Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 18 marzo 2014, n. 6192 

Svolgimento del processo

Nel febbraio 1996 C.P.G. , Z.A. e C.D.A. convenivano in giudizio, avanti al tribunale di Campobasso, C.B. , D.N.G. , la Sapa Assicurazioni spa e la Sara Assicurazioni spa, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni patrimoniali e morali da essi subiti in conseguenza del sinistro stradale (omissis), in cui aveva perso la vita C.A.R. della quale erano – rispettivamente – padre, madre e fratello.
Con sentenza n.77 dell’8 febbraio 2002 il tribunale di Campobasso, in parziale accoglimento delle domande: – condannava C.B. (altro fratello della vittima, nonché conducente della vettura sulla quale quest’ultima era trasportata), D.N.G. (conducente della vettura investitrice), nonché le rispettive compagnie assicuratrici, a pagare agli attori, a titolo di danno morale iure proprio per il decesso della congiunta (al netto del 30% di concorso colposo attribuito a quest’ultima per la mancata adozione della cintura di sicurezza) la somma, rispettivamente, di Euro 57.331,02 ciascuno ai genitori, e di Euro 17.199,30 al fratello C.D.A. ; – condannava altresì il D.N. e la Sapa Assicurazioni spa a pagare al C.B. (attore in diverso procedimento, poi riunito) per il medesimo titolo (e previa deduzione, oltre al citato 30%, anche dell’ulteriore quota del 35% di concorso di colpa a lui ascritto) la somma di Euro 8.599,65.
In ordine alla dinamica del sinistro, osservava il Tribunale:
“sulla scorta dei rilievi eseguiti dalla polizia giudiziaria subito dopo il sinistro nonché delle allegazioni difensive di C.B. e della Sara, risulta che il sinistro si verificò perché C.B. , per evitare di sbandare sul pietrisco che occupava la propria corsia (…), invase alla guida dell’autovettura Ford Escort della sorella A.R. la corsia di pertinenza dei veicoli provenienti dalla direzione opposta, andando a collidere violentemente con il Ford Transit condotto dal D.C. , che viaggiava tenendo regolarmente la destra e ad una velocità adeguata alle condizioni di tempo e di luogo. Nonostante la pronta frenata e la sterzata verso l’estremo limite destro della carreggiata operate dal D.C. , l’impatto fu inevitabile. Per effetto dell’urto C.A.R. , che viaggiava a bordo della vettura Ford Escort condotta dal fratello B. , fu sbalzata al di fuori dell’abitacolo ed investita dall’Espace condotto dal D.N. , sopraggiunto subito dopo la collisione tra gli altri due veicoli. Poiché il D.N. non effettuò alcuna frenata prima dell’impatto con la vittima, deve necessariamente dedursene o che egli seguiva il Ford Transit senza mantenere la distanza di sicurezza occorrente per percepire il pericolo e porre in essere le dovute manovre di arresto e di emergenza in caso di collisione tra il veicolo che lo precedeva ed altri automezzi, oppure che procedeva a velocità non adeguata alle concrete condizioni di; visibilità esistenti al momento del fatto (…)”.
In ordine alla individuazione delle singole responsabilità, argomentava il Tribunale: “alla stregua degli elementi sopra indicati, gravi, precisi e concordanti, deve ritenersi che il sinistro mortale fu provocato dalle condotte colpose concorrenti di C.B. e D.N.G. , per avere il primo proceduto a velocità non adeguata alle condizioni, a lui note, della strada ed invaso l’opposta corsia di marcia, ed il secondo omesso di mantenere la prescritta distanza di sicurezza dal veicolo che lo precedeva e/o viaggiato a velocità non adeguata alle concrete condizioni di visibilità della strada. (…). La circostanza che, in conseguenza dell’urto, C.A.R. sia stata sbalzata fuori dalla propria autovettura rivela, senza possibilità di equivoco, che la stessa non indossava, come prescritto, la cintura di sicurezza, donde la sussistenza, nella eziologia dell’evento dannoso, del concorso di colpa della vittima che, avuto riguardo alla gravità della colpa ed alle conseguenze derivatene, ritiene equo determinare nella misura del 30%, mentre il residuo 10% va imputato in pari misura ai conducenti della Ford Escort (C.B. ) e dell’Espace (D.N. )”.
