc. civ., posto che il convincimento del giudice d’appello esplicita compiutamente le ragioni per cui esso ha ritenuto esatta la valutazione del primo giudice, assumendo che la “inesistenza di una insidia” era il frutto “delle dimensioni della buca che la rendevano visibile pur in presenza di fogliame e della presenza di illuminazione artificiale”, e che era “incontroverso che la via ove è avvenuto l’incidente sia illuminata artificialmente e nessun teste ha riferito che l’illuminazione non fosse in funzione”.

2.2. – L’inammissibilità della censura esaminata comporta la definitività della ratio deciderteli che attiene all’insussistenza (per difetto di prova) del nesso causale tra la buca presente sul manto stradale e la caduta della G., la quale, come tale, è idonea da sola a sorreggere la decisione impugnata, con la conseguenza della inammissibilità delle doglianze relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di denuncia.

Ciò in quanto, sebbene la questione dell’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ., alla P.A. custode dei beni demaniali (quali, per l’appunto, le strade aperte al pubblico transito) sia indirizzata, secondo il più recente e consistente orientamento di questa Corte (tra le altre: Cass., 3 aprile 2009, n. 8157; Cass., 20 novembre 2009, n. 24529; Cass., 18 luglio 2011, n. 15720; Cass., 18 ottobre 2011, n. 21508; in senso contrario: Cass., 22 aprile 2010, n. 9546), a risolversi nel senso della irrilevanza dell’estensione del bene oggetto di controllo e vigilanza, nondimeno si è affermato che la disciplina di cui al citato art. 2051, applicabile agli enti pubblici proprietari o manutentori di strade aperte al pubblico transito in riferimento a situazioni di pericolo derivanti da una non prevedibile alterazione dello stato della cosa, “non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionaiità” (tra le altre, Cass., 13 luglio 2011, n. 15389).

Sicchè, una volta che la Corte territoriale ha escluso la sussistenza del nesso eziologico tra cosa in custodia ed evento dannoso – e cioè ha escluso che l’evento sia stato determinato dalla presenza della buca sul manto stradale, quale condizione potenzialmente lesiva posseduta dalla strada in custodia del Comune convenuto in giudizio – e che tale accertamento è divenuto definitivo per inammissibilità della censura che lo ha posto in discussione, rimangono prive di interesse le ulteriori doglianze, giacchè anche un loro eventuale accoglimento non potrebbe comportare la cassazione della sentenza impugnata (tra le tante, Cass., 14 febbraio 2012, n. 2108).

Invero, va altresì evidenziato che l’accertamento sull’insussistenza dell’anzidetto nesso causale elide, in radice, l’interesse all’impugnazione anche sotto il profilo della configurabilità di una responsabilità in capo alla P.A. per insidia o trabocchetto e ciò sia che l’illecito lo si consideri nell’alveo dello stesso art. 2051 cod. civ. (come ritenuto configurabile da Cass. 13 maggio 2010, n. 11592 e da Cass., 19 novembre 2009, n. 24428), sia sotto quello dell’art. 2043 cod. civ..

3. – All’inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente, in quanto soccombente, al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge, in favore di Roma Capitale e in complessivi Euro 1.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge, in favore della X. Costruzioni S.r.l. in liquidazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2013.

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