LA MASSIMA

L’assenza di un dissenso manifestamente opposto dalla vittima nei confronti del reo non consente di ritenere integrato il delitto di violenza sessuale (nel caso di specie la Corte annulla la sentenza di condanna per il delitto di violenza sessuale a carico di un uomo in quanto non risultava alcun gesto, atto o frase con cui la vittima avesse manifestato il proprio dissenso né risulta che l’imputato si fosse reso conto di tale dissenso).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

SENTENZA 19 marzo 2012, n.10516


Svolgimento del processo

 

Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza 11.6.2010 del tribunale di Roma, assolse N.G. dal reato di sequestro di persona, confermò la condanna del medesimo per i reati di violenza sessuale e di lesioni in danno di P.V.A. , rideterminò la pena in anni due e mesi cinque di reclusione e revocò le pene accessorie.

L’imputato propone ricorso per cassazione deducendo:

1) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen. e mancanza o mera apparenza della motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato, sia oggettivi sia soggettivi. Lamenta in particolare che la corte d’appello non ha indicato quali sarebbero gli atti, concretamente posti in essere idonei ad integrare la violenza o la minaccia, che hanno costretto la persona offesa a compiere atti sessuali. Né il riferimento alle lesioni può costituire motivazione sull’esistenza di una violenza diretta alla coartazione della volontà per il compimento di atti sessuali. Manca quindi la motivazione sulla attività di costrizione psicologica o fisica, nonché sulla sussistenza degli atti sessuali, dato che la persona offesa non aveva mai parlato di palpeggiamenti o toccamenti.

2) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen. e manifesta illogicità, mancanza o mera apparenza della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato con particolare riferimento alla rappresentazione del consenso della persona offesa. Lamenta che la sentenza impugnata non ha risposto ai motivi di appello relativi alla mancanza del dolo. Inoltre ha ammesso la presenza di un atteggiamento collaborativo da parte della donna ma non ha indicato come l’imputato avrebbe potuto e dovuto rappresentarsi il dissenso della medesima, nonostante alcuni dati fattuali di significato univoco. Erroneamente poi la corte d’appello ha affermato che una volontà dolosa è indipendente dall’eventuale errore di fatto sugli elementi costitutivi della fattispecie. La motivazione è manifestamente illogica laddove pretende dall’imputato di rappresentarsi il dissenso della donna nonostante la presenza di chiari e manifesti elementi di segno contrario e di inequivoche manifestazioni di consenso.

3) mancanza o mera apparenza della motivazione in ordine alla ritenuta attendibilità della persona offesa, in mancanza di elementi di riscontro ed in considerazione delle altre fonti di prova. Lamenta che la corte d’appello ha omesso di rispondere alle censure avanzate sul punto ed in particolare di valutare le dichiarazioni in senso contrario dei testi A. e R. . La corte poi avrebbe dovuto valutare l’attendibilità alla luce delle dichiarazioni della persona offesa considerate globalmente e nel loro complesso, essendo riferibili ad un unico episodio.

4) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen. e mancanza o mera apparenza della motivazione in relazione al mancato riconoscimento della ipotesi lieve, che è stata esclusa solo in relazione alle modalità della condotta senza prendere in considerazione gli altri elementi rilevanti a tale fine, quali quelli soggettivi. Sul punto la corte d’appello si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado senza esaminare le censure svolte con l’appello.

5) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 582, 585, 576 cod. pen. e mancanza o mera apparenza della motivazione circa le caratteristiche delle presunte lesioni e la loro riconducibilità alla nozione di malattia penalmente rilevante.

6) violazione dell’art. 533 cod. proc. pen., mancanza o mera apparenza della motivazione in ordine alla determinazione della pena ed al suo mancato contenimento nei limiti edittali, nonché in ordine all’aumento per la continuazione, ed alla mancata riduzione nel massimo per le concesse attenuanti generiche.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.