Esclusa la prova di un danno patrimoniale risarcibile, anche sotto il profilo delle spese funerarie, osservava ancora il Tribunale, in ordine al danno morale sofferto dagli attori per la morte del congiunto, che tale voce di danno dovesse essere determinata “al netto della parte imputabile al concorso di colpa della vittima (30%), avuto riguardo alla gravitò dell’illecito, all’età della vittima e dei congiunti, al grado di parentela ed alla comunanza di vita con la vittima, e facendo applicazione delle tabelle all’uopo elaborate dal tribunale di Benevento (…), nella misura di Euro 57.331,02 per ciascun genitore (un terzo del danno morale che sarebbe spettato alla vittima in caso di permanenza in vita con invalidità del 100%, a sua volta determinato in 1/2 del danno biologico corrispondente) ed Euro 17.199,30 (1/5 del danno morale spettante all’unico genitore superstite, a sua volta corrispondente ad 1/2 del danno morale che sarebbe spettato alla vittima in caso di permanenza in vita con invalidità del 100%) per il fratello D.A. . Al fratello B. , invece, attesa la sua corresponsabilità nel sinistro (35%), va riconosciuta la minore somma di Euro 8.599,65”.
Avverso tale sentenza veniva interposto appello principale da C.P. , Z.A. e C.D.A. , nonché appello incidentale da C.B. e Winterthur Assicurazioni (incorporante la Sapa Assicurazioni spa). Nella contumacia del D.N. , interveniva la sentenza n. 59 del 27 marzo 2007 con la quale la corte di appello di Campobasso confermava integralmente la sentenza del Tribunale, con condanna solidale degli appellanti principali e degli appellanti incidentali alla rifusione delle spese processuali del grado a favore della appellata Sara Assicurazioni spa.
Avverso tale sentenza viene proposto ricorso per cassazione da parte di C.P. , Z.A. e C.D.A. sulla base di otto motivi; nonché ricorso incidentale da parte di C.B. in forza di sei motivi. Resiste la Sara Assicurazioni spa – assicuratore di C.B. – con controricorso a ricorso principale ed incidentale.

Motivi della decisione

p.1. I due ricorsi – principale ed incidentale – vanno riuniti ex art. 335 cod.proc.civ..
Attesa la conformità a diritto – per le ragioni che si diranno – della sentenza impugnata, si ritiene nella specie ininfluente la mancata prova del perfezionamento della procedura di notificazione all’estero dei due ricorsi al D.N. , contumace in appello.
p.2. Con il primo motivo – tanto del ricorso principale quanto del ricorso incidentale – si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 1^ co. n. 3) cpc con riferimento agli articoli 2730, 2733 cc nonché 125, 228 e 229 cpc, atteso che la corte di appello aveva affermato il concorso di colpa della vittima, per la mancata adozione della cintura di sicurezza, in forza dell’attribuzione agli attori di dichiarazioni confessorie asseritamente contenute negli atti introduttivi di primo grado (rileva, per il ricorrente incidentale C.B. , l’atto di citazione 15.2.96 introduttivo di separato giudizio, poi riunito a quello proposto dagli odierni ricorrenti principali). Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello (v. sent., pag. 7), tali dichiarazioni (puramente narrative della prima ricostruzione del sinistro da parte del perito in sede penale) non erano state da essi attori personalmente sottoscritte, né presentavano i requisiti oggettivi e soggettivi della confessione giudiziale.
