buca colma d'acqua

Suprema Corte di Cassazione

sezione III
sentenza 18 febbraio 2014, n. 3793

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SEGRETO Antonio – Presidente
Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere
Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere
Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11179/2008 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
COM LAURIA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 77/2007 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 01/03/2007 R.G.N. 321/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/12/2013 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
(OMISSIS) convenne, davanti al Pretore di Lauria, il Comune di Lauria chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti nell’incidente stradale del (OMISSIS) lungo la strada (OMISSIS), quando, per la presenza sull’asfalto di una buca ricolma di acqua, non segnalata, perdeva il controllo dell’autovettura e finiva in una scarpata sottostante.
All’esito del giudizio, il tribunale di Lagonegro – essendo nelle more entrata in vigore l’istituzione del giudice unico -, con sentenza del 21.3.2003, accolse la domanda condannando il Comune convenuto al risarcimento dei danni come quantificati in sentenza.
A diversa conclusione pervenne la Corte d’Appello che, con sentenza in data 1.3.2007, accolse – come si desume dalla parte motivazionale della sentenza impugnata in questa sede l’appello proposto dal Comune rigettando la domanda proposta dalla (OMISSIS).
Quest’ultima ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
L’intimato non ha svolto attivita’ difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente si rileva che il dispositivo della sentenza impugnata riporta come dizione “rigetta l’appello”, laddove la motivazione della sentenza conduce chiaramente al suo accoglimento.
Si tratta di evidente errore materiale, che questa Corte puo’ rilevare al limitato fine di escludere la ricorrenza di un errore di giudizio o di attivita’, devoluto al suo sindacato (Cass. 12.3.2012 n. 3863), ma che non puo’ correggere, spettando tale attivita’ al giudice a quo ai sensi dell’articolo 287 c.p.c. e segg., (Cass. 7.11.2005 n. 21492).
Il ricorso e’ stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il Decreto Legislativo 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I. Secondo l’articolo 366 bis c.p.c., – introdotto dall’articolo 6 del decreto – i motivi di ricorso devono essere formulati, a pena di inammissibilita’, nel modo li’ descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’articolo 360, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’articolo 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Segnatamente, nel caso previsto dall’articolo 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilita’, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilita’ (S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n. 16002).
Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la violazione di norme di diritto, in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. S.U. 11.3.2008 n. 6420 che ha statuito l’inammissibilita’ – a norma dell’articolo 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilita’ alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).
La funzione propria del quesito di diritto – quindi – e’ quella di far comprendere alla Corte di legittimita’, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass.7.4.2009 n. 8463; v, anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433).
Inoltre, l’articolo 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalita’ di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta -ai fini della declaratoria di inammissibilita’ del ricorso stesso -, una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimita’, a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal n. 5, della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura – come gia’ detto – deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalita’ espressiva) va funzionalizzata, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto, ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui all’articolo 360 c.p.c.c., n. 5, (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), e’ richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidita’ formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso (c.d. momento di sintesi) – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. da ultimo Cass. 25.2.2009 n. 4556; v. anche Cass. 18.11.2011 n. 24255).
I motivi – che denunciano la violazione degli articoli 2043 e 2051 c.c., in relazione alla responsabilita’ della pubblica amministrazione per i danni causati da cose in custodia (strada) – investono la soluzione di una questione di diritto piu’ volte esaminata dalla Corte di legittimita’.
Essi, esaminati congiuntamente, sono fondati per le ragioni che seguono.
Sono principii consolidati nella giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di danni da cose in custodia i seguenti.
La responsabilita’ per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall’articolo 2051 cod. civ. ha carattere oggettivo e perche’ possa configurarsi in concreto e’ sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone, ne’ implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma e’, d’altro canto, quella di imputare la responsabilita’ a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalita’ d’uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale tipo di responsabilita’ e’ esclusa solamente dal caso fortuito (da intendersi nel senso piu’ ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato), fattore che attiene non gia’ ad un comportamento del custode (che e’ irrilevante) bensi’ al profilo causale dell’evento, riconducibile, non alla cosa che ne e’ fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilita’ e dell’inevitabilita’. L’attore che agisce per il riconoscimento del danno ha, quindi, l’onere di provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilita’, deve provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Cass. 19.2.2008 n. 4279; Cass.19.5.2011 n. 1106; v. anche Cass. 11.3.2011 n. 5910).
Con riferimento, poi, alla responsabilita’ della P.A. sui beni di sua proprieta’, ivi comprese le strade, va ribadito che l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell’articolo 2051 c.c., dei sinistri causati dalla particolare conformazione della strada o delle sue pertinenze.
Tale responsabilita’ e’ esclusa solo dal caso fortuito, che puo’ consistere, sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa vittima, consistita nell’omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe e che, attraverso l’impropria utilizzazione del bene pubblico, abbia determinato l’interruzione del nesso eziologico tra lo stesso bene in custodia ed il danno (Cass. 13.3.2013 n. 6306; Cass. 5.2.2013 n. 2660; Cass. 18.10.2011 n. 2108; Cass. 25.5.2010 n. 12695; Cass.7.4.2010 n. 8229; Cass. 20.11.2009 n. 24529; Cass. 19.11.2009 n. 24419; Cass. 25.7.2008 n. 20247; v. anche Cass. 28.9.2012 n. 16542).
Erroneamente, quindi, la Corte di merito ha fondato la propria decisione sulla non applicabilita’ della norma dell’articolo 2051 c.c., ma di quella dell’articolo 2043 c.c., imponendo al danneggiato l’onere di provare l’esistenza dell’insidia o del trabocchetto. La fattispecie, invece, dovra’ essere esaminata dal giudice del rinvio sulla base della norma dell’articolo 2051 c.c., e dei principi, anche in tema di prova, sopra enunciati. Conclusivamente, il ricorso e’ accolto; la sentenza cassata e la causa rimessa alla Corte di Appello di Potenza in diversa composizione.
Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Potenza in diversa composizione

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