fresatrice a banco fisso

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 20 febbraio 2014, n. 4065

Svolgimento del processo

1. Nel 2000 la società Mercantile Leasing s.p.a. (che successivamente mutò ragione sociale in Banca Italease s.p.a.) convenne dinanzi al Tribunale di Firenze la società Komatex s.r.l., esponendo:
(-) di avere acquistato dalla convenuta una “macchina fresatrice a banco fisso”, al fine di concederla in leasing ad un terzo;
(-) che il veicolo era stato venduto come “nuovo di fabbrica”;
(-) che invece era emerso, dopo l’acquisto, essere un macchinario obsoleto di dieci anni.
Chiedeva pertanto l’annullamento del contratto di vendita e la condanna della convenuta alla restituzione del prezzo.
2. Il Tribunale di Firenze, con sentenza 14.8.2002 n. 2623, rigettò la domanda.
La sentenza venne riformata dalla Corte d’appello di Firenze, la quale con sentenza 24.9.2007 n. 1277 dichiarò l’annullamento del contratto per dolo del venditore, e condannò la Komatex a restituire alla Mercantile Leasing il (W V prezzo di Euro 203.1258,30, con gli interessi dalla domanda.
3. Tale sentenza viene ora impugnata per cassazione dalla Komatex, sulla base di quattro motivi.
La Mercantile Leasing ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