Con il secondo motivo di ricorso principale ed incidentale si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 1^ co. n. 3) cpc con riferimento agli articoli 112 e 163 cpc, stante l’erronea interpretazione da parte della Corte di Appello, con conseguente extra o ultrapetizione, degli atti di causa e, in particolare, dell’atto di citazione in primo grado di essi attori. Atto di citazione nel quale essi si erano limitati a riferire delle prime risultanze peritali in sede penale (perizia ing. Q. , integralmente prodotta), le quali non si erano espresse con certezza in ordine alla dinamica dello sbalzo dall’abitacolo della C.A.R. per effetto dell’urto e della mancata adozione dei sistemi di ritenzione, ipotizzando al contrario anche la possibilità che la vittima fosse stata investita dall’Espace non perché sbalzata fuori dall’abitacolo della Ford Escort, ma perché da quest’ultima scesa volontariamente dopo il primo impatto con il Ford Transit. Che essi si fossero limitati a rappresentare questa alternativa – senza pertanto riconoscere alcunché in ordine al concorso di colpa della A.R. – doveva desumersi dal tenore sostanziale delle loro argomentazioni e dalla portata delle loro domande, dalle quali risultava d’altra parte la richiesta di un risarcimento integrale, anche a fronte del fatto che il concorso di colpa della vittima era stato affermato d’ufficio dal Tribunale, non già fatto oggetto di eccezione da parte dei convenuti.
I motivi fin qui illustrati – assistiti ex art.366 bis cod.proc.civ. dai relativi quesiti di diritto – devono essere trattati unitariamente in quanto tutti incentrati, nella comune prospettiva della violazione e falsa applicazione delle medesime norme sostanziali e processuali, sull’esatta interpretazione della prospettazione attorea: vuoi sul piano probatorio della natura confessoria eventualmente attribuibile alle dichiarazioni sulla dinamica del sinistro contenute negli atti introduttivi; vuoi sul piano della esatta individuazione dei fatti costitutivi dagli attori allegati a sostegno della pretesa risarcitoria.
Per quanto concerne il primo aspetto (asserita confessione) la censura appare in linea di principio fondata, ma da ciò non può conseguire la cassazione della sentenza di appello.
Nel caso di specie, l’attribuzione di natura confessoria giudiziale alle dichiarazioni sulla dinamica del sinistro svolte dagli attori degli atti introduttivi del giudizio è effettivamente errata là dove non considera che si trattava di dichiarazioni non sottoscritte personalmente dalle parti medesime (le quali si erano limitate a sottoscrivere la procura speciale alle liti) ma unicamente dai rispettivi difensori che avevano redatto gli atti. Deve dunque farsi qui applicazione dell’orientamento di legittimità in base al quale perché le dichiarazioni contenute negli atti processuali di parte possano acquisire il carattere proprio della confessione giudiziale spontanea ex art.229 cod.proc.civ. occorre che esse siano state sottoscritte personalmente dalla parte con modalità tali da rivelare inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli contenute dell’atto medesimo (animus confitendi). Né le dichiarazioni in questione possono essere imputate ad una vera e propria volontà confessoria della parte sulla sola base dell’avvenuta sottoscrizione della procura alle liti; dal momento che quest’ultima, indipendentemente dal fatto che sia apposta a margine o in calce all’atto difensivo (ovvero anche sullo stesso foglio contenente le dichiarazioni rilevanti), costituisce atto collegato ma pur sempre giuridicamente distinto da quest’ultimo e dal suo contenuto espositivo (Cass. n. 26686 del 06/12/2005; in termini Cass. n.10607 del 30/04/2010).
Ciò posto, le censure non sono purtuttavia tali dal comprovare la denunciata violazione normativa, dal momento che il giudice di appello – al di là della terminologia impropriamente usata: sent. pag. 7 – ha correttamente basato il proprio convincimento in ordine alla dinamica del sinistro (così come già fatta propria dal tribunale) su elementi probatori diversi dalla confessione giudiziale di parte attrice, ed espressamente assoggettati alla sua libera valutazione; elementi insiti – da un lato nell’efficacia ammissiva (non confessoria) comunque attribuibile, nel più ampio quadro istruttorio, alle suddette dichiarazioni contenute negli atti introduttivi del giudizio e – dall’altro – nelle risultanze del procedimento penale conclusosi con sentenza di applicazione pena su richiesta (oltre che del D.N. ) del C.B. ex art.444 cpp.
Diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, questo procedimento logico-giuridico appare corretto, dal momento che: a) ancorché prive di efficacia confessoria, le dichiarazioni rese dagli attori negli atti di citazione implicavano comunque ammissione di fondatezza della prima ricostruzione peritale della dinamica dell’incidente, incentrata non sulla discesa spontanea dall’auto della vittima, bensì sul suo sbalzo fuori dall’abitacolo (indotto dalla notevole violenza dell’impatto) e sul concorso di colpa; la sentenza qui impugnata fa ripetuto riferimento (pagg. 3 – 5) al fatto che il convincimento circa il concorso di colpa della vittima (oltre che del C.B. ) per la mancata adozione della cintura di sicurezza che avrebbe impedito tale sbalzo, trovasse comunque fondamento in ragione delle “ammissioni” rese in tal senso dagli attori negli atti introduttivi del giudizio; b) ulteriore e convergente elemento (indiziario) di convincimento circa il suddetto concorso di colpa è stato dalla corte di appello tratto (pagg. 5 – 6) dall’esito ex articolo 444 cpp del citato procedimento penale, nel quale il C.B. aveva formulato richiesta di applicazione pena a fronte di una imputazione che recepiva proprio la dinamica peritale dello sbalzo fuori dall’abitacolo e che, in ragione di ciò, gli addebitava anche lo specifico profilo di colpa insito nel non essersi previamente accertato che la sorella utilizzasse il dispositivo di trattenimento e sicurezza.
Sotto il primo profilo, va affermato che le dichiarazioni contra se contenute in un atto processuale di parte, quand’anche il non abbiano efficacia di confessione per le già esposte ragioni, possano purtuttavia fornire elementi indiziari di giudizio (Sez. 3, Sentenza n. 4744 del 04/03/2005, Rv. 579736).
Sotto il secondo profilo, pari contributo indiziario può trarsi dalla sentenza di applicazione pena ex articolo 444 cpp la quale – ancorché priva di efficacia preclusiva nel giudizio civile – si fonda pur sempre su un’ipotesi di responsabilità di cui il giudice civile può e deve tenere motivatamente conto nell’iter di formazione del proprio apprezzamento probatorio e del proprio convincimento decisionale (Cass. n. 3626 del 24/02/2004; Cass. n. 26250 del 06/12/2011, Cass. n. 23906 del 19/11/2007, ed altre).
Sicché conforme a diritto risulta la decisione qui impugnata, la quale ha fondato la conferma della statuizione di primo grado in ordine al concorso di colpa della vittima e del C.B. proprio sulla interdipendenza valutativa di questi due elementi probatori; uno dei quali (quello ex articolo 444 cpp) non è d’altra parte stato fatto oggetto in questa sede di censura alcuna.
Né – venendo con ciò a quanto specificamente contestato con il secondo motivo di ricorso – può fondatamente sostenersi che questa interdipendenza valutativa del quadro indiziario si sia risolta in un vizio di ultra ovvero extra-petizione. Ciò perché il giudice di merito – nell’attribuire efficacia (quantomeno) ammissiva alla ricostruzione della dinamica del sinistro operata dagli attori negli atti introduttivi del giudizio – si è limitato ad interpretare tali atti ed a trame, come detto, non già materia decisionale non dedotta dalle parti, bensì – nell’osservanza ex articolo 112 cod.proc.civ. delle domande ed eccezioni delle parti – mero argomento indiziario di convincimento.
Va del resto considerato che gli odierni ricorrenti principali avevano ab initio chiesto la condanna al risarcimento a carico non soltanto del D.N. , ma anche del C.B. ; la cui responsabilità era già stata ipotizzata in sede penale anche per quanto concerneva lo specifico aspetto del mancato controllo sull’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte della sorella trasportata. Il che costituiva uno dei momenti qualificanti proprio della prima dinamica peritale dello sbalzo, come recepita dagli attori nella narrativa dei fatti contenuta nell’atto introduttivo del giudizio civile. Analogamente è a dirsi per lo stesso ricorrente incidentale C.B. , la cui domanda è stata correttamente interpretata dal giudice di merito anche sulla scorta di una emergenza processuale (la citata sentenza ex articolo 444 cpp) che gli addebitava, a titolo di concorso di colpa, anche questo specifico aspetto di natura omissiva; risultando a tal fine ininfluente – specialmente in assenza di censura per vizio motivazionale – che in sede di interrogatorio formale e di comparsa conclusionale in primo grado egli possa aver dedotto di aver mantenuto memoria unicamente dello sbandamento e dell’impatto della sua vettura con il Ford Transit e non anche – a causa dello shock riportato – delle modalità della morte della sorella, da lui appresa soltanto in ospedale.
