Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 17 novembre 2015, n. 45632

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 20/10/2011, il Tribunale di Udine aveva condannato il T. alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed il B. alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, concesse ad entrambi gli imputati le attenuanti generiche, per il reato di cui agli artt. 110 c.p., 53 bis D.Lgs. 5-2-1997 n. 22, così come modificato dall’art. 22 L. n. 93/2001 (Capo a) della rubrica), il primo, nella qualità di responsabile della gestione della discarica di 2^ Cat. Tipo A) sita in (omissis), il secondo, nella qualità di gestore di fatto e addetto ai controlli da effettuarsi con riguardo alla discarica, di proprietà della CAVA ZOF s.r.l., perché, in concorso morale e materiale tra loro, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cedevano, ricevevano, trasportavano e comunque gestivano abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti speciali e ciò in particolare grazie al ruolo e all’attività del B. , che si occupava – unitamente ad altri coimputati – della gestione della discarica, e del T. , che aveva agevolato ed ottenuto il rilascio delle autorizzazioni per la citata discarica a monte illecite, concessi agli imputati i doppi benefici di legge (artt. 163 e 175 c.p.); aveva altresì applicato le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici, dell’interdizione dal ruolo di esercente una discarica di rifiuti e dell’incapacità di contrarre con una pubblica amministrazione, per una durata pari a quella della pena principale (artt. 28, 30, 32 bis e 32 ter c.p.) e condannato gli imputati al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, il Comune di (OMISSIS) , in misura da liquidarsi in separato giudizio, ed alle relative spese processuali (artt. 539 e 541 c.p.p.), nonché ordinato agli stessi la rimessione in pristino, a loro spese, del sito della discarica XXX, mediante bonifica delle sostanze contaminanti dal deposito di materiali non inerti (artt. 53 bis – D.Lgs. 5-2-1997 n. 22 e 260, c. 4, D.Lgs. 3-4-2006 n. 52).

Con sentenza del 3/3/2014, la Corte di Appello di Trieste, in parziale riforma della suindicata sentenza, dichiarava non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati, in ordine al predetto reato di cui al capo a) della rubrica, perché estinto per prescrizione, revocava le statuizioni civili della sentenza impugnata, confermata nel resto, ed ordinava il dissequestro del sito della discarica (omissis). Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione, tramite i difensori, gli imputati.

Il T. , ha chiesto la cassazione, con o senza rinvio, della impugnata sentenza, per due articolati motivi.

Con il primo motivo di doglianza, si denuncia erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 157 c.p., inosservanza dell’art. 530 c.p.p., contraddittoria e/o manifesta illogicità della motivazione, segnatamente, in relazione alle risultanze documentali nn. 61, 65, 66 (determine 138/99, 178/99 e 619/99 della Provincia di Odine), in quanto la condotta del delitto a lui contestato, sostiene il ricorrente, deve intendersi circoscritta dall’espressione contenuta nel capo di imputazione “aveva agevolato ed ottenuto il rilascio delle autorizzazioni per la citata discarica a monte illecite”, avendo lo stesso Tribunale di Udine, in sentenza, ritenuto non provato che gli atti amministrativi autorizzativi fossero viziati, anche se poi aveva concluso che nonostante ciò il reato di cui all’art. 53 bis citato potesse essere integrato nel caso di gestione della discarica non commisurata alla tipologia di rifiuti ricevuti. Si conclude, nel ricorso, per l’assoluzione dell’imputato o perché il fatto non sussiste, o perché non è previsto dalla legge come reato, o quantomeno perché non costituisce reato, risultando peraltro erroneo, nella situazione probatoria data, il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte del 15-9-2009 n. 35490, contenuto nella impugnata decisione della Corte di Appello di Trieste.

Con il secondo motivo si denuncia la erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 53 bis, C. 4, D.Lgs. 5-2-1997 n. 22 ed all’art. 260, e. 4, D.Lgs. 3-4-2006 n. 152, l’inosservanza dell’art. 351 c.p.p., in relazione all’art. 157 c.p., la mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione sul punto, atteso che nell’impugnata sentenza d’appello si legge che è disposto il dissequestro dell’area, in modo da consentire la bonifica ed il ripristino ambientale del sito, come già ordinato dal giudice di primo grado, su conforme parere delle parti, mentre il parere è da riferire esclusivamente a quello espresso dal P.M., ed ancora che si deduce che l’ordine di remissione in pristino costituisce una sanzione amministrativa, non una pena accessoria, né una misura di sicurezza patrimoniale, normativamente correlata ad una sentenza di condanna, od a quella emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., essendo infatti possibile subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente, e che invece la Corte di Appello di Trieste omette di spiegare la ragione per la quale, venuta meno, con la declaratoria di prescrizione del delitto contestato, la condanna, debba permanere la misura ordinata dal primo giudice.