4.1. Col primo motivo di ricorso la Komatex lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa sia in una violazione di legge (con riferimento agli artt. 1362 e ss., e 1439 c.c.); sia in un difetto di motivazione.
4.1.1. Espone che la Corte d’appello avrebbe errato, sotto un primo profilo, nel ritenere che il contratto di vendita, là dove prevedeva che il macchinario oggetto della vendita dovesse essere “nuovo di fabbrica”, intendesse fare riferimento ad un apparato di recente fabbricazione. Sostiene che nella prassi commerciale “nuovo di fabbrica” sarebbe sinonimo di “mai usato prima”, a prescindere dalla data di fabbricazione. Pertanto l’interpretazione adottata dalla Corte doveva ritenersi lesiva del disposto dell’art. 1362 c.c., perché contrastante col significato letterale del testo contrattuale.
4.1.2. Sotto un secondo profilo, soggiunge la Komatex che la Corte d’appello avrebbe non adeguatamente motivato la propria interpretazione del contratto.
4.2. Il motivo è infondato in entrambe i suoi profili.
La lamentata violazione di legge non sussiste perché la Corte d’appello non ha affatto negato che il contratto possa essere interpretato dando alle parole degli accordi negoziali un significato diverso da quello letterale (solo in questo caso, infatti, si sarebbe potuta invocare la violazione dell’art. 1362 c.c.), ma ha ritenuto che proprio l’interpretazione letterale del contratto dovesse indurre a concludere che pattuendo la vendita di un macchinario “nuovo di fabbrica” le parti avessero inteso designarne uno “di recente fabbricazione”, e comunque giammai vecchio di dieci anni. La ricorrente dunque, sotto l’usbergo della violazione dell’art. 1362 c.c., nella sostanza richiede una diversa interpretazione del contratto rispetto a quella adottata dal giudice di merito: esito ovviamente inammissibile in sede di legittimità, come ripetutamente affermato da questa Corte (ex permultis, in tal senso, Sez. L, Sentenza n. 23569 del 13/11/2007, Rv. 600273; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 2, Sentenza n. 3075 del 13/02/2006, Rv. 586462; Sez. L, Sentenza n. 8296 del 21/04/2005, Rv. 580600).
4.3. Nemmeno sussiste il lamentato vizio di motivazione.
Leggendo, infatti, la sentenza d’appello nel suo complesso, se ne ricava che il giudice di merito è giunto alle proprie conclusioni circa l’interpretazione del contratto facendo leva sia sul testo letterale del documento; sia sullo scopo del contratto (assicurare al concedente un bene che avesse un valore residuo alla fine della locazione finanziaria: cfr. pag. 8 della sentenza impugnata); sia sulla condotta delle parti (l’avere il venditore sostituito la targhetta contenente le specifiche tecniche del modello di macchinario venduto: cfr. p. 10 della sentenza).
La motivazione dunque sussiste e non è illogica né irrazionale.
5.1. Col secondo motivo di ricorso la Komatex lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa sia in una violazione di legge (con riferimento agli artt. 1322, 1362, 1363, 1429, 1439 c.c.); sia in un difetto di motivazione.
5.2. La tesi della ricorrente è che il contratto stipulato tra il venditore di un bene, e chi lo acquista per concederlo in locazione finanziaria ad un terzo, può essere annullato per vizio del consenso solo se questo incide sulla formazione della volontà dell’utilizzatore, non del concedente.
5.3. Sotto il profilo della violazione di legge il motivo è manifestamente infondato.
Il contratto di acquisto di un bene, destinato ad essere concesso in leasing, e compiuto nella veste di acquirente dal lessor secondo le indicazioni del leaser, è un contratto in sé autonomo e distinto dal contratto di leasing stipulato o stipulando tra concedente ed utilizzatore.
I due contratti sono ovviamente tra loro collegati, e può anche accadere – sebbene non si tratti di elemento indefettibile – che il concedente agisca nella veste di mandatario dell’utilizzatore, ma ciò non basta a privare di autonomo rilievo, nei rapporti tra venditore ed acquirente, il consenso di quest’ultimo, come invece pretenderebbe la ricorrente.
Ciò per varie ragioni.
5.3.1. La prima ragione è che il concedente, anche quando acquisti il bene nella veste di mandatario dell’utilizzatore, agisce pur sempre come mandatario in rem propriam e senza rappresentanza, sicché la volontà rilevante ai fini della validità del contratto resterebbe sempre quella dell’acquirente-concedente, non quella del futuro utilizzatore.
5.3.2. La seconda ragione è che presupposto del contratto di leasing è la proprietà o comunque la legittima disponibilità giuridica, in capo al concedente, del bene concesso in locazione (così Sez. 1, Sentenza n. 16158 del 20/07/2007, Rv. 598435). Il contratto di vendita stipulato tra fornitore e concedente è preordinato a fare acquistare al secondo la suddetta disponibilità, e sarebbe quindi contrastante con i presupposti e lo scopo dell’operazione di leasing negare al concedente i tradizionali rimedi accordati dall’ordinamento a chi abbia acquistato la proprietà di un bene per effetto di una viziosa formazione della volontà negoziale.
5.3.3. La terza ragione è che, secondo un orientamento tanto pacifico quanto risalente nella giurisprudenza di legittimità, nelle operazioni di leasing tra il contratto di vendita e quello di locazione finanziaria esiste un collegamento funzionale, per effetto del quale si produce una diffusione delle cause di nullità, annullamento, risoluzione, dall’uno all’altro dei due contratti collegati (Sez. 3, Sentenza n. 17145 del 27/07/2006, Rv. 593959).
Sulla base di questo principio si è ripetutamente ammesso che l’utilizzatore possa far valere in nome proprio, nei confronti del fornitore, le azioni scaturenti dal contratto di vendita (Sez. 6-1, Ordinanza n. 17604 del 12/10/2012, Rv. 623743; Sez. 3, Sentenza n. 11776 del 19/05/2006, Rv. 590825); come pure che, se convenuto dal concedente per il pagamento dei canoni, possa eccepirgli ex art. 1460 c.c. l’esistenza dei vizi della cosa (Sez. 3, Sentenza n. 8101 del 23/05/2012, Rv. 622434).