p.3. Con il terzo motivo di ricorso principale e di ricorso incidentale si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 1^ co. n. 3) cpc con riferimento all’articolo 345 cpc, avendo la corte di appello ritenuto che la formulazione di un motivo di gravame finalizzato a contestare il concorso di colpa della vittima per la mancata adozione della cintura di sicurezza integrasse violazione del divieto di novità in appello. Ciò sull’erroneo presupposto che essi attori avessero, per le già esposte ragioni, aderito ab initio alla tesi del concorso di colpa, in realtà affermato per la prima volta d’ufficio dal Tribunale.
Nemmeno questa censura può trovare accoglimento.
Come si è detto, il concorso di colpa della vittima era stata affermata dal tribunale non già d’ufficio, ma sulla base delle stesse ammissioni degli attori circa la dinamica (accreditata dal perito penale) dello sbalzo dall’abitacolo. Per contro, la tesi svolta dagli attori in appello introduceva inammissibilmente, ex art. 345 cod.proc.civ., un tema di indagine effettivamente non esplorato – perché non dedotto – davanti al Tribunale, in quanto concernente l’opposta dinamica della discesa spontanea dalla vettura da parte della C. .
Se è vero che anche questa eventualità era stata presa residualmente in esame dal perito penale, altrettanto indubbio è che la prospettazione degli attori in primo grado era stata quella di ritenere assodato che la morte della congiunta fosse derivata dall’investimento conseguito al suo sbalzo fuori dall’abitacolo; a sua volta indotto dalla mancata adozione della cintura di sicurezza. Con quanto ne conseguiva in ordine alla (coerente) formulazione della domanda di risarcimento anche nei confronti del C.B. che, sulla scorta di quella ricostruzione fattuale, si era reso corresponsabile per non aver procurato che la sorella utilizzasse tale dispositivo.
È tuttavia dirimente osservare come la corte di appello abbia ritenuto (pag. 5) che la deduzione da parte degli appellanti della dinamica alternativa fosse – indipendentemente dal problema della novità ex articolo 345 cpc – comunque infondata perché mirata ad elidere “non solo il concorso colposo della vittima ma anche (…) il concorso colposo di C.B. nella produzione dell’evento mortale”, e ciò in contrasto, oltre che con le deduzioni fattuali e le conclusioni degli attori, anche con le citate risultanze penali.
Ebbene, questa seconda ratio decidendi (non di inammissibilità ex art. 345 cit., ma di infondatezza) non viene censurata in sede di legittimità; sicché quand’anche la doglianza in esame trovasse in ipotesi qui accoglimento, la decisione adottata sul punto dal giudice di merito dovrebbe purtuttavia essere confermata nella intangibilità dell’altro presupposto logico-giuridico idoneo ad autonomamente sorreggerla (Cass. n. 12372 del 24/05/2006; in termini: Cass. 16.8.06 n.18170; Cass.29.9.05 n.19161 ed altre).
p.4. Nel quarto motivo di ricorso principale e di ricorso incidentale, si lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 1^ co. n. 3) o n. 4) cpc con riferimento all’articolo 112 cpc, non essendosi la corte di appello, pronunciata sul motivo di gravame con il quale essi appellanti avevano lamentato l’insussistenza di qualsivoglia elemento istruttorie di conferma del nesso eziologico tra l’evento morte e la mancata adozione della cintura di sicurezza. Avevano anzi essi prospettato, nella censura di appello in oggetto, che quand’anche si fosse accolta la prima ricostruzione peritale della dinamica del sinistro (sbalzo della donna fuori dall’abitacolo), l’impatto con il Ford Transit era stato comunque di violenza tale (come evincibile dalla completa distruzione dell’autovettura e dall’avanzamento del sedile sul quale era seduta la vittima, così come appurato dalla polizia stradale nell’immediatezza dei rilievi) “da escludere ogni possibilità di salvezza per la passeggera”.