Innanzitutto, la sentenza impugnata, con la sua scarna motivazione, ha omesso di esaminare e valutare le specifiche doglianze avanzate con l’atto di impugnazione in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, essendosi limitata a richiamare acriticamente e genericamente la sentenza di primo grado. In particolare, tra l’altro, la sentenza non ha risposto all’eccezione che la descrizione dello stato dei luoghi non poteva considerarsi un obiettivo elemento di riscontro in relazione alla violenza sessuale e che anzi avrebbe potuto considerarsi conferma della tesi difensiva, secondo cui lo stato di timore della donna avrebbe potuto essere stato causato proprio dallo stato dell’immobile. La sentenza impugnata non ha nemmeno spiegato le ragioni per le quali le dichiarazioni dei testi A. e R. sono state ritenute non idonee a contrastare il racconto della persona offesa. Non è stata poi data risposta alla richiesta avanzata con l’appello di compiere una valutazione complessiva, e non già frazionata, delle dichiarazioni rese dalla donna, né sono state indicate le ragioni per le quali nella specie tale valutazione globale non potesse farsi. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, “È illegittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa, riferibili ad un unico episodio avvenuto in un unico contesto temporale, in quanto il giudizio di inattendibilità su alcune circostanze inficia, in tale ipotesi, la credibilità delle altre parti del racconto, essendo sempre e necessariamente ravvisabile un’interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato. (In motivazione la Corte ha precisato che, in tal caso, l’attendibilità della persona offesa deve essere valutata globalmente, tenendo conto di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo)” (Sez. III, 11.5.2010, n. 21640, P., m. 247644).

La sentenza impugnata ha poi omesso di valutare e di fornire adeguata motivazione sul motivo di appello con il quale si contestava la sussistenza di atti di minaccia o di violenza per costringere la donna al compimento degli atti sessuali. La corte d’appello, infatti, si limita a fare genericamente riferimento ad una “condotta di abuso” perpetrata dall’imputato “con modalità intrinsecamente violente riscontrate dalle lesioni refertate”, senza però accertare e spiegare in cosa sarebbe consistita la condotta abusiva e quale sarebbe stata la condotta in concreto idonea a determinare la coartazione della volontà del soggetto passivo. È poi irrilevante il generico richiamo alle lesioni refertate perché ciò non è sufficiente, senza una specifica motivazione, a dimostrare in concreto la costrizione al compimento di atti sessuali, ben potendo sussistere le lesioni senza una violenza sessuale e viceversa una violenza sessuale senza le lesioni. La motivazione sul reato di cui al capo C), pertanto, non può di per sé ritenersi adeguata e congrua al fine della dimostrazione del diverso reato di cui al capo B).

La configurabilità di una costrizione psicologica poi è stata affermata con motivazione meramente apparente, sulla base di un generico riferimento al contesto nel quale si erano svolti i fatti, anche qui senza spiegare perché la visione sul computer di scene pornografiche o le proposte modalità del rapporto fossero state idonee a determinare una costrizione tale da coartare la volontà della persona offesa, anche alla luce della descrizione dell’imputato da costei fatta.

I suddetti profili di motivazione carente e manifestamente illogica, peraltro, si ricollegano tutti al vizio di motivazione relativo alle due circostanze fondamentali e decisive, relative sia alla manifestazione di un dissenso da parte della donna a proseguire nella permanenza nel locale e negli atti sessuali, sia alla necessaria effettiva percezione da parte dell’imputato di un tale dissenso.