Con memoria depositata il 6/10/2015, il ricorrente lamenta la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, in ragione delle pronunce di primo grado e predibattimentale, all’esito delle quali era rimasta, dell’originaria imputazione, coinvolgente anche altri coimputati e riguardante reati contravvenzionali per vari episodi di smaltimento illecito di rifiuti, solamente la contestazione di cui al capo a) della rubrica, che invece riguarda un delitto, quello di cui all’art. 53 bis D.Lgs. 5-2-1997 n. 22, così come modificato dall’art. 22 L. n. 93/2001, poi dichiarato estinto per prescrizione dalla Corte di Appello, delitto punito a titolo di dolo specifico, sicché essendo il T. estraneo ai fatti di gestione della discarica, per come formulato lo stesso capo d’imputazione, punibili a titolo di colpa in quanto integranti fattispecie contravvenzionali, lo stesso andava mandato assolto dal capo a), una volta esclusa la condotta a lui contestata, consistita nell’aver “agevolato e ottenuto il rilascio delle autorizzazioni per la citata discarica a monte illecite” per difetto dell’elemento psicologico del reato.

Il B. ha chiesto la cassazione, senza rinvio, della sentenza del Tribunale di Udine, in parte qua confermata dalla sentenza in data 3/3/2014 della Corte di Appello di Trieste, limitatamente all’ordine di rimettere in pristino, a proprie spese, il sito della (…), mediante bonifica, nei termini sopra descritti, e nella parte in cui si dispone l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici, dell’interdizione dal ruolo di esercente una discarica di rifiuti e dell’incapacità di contrarre con una pubblica amministrazione, per una durata pari a quella della pena principale (artt. 28, 30, 32 bis e 32 ter c.p.), pur essendo stato nel contempo dichiarato estinto, per intervenuta prescrizione, il delitto contestato al capo a) della rubrica, l’unico oggetto di condanna in primo grado.

Con memoria depositata il 7/10/2015, il ricorrente insiste nella mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 53 bis, C. 4, D.Lgs. 5-2-1997 per l’emissione dell’ordine di remissione in pristino dell’area, richiamando, ed a sostegno della tesi della natura di sanzione amministrativa accessoria ad una sentenza di condanna, indica alcune pronunce giurisprudenziali.

Considerato in diritto

I ricorsi sono fondati nei limiti di seguito precisati.

Con il primo motivo di doglianza, il T. si lamenta della impugnata decisione, sotto il profilo dell’erronea applicazione della legge sostanziale e processuale, della contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione, assumendo di dover essere assolto o perché il fatto non sussiste, o perché non è previsto dalla legge come reato, o quantomeno perché non costituisce il reato di cui all’art. 53 bis citato, attese le risultanze documentali nn. 61, 65, 66 (determine 138/99, 178/99 e 619/99 della Provincia di Udine), in quanto la condotta oggetto di contestazione non può che ritenersi circoscritta, nel capo di imputazione, dall’espressione “aveva agevolato ed ottenuto il rilascio delle autorizzazioni per la citata discarica a monte illecite”, circostanza nei fatti esclusa dallo stesso Tribunale di Udine allorché aveva ritenuto non provato che gli atti amministrativi autorizzativi in questione fossero viziati.

Il motivo è infondato in quanto dalla lettura del capo a) d’imputazione emerge all’evidenza che il fatto contestato attiene a plurime e concorrenti condotte addebitate agli imputati e, segnatamente, al T. , per aver “nella sua qualità di responsabile della gestione della discarica di 2^ Cat. Tipo A sita in Trevigiano Udinese e di proprietà della CAVA ZOF s.r.l., contribuito all’attività organizzata e continuativa per l’illecito traffico di ingenti quantitativi di rifiuti, che venivano ricevuti anche se aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati ed accompagnati da bolle, falsificate quanto al codice attestante la natura del rifiuto, in modo da celarne le reali caratteristiche e farli apparire conformi ai provvedimenti di autorizzazione, e dunque mediante il meccanismo del c.d. giro bolla operato presso l’impianto (omissis) .