Le censure in oggetto – anch’esse basate sulla violazione di legge sostanziale e processuale, ma non su vizio di tipo motivazionale ex articolo 360, 1^ co. n. 5) cpc – sono infondate perché la corte di appello si è pronunciata su tutti i capi di domanda sottoposti alla sua valutazione. D’altra parte, una volta che il giudice di secondo grado abbia confortato una determinata ricostruzione della dinamica del sinistro (chiaramente implicante la sussistenza di nesso causale tra il mancato allaccio della cintura di sicurezza, lo sbalzo della C. fuori dall’abitacolo e la morte per investimento da parte del veicolo che sopraggiungeva), la pronuncia in questione deve ritenersi, non omessa, ma implicitamente reiettiva della tesi sostenuta dagli appellanti nel motivo che si assume pretermesso. Tanto più che il giudice di merito non ha l’onere di prendere in considerazione tutti indistintamente gli elementi addotti dalla parte, una volta che faccia propria – con logica motivazione – una ricostruzione fattuale di per sé idonea a sostenere la decisione con riferimento a tutti gli elementi costitutivi della domanda e dunque, come nel caso in esame, con riguardo anche allo specifico aspetto del nesso causale.
Sicché, a ben vedere, il vizio qui lamentato si risolve in realtà nel censurare la corte di appello non già nel non aver provveduto su una “domanda”, bensì nel non essere addivenuta ad una diversa ricostruzione fattuale della vicenda; ricostruzione in ragione della quale la mancata adozione della cintura di sicurezza sarebbe asseritamente risultata comunque ininfluente nella determinazione causale dell’evento-morte.
Si tratta però di censura finalizzata ad ottenere una nuova valutazione di merito; di per sé inammissibile, vieppiù nella mancata deduzione di un vizio di natura prettamente motivazionale.
p.5. Nel quinto motivo del ricorso principale e del ricorso incidentale si deduce insufficiente motivazione ex articolo 360 1^ co. n. 5) cpc su un fatto controverso e decisivo, avendo la corte di appello acriticamente recepito la motivazione del tribunale in ordine alla quantificazione del danno morale sofferto da essi attori, pur a fronte di specifica censura con la quale essi avevano lamentato che “ai genitori della defunta doveva essere riconosciuto il danno morale nella misura di 1/2, anziché di un terzo e, al fratello, nella misura di 1/3, anziché di 1/5; ciò in ragione dell’età della vittima e dell’intenso legame affettivo esistente tra la stessa e tutti i componenti del nucleo familiare, in particolare, del notevole pretium doloris sofferto dai genitori per la morte, in giovane età, dell’unica figlia femmina, al momento del sinistro ancora con loro convivente ed in procinto di contrarre matrimonio, i quali si sono visti privare, in tarda età, di un apporto affettivo insostituibile atteso il fortissimo legame che, come è noto, unisce i genitori anziani ai figli e che si rafforza sempre più con l’avanzare degli anni”.
Sul punto, la corte di appello (pag. 8) ha così argomentato: “gli appellanti principali hanno espressamente condiviso il criterio adottato dal tribunale, ossia il riferimento alle tabelle del tribunale di Benevento, ai fini della liquidazione del danno morale, di cui hanno però chiesto una quantificazione in misura maggiore rispetto a quella operata dal primo giudice. Anche qui, però, la quantificazione del tribunale si presenta equa, correttamente motivata (anche con riferimento ai parametri della gravità dell’illecito, dell’età della vittima e dei congiunti, del grado di parentela e della comunanza di vita, oltre che del grado di corresponsabilità della vittima e delle percentuali a cui rapportare la liquidazione) e del tutto condivisibile, per cui non vi è motivo alcuno per discostarsene”.
La motivazione così adottata, pur richiamando quella del Tribunale, appare congrua e sufficiente anche nella menzione dei parametri applicati (gravità dell’illecito; età della vittima e dei congiunti; grado di parentela; convivenza; corresponsabilità della vittima).
Si osserva, da un lato, che: “l’esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di procedere alla liquidazione del danno in via equitativa è suscettibile di sindacato in sede di legittimità soltanto se la motivazione non da adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (Cass. n. 6285 del 30/03/2004, ed altre in termini); e, dall’altro, che la motivazione della sentenza “per relationem” è ammissibile, purché il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e della identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio (Cass. n. 7347 dell’11 maggio 2012).