Or bene, se per effetto del collegamento negoziale tra vendita e locazione si è ammesso che l’utilizzatore possa far valere nei confronti del fornitore i vizi del contratto di vendita pur non essendone parte, a fortiori dovrà ammettersi che quei vizi potranno essere fatti valere dal concedente, che di del contratto di vendita è parte in tutti i sensi.
5.4. Inammissibile è invece il secondo motivo di ricorso sotto il profilo del difetto di motivazione, vizio inconcepibile rispetto ad una quaestio iuris, quale è quella posta dalla Komatex (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 13683 del 31/07/2012).
6.1. Col terzo motivo di ricorso la Komatex lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in una violazione di legge con riferimento agli artt. 1429 e 1439 c.c..
6.2. La tesi della ricorrente è la seguente:
(a) secondo la Corte d’appello, il venditore avrebbe dolosamente indotto in errore l’acquirente sulla vetustà della macchina, al fine di lucrare un prezzo maggiore;
(b) pertanto, non essendo in contestazione la funzionalità del macchinario, l’errore ingenerato dal dolo del venditore ha riguardato unicamente il prezzo;
(c) ergo, l’errore sul valore non può mai condurre all’annullamento del contratto, ma solo alla correzione del prezzo.
6.3. Il motivo è tanto inammissibile, quanto infondato.
6.3.1. È inammissibile perché non coglie la reale ratio decidendi della sentenza impugnata.
La Corte d’appello di Firenze, infatti, non ha mai affermato che il contratto di vendita dovesse essere annullato perché l’acquirente fu indotto in errore sul valore della cosa.
Ha affermato una cosa sensibilmente diversa, e cioè che l’acquirente fu indotto in errore sulla vetustà della cosa, volendo acquistare un bene nuovo ed avendone invece acquistato uno obsoleto.
La differenza è evidente: nel primo caso l’acquirente ha una esatta percezione delle caratteristiche del bene oggetto da comprare, ma una falsa percezione del suo valore; nel secondo caso l’acquirente ha una falsa percezione delle caratteristiche stesse del bene da comprare.
6.3.2. Ma a prescindere da tale aspetto di forma, la tesi della ricorrente è, in ogni caso, talmente infondata nel merito da rasentare la temerarietà.
Nel nostro ordinamento vige il principio fraus omnia corrumpit, in virtù del quale il dolo decettivo conduce all’annullamento del contratto (come pure del negozio unilaterale) quale che sia l’elemento sul quale il deceptus sia stato ingannato.
Il principio, già di per sé desumibile dalla sola lettera dell’art. 1429 c.c. (il quale sanziona con l’annullamento il contratto frutto di raggiri “usati da uno dei contraenti [e] tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato”, senza distinzioni di sorta sul tipo di errore indotto dai raggiri), è altresì ricavabile da una nutrita serie di previsioni:
(-) gli artt. 482, 483 e 526 c.c., i quali consentono l’impugnazione dell’accettazione e della rinunzia all’eredità per dolo, ma non la consentono nel caso di errore;
(-) l’art. 551 c.c., il quale vieta l’annullamento per errore dell’atto col quale viene conseguito il legato in sostituzione della legittima, ma lo consente – secondo questa Corte – per dolo (Sez. 2, Sentenza n. 1554 del 17/05/1968, Rv. 333265);
(-) l’art. 761 c.c., che consente l’impugnazione della divisione per dolo ma non per errore;
(-) l’art. 1698 c.c., il quale fa discendere la perdita delle garanzie dovute dal vettore al destinatario nel caso di accettazione di questi della mercé, salvo se indotta da dolo;
(-) l’art. 1836 c.c., il quale libera la banca nel caso di pagamento del deposito al portatore del libretto, anche se indotto da errore, salvo il caso di dolo.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma le norme appena ricordate sono sufficienti a dimostrare l’esistenza del principio secondo cui il dolo è un vizio che conduce all’annullamento del negozio quale che ne sia l’oggetto: se così non fosse, infatti, non avrebbe avuto senso alcuno la distinzione tra errore indotto da dolo ed errore non indotto da dolo, sulla quale invece il legislatore ha fondato i precetti sopra ricordati.
Il principio secondo cui il dolo è sempre causa di annullamento del contratto, anche quando induca l’altra parte in errore sul valore dell’oggetto del negozio, in ogni caso, è stato già ripetutamente affermato da questa Corte con riferimento alla dolosa induzione ad acquistare azioni o quote sociali di valore inferiore a quello reale: e nella motivazione di tali decisioni si affermò ore rotundo che “il dolo di un contraente (…) rende annullabile il contratto in relazione ad ogni tipo di errore determinante del consenso” (sono parole di Sez. 1, Sentenza n. 5773 del 21/06/1996, Rv. 498254; nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 16031 del 19/07/2007, Rv. 598889).
Infine, v’è da rimarcare che la giurisprudenza invocata dalla ricorrente a sostegno della tesi secondo cui l’errore sul valore non condurrebbe all’annullamento “nemmeno se indotto da dolo”, e citata a pag. 13 del ricorso (e cioè Sez. 3, Sentenza n. 12424 del 25/05/2006, Rv. 591208; Sez. 3, Sentenza n. 20792 del 27/10/2004, Rv. 579221; Sez. U, Sentenza n. 1955 del 11/03/1996, Rv. 496250), è totalmente inconferente rispetto all’oggetto del presente giudizio, riguardando la natura che gli artifici e raggiri debbono possedere per condurre all’annullamento del contratto per dolo.
7.1. Coi quarto motivo di ricorso la Komatex lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in una violazione di legge con riferimento all’art. 1497 c.c..
La tesi della ricorrente è che la vetustà del bene acquistato dalla Mercantile Leasing costituiva una “mancanza di qualità promesse”, la quale non poteva legittimare l’azione di annullamento, ma solo le azioni di cui all’art. 1497 co.
7.2. Il motivo è inammissibile perché non risulta mai sollevato nei gradi di merito. E comunque, se lo fosse stato, sarebbe stato onere della ricorrente indicare in quale atto, ed impugnare la sentenza d’appello ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
8. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c..

P.Q.M.

la Corte di cassazione:
-) rigetta il ricorso;
-) condanna la Komatex s.r.l. alla rifusione nei confronti della Banca Italease s.p.a. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in Euro 12.200 (di cui 200 per spese).

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