Dalla sentenza di primo grado, invero, emergono una serie di episodi significativi, quali il fatto che la donna sin dall’inizio si era dimostrata disinvolta e collaborativa ed aveva poi assecondato la volontà dell’imputato che voleva trattenerla nell’appartamento; che la stessa aveva pacificamente accettato di cambiarsi d’abito ed aveva spontaneamente invitato l’imputato a non allontanarsi durante il cambio effettuato in sua presenza; che aveva rivolto all’imputato alcune frasi di esplicita sottomissione, come “sono la tua schiava”, “farò tutto quello che vuoi”, frasi queste riportate anche dalla sentenza impugnata. Quest’ultima poi afferma apoditticamente che da tali frasi e comportamenti si sarebbe dovuto addirittura desumere il dissenso della donna e lo stato di tensione nel quale versava, ma a sostegno di questa ipotesi non fornisce alcuna motivazione. La sentenza di primo grado, invece, mediante una valutazione più approfondita ed una motivazione più esaustiva, ha ritenuto che le suddette condotte della persona offesa potevano essere state in realtà determinate da un sentimento di paura per il fatto di trovarsi sola con uno sconosciuto in un ambiente molto dimesso e dall’intento di impedire l’aggravarsi della situazione. Sennonché ciò che rileva non è che gli atteggiamenti collaborativi e le frasi pronunciate fossero stati in realtà frutto di una finzione e che nella sua sfera interiore la donna mantenesse un dissenso al compimento degli atti sessuali. Ciò che rileva, invece, è unicamente la circostanza che questo dissenso fosse stato manifestato all’imputato e che questi ne fosse stato consapevole e che ciò nonostante avesse dolosamente compiuto gli atti sessuali contro la manifestata volontà della donna. Ora, dalla sentenza di primo grado (e tanto meno da quella d’appello) non risulta alcun gesto, atto o frase con cui la donna avesse manifestato all’imputato il suo dissenso né risulta che l’imputato si fosse comunque reso conto di tale dissenso. Anzi, la sentenza di primo grado ha accertato proprio una situazione opposta, ossia che il dissenso non era stato manifestato e che l’imputato pertanto non se ne era reso conto. La sentenza invero si è riferita solo allo stato d’animo della persona offesa ed ha affermato che l’imputato non aveva saputo cogliere questo stato d’animo sebbene questo potesse emergere all’esterno, e che ciò era spiegabile in considerazione della condizioni psico-fisiche dell’imputato medesimo, soggiogato da crescenti impulsi sessuali ed offuscato da un modus operandi che soleva ripetere con ossessione negli incontri sessuali con prostitute che aveva in quei locali. Il tribunale ha poi esplicitamente affermato che in quella occasione la donna non intendeva prestare il suo consenso agli atti sessuali, ma l’imputato aveva immaginato esistente tale consenso perché ingiustificatamente incapace di leggere lo stato d’animo della sua interlocutrice. Questa motivazione è però manifestamente illogica perché, trattandosi di delitto doloso, sarebbe irrilevante un’eventuale colpa del N. nel non aver saputo interpretare in senso diverso gli atteggiamenti condiscendenti della donna. La sentenza di primo grado ha poi ribadito di nuovo che l’imputato non si era reso conto del dissenso della donna e che ciò era confermato dal diverso atteggiamento tenuto dall’imputato medesimo una volta al di fuori dell’appartamento allorché ha invece per la prima volta colto “lo stato di disagio palesato dalla vittima all’improvviso cambiamento del tragitto da percorrere sino alla metropolitana, così da lasciar verosimilmente ritenere che egli, una volta fuori da quel contesto delirante, fosse realmente capace di interpretare l’altrui volontà”. La sentenza di primo grado, dunque, aveva indubbiamente accertato in punto di fatto che la donna, fin quando era rimasta nell’appartamento, non aveva mai manifestato il proprio dissenso né aveva mostrato disagio; che l’imputato non si era mai reso conto dell’intimo dissenso della donna; che la donna aveva manifestato disagio solo all’uscita dell’appartamento e che l’imputato se ne rese immediatamente conto.

Orbene, nonostante la indubbia decisività dell’accertamento del dolo sia dell’elemento rappresentativo sia di quello volitivo e della rappresentazione da parte dell’imputato di un elemento costitutivo della fattispecie concreta, la corte d’appello ha completamente omesso di motivare sul punto, nonostante tali elementi sembrassero essere stati esclusi dalla sentenza di primo grado. La motivazione della sentenza impugnata, pertanto, è mancante sotto il profilo della sussistenza del dolo, avendo attribuito all’imputato una volontà criminosa pur in assenza di una corretta rappresentazione di tutti gli elementi della fattispecie concreta.

La sentenza impugnata del resto è anche, sul punto, manifestamente illogica allorché, nell’escludere un consenso “neppure putativamente ritenuto”, richiede all’imputato di rappresentarsi il dissenso della donna nonostante la presenza di elementi di segno contrario interpretabili come manifestazioni di consenso che, seppur finte, erano in concreto sussistenti, quali le esplicite espressioni di sottomissione, il fatto che la donna aveva invitato l’imputato ad essere presente mente si cambiava il vestito, la mancanza di un allontanamento dell’uomo da parte della donna che si sarebbe limitata solo a dire di non preoccuparsi perché non sarebbe caduta dalla scala.

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Roma per nuovo giudizio.

Gli altri motivi restano assorbiti ma non preclusi.

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Roma.

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