In assenza di carenze motivazionali, non può la corte di legittimità essere investita del riesame della liquidazione equitativa del danno, trattandosi di tipica valutazione discrezionale di merito.
p.6. Nel sesto e nel settimo motivo del ricorso principale si lamenta – rispettivamente – insufficiente o contraddittoria motivazione ex articolo 360 1^ co. n. 5) cpc su un fatto controverso e decisivo, nonché violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 1^ co. n. 3) cpc con riferimento agli articoli 2043, 2056, 1223, 1226, 1227, 2727 e 2729 cod.civ.. Ciò il perché la corte di appello aveva acriticamente recepito la motivazione del tribunale in ordine alla reiezione della domanda di risarcimento del danno patrimoniale sofferto da essi attori, pur a fronte di specifica censura con la quale essi avevano lamentato che: “la motivazione del giudice di primo grado secondo cui la C.A.R. , poiché era in procinto di sposarsi avendo contratto promessa di matrimonio pochi giorni prima dell’incidente, non avrebbe più destinato una quota del proprio reddito ai genitori con i quali conviveva – è erronea poiché il giudicante ha completamente omesso di considerare, traendone le necessarie conclusioni che la defunta, anche dopo il matrimonio, avrebbe continuato a versare una quota, anche minima, del proprio reddito in favore degli anziani genitori, così come avviene in tutte le famiglie di origine contadina ove l’intenso legame affettivo tra i componenti si traduce in una forte solidarietà economica che dura per tutta la vita, anche dopo che i figli creano nuclei familiari autonomi”.
Inoltre (settimo motivo) aveva la Corte di Appello – da un lato – omesso di considerare che il risarcimento del danno insito nella perdita dell’apporto economico da parte della vittima doveva trovare fondamento non soltanto nell’intensità del vincolo affettivo, ma anche nella stabile convivenza ancora in essere con la figlia al momento della morte e – dall’altro – dato per scontato che il contributo economico sarebbe cessato per il solo fatto (probabile ma non certo) della costituzione di un nuovo nucleo familiare.
I motivi qui in esame sono suscettibili di trattazione unitaria perché entrambi incentrati – ora sotto il profilo della carenza di motivazione ed ora sotto quello della violazione di legge – sulla omessa valutazione a fini risarcitori dello stato di convivenza con la vittima e della sussistenza nella specie di un danno da mancata percezione in futuro di una quota economica di mantenimento.
Sul punto, la corte di appello ha così motivato (pag. 7):
“correttamente il tribunale ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale subito dagli eredi a seguito della morte del congiunto essendo pacifico che, all’epoca del sinistro, la stessa era in procinto di sposarsi e beneficiava di un modesto reddito di operaia che ovviamente avrebbe destinato per intero al costituendo nuovo nucleo familiare. Quanto poi alla circostanza, addotta dagli appellanti, secondo cui la vittima viveva in una famiglia di origine contadina, questa rileva esattamente nel senso opposto (come esattamente eccepito dalla SARA), e cioè nel senso della presumibile forte propensione al risparmio da parte dei genitori finalizzata proprio a venire incontro alle necessità dei figli”.
Anche in tal caso la motivazione appare congrua, dal momento che con essa si da succintamente ma esaurientemente conto sia della peculiarità della fattispecie rappresentata dal fatto che la C.A.R. era prossima a sposarsi e, dunque, a costituire un nuovo nucleo familiare; sia della circostanza che nessun elemento di causa era tale da confermare (certo non l’estrazione contadina della famiglia, essendosi anzi ritenuto che tale circostanza deponesse in senso esattamente antitetico a quello voluto dagli appellanti) l’assunto secondo cui la vittima avrebbe ciò nondimeno continuato nel tempo a destinare parte del proprio reddito al mantenimento dei genitori.
In definitiva, il convergente richiamo alle prossime nozze (circostanza reputata, nei limiti dell’umana prevedibilità, ragionevolmente certa); alla conseguente necessità di supportare economicamente il nuovo nucleo familiare che andava formandosi; alla oggettiva modestia del reddito di operaia percepito dalla A.R. ; all’estrazione contadina delle famiglie coinvolte, costituisce fattore attestante la sufficienza e la logicità della motivazione. Tanto più in un contesto nel quale non era stato rassegnato alcun particolare elemento di fatto – quale, ad esempio, lo stato di necessità dei genitori – tale da indurre il giudice di merito a logicamente trarre una conclusione differente da quella accolta.