Appare, pertanto, non condivisibile la prospettazione difensiva secondo cui, nel capo di imputazione, la condotta addebitata al T. è limitata all’aver “agevolato ed ottenuto il rilascio delle autorizzazioni per la citata discarica a monte illecite”, trattandosi di questione ampiamente trattata nel corso del giudizio di primo grado, tant’è che il Tribunale di Udine, nella sentenza in data 20 ottobre 2011, ha sul punto evidenziato, con argomentazione ripresa dal giudice del gravame, come “l’intero argomento illiceità/illegittimità si svuoti di concreta incidenza, soprattutto alla luce di quanto si esporrà in seguito in ordine alla consapevolezza di quali fossero i reali limiti dell’autorizzazione e della natura inquinante dei conferimenti, emersi dal contenuto delle intercettazioni, e derivate dalle alte competenze professionali possedute nel settore dall’imputato T. “.

È appena il caso di ricordare che “abusiva” è qualsiasi forma di gestione che venga svolta in totale assenza dei titoli di legittimazione (autorizzazione, iscrizioni, comunicazioni), ovvero in violazione delle prescrizioni e dei limiti dei titoli esistenti (Sez. 3, n. 44449 del 15/10/2013, Rv. 258326, Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Rv. 255395, riferite al reato previsto dall’art. 260 D.Lgs. n. 152/2006, disposizione nella quale è stata integralmente trasfuso l’art. 53 bis D.Lgs. n. 22/1997′, nel testo introdotto dall’art. 22 L. n. 93/2001, Sez. 5, n. 40330 del 11/10/2006, Rv. 236294). Va disattesa anche la censura, contenuta nella memoria difensiva del 6/10/2015, in quanto non sussiste alcun vizio motivazionale dell’impugnata sentenza, atteso che la consapevolezza circa l’abusività dell’attività di gestione dei rifiuti (cfr. sentenza di primo grado: “… alla luce della consapevolezza della natura e caratterizzazione dei rifiuti conferiti”) è desunta dall’esercizio di attività incompatibili con le autorizzazioni rilasciate per la discarica, priva di requisiti perché per soli inerti, ed al conseguente perseguimento di un ingiusto profitto (cfr. sentenza di secondo grado: “… il nucleo dell’imputazione rimane l’abusiva gestione della discarica (…)… accogliendo direttamente materiali non consentiti… grazie al fraudolento meccanismo in essere presso l’impianto (omissis) … “), in continuità con quanto sul punto affermato dal giudice di primo grado e negli esatti termini in cui, nella giurisprudenza di questa Corte, fatta propria dai giudici di merito, si ritiene integrato il dolo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 1851 del 11/3/2008, Rv. 2400152).

Sussiste, infatti, il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti – idoneo ad integrare il delitto di cui all’art. 53-bis del D.Lgs. n. 22 del 1997, qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (cosiddetta attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o come, nella specie, palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati e accompagnati da bolle false quanto a codice attestante la natura del rifiuto, in modo da celarne le reali caratteristiche e farli apparire conformi ai provvedimenti autorizza tori dei siti di destinazione finale.

Il principio è stato affermato da questa Corte proprio in fattispecie nella quale le condotte incriminate si svolgevano secondo il cosiddetto sistema del “giro bolla” e cioè i rifiuti, in quantità ingenti, venivano declassificati mediante documenti falsi e fatti confluire in stabilimenti privi dei requisiti necessari mentre le relative autorizzazioni venivano acquisite sulla base di falsità documentali, inidonee rispetto alla natura dei rifiuti effettivamente ricevuti (Sez. 5, n. 40330 del 11/10/2006, Rv. 236294).

Con il secondo motivo, il ricorrente si duole, sotto il profilo della erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 53 bis, C. 4, D.Lgs. 5-2-1997 n. 22 ed all’art. 260, e. 4, D.Lgs. 3-4-2006 n. 152, dell’inosservanza dell’art. 351 c.p.p., in relazione all’art. 157 c.p., e della mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza, in merito all’ordine di remissione in pristino dell’area posto a suo carico, nonostante il venir meno del reato di cui al capo a) della rubrica, perché estinto per prescrizione, la revoca delle statuizioni civili a favore del costituito Comune di Trevignano