Di tal che la censura si risolve in realtà nell’inammissibile sindacato in questa sede di una tipica valutazione di merito.
Considerazioni del tutto analoghe valgono ad escludere il vizio rassegnato anche sotto il profilo della violazione di legge, richiamandosi in proposito l’orientamento in termini – anche in ordine al presupposto della convivenza familiare con la vittima – secondo cui: “Affinché i genitori di una persona di giovane età, deceduta per colpa altrui, possano ottenere il risarcimento del danno patrimoniale per la perdita degli emolumenti che il figlio avrebbe loro verosimilmente elargito una volta divenuto economicamente autosufficiente, non è sufficiente dimostrare né la convivenza tra vittima ed aventi diritto, né la titolarità di un reddito da parte della prima, ma è necessario dimostrare o che la vittima contribuiva stabilmente ai bisogni dei genitori, ovvero che questi, in futuro, avrebbero verosimilmente e probabilmente avuto bisogno delle sovvenzioni del figlio” (Cass. n. 1212 del 11/05/2012).
p.7. Con l’ottavo motivo di ricorso principale ed il sesto motivo di ricorso incidentale si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 1^ co. n. 3) cpc con riferimento agli articoli 1226 cc e 113, primo comma e 115 cpc, avendo la corte di appello confermato la decisione del tribunale di esclusione del rimborso delle spese funerarie in quanto non documentate con fatture o ricevute fiscali; là dove, in caso di impossibilità di analitica documentazione, tali spese dovevano essere liquidate equitativamente in base alla comune esperienza del loro esborso.
Sul punto, la corte di appello ha così argomentato (pag. 8):
“Bene il tribunale non ha riconosciuto il rimborso delle spese funerarie perché non dimostrate nel quantum, posto che detta dimostrazione non sarebbe stata nella specie impossibile o molto difficile. Sul punto, anche la SC statuisce infatti condivisibilmente che il ricorso ad un’autonoma valutazione equitativa del danno da parte del giudice è legittimo e doveroso solo allorché la peculiare natura del pregiudizio lamentato dall’attore renda impervia ovvero impossibile la prova concreta del suo preciso ammontare (Cass. 16 settembre 2002 n.13469); cosa che, come si ripete, non era nel caso di cui è processo”.
Le censure non possono trovare accoglimento poiché la dedotta “notorietà” dell’esborso per spese funerarie da parte dei più stretti congiunti del defunto attiene, a tutto concedere, all’”an” del diritto risarcitorio; mentre in ordine al “quantum” rimane integro l’onere probatorio del danneggiato.
È vero che il giudice può essere chiamato ad una liquidazione equitativa del danno, ma ciò solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non possa essere provato dalla parte nel suo preciso ammontare.
Nel caso in esame, il giudice di appello ha ritenuto che gli attori (i quali, d’altra parte, non hanno censurato questa specifica argomentazione, limitandosi ad invocare il notorio) non avessero comprovato alcunché in ordine a tale condizione di oggettiva impossibilità, ovvero alla soverchia difficoltà che avevano incontrato nel fornire la prova dell’entità degli esborsi funerari da loro sopportati; sicché la decisione di escludere la liquidazione in via di equità appare del tutto conforme agli articoli 1226 e 2056 cod.civ.. Norme, queste ultime, che sono state da questa corte già ritenute applicabili anche alla liquidazione equitativa delle spese funerarie ma, appunto, solo “nel caso di impossibilità per gli eredi di esibire idonea documentazione” (Cass. n. 1474 del 26/02/1996)
Ne segue in definitiva il rigetto del ricorsi riuniti, con condanna delle parti ricorrenti alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate, come in dispositivo, ai sensi del DM Giustizia 20 luglio 2012 n.140.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi riuniti;
condanna ciascuna parte ricorrente a rifondere a SARA Assicurazioni spa le spese di lite che liquida in Euro 2700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi; oltre accessori di legge.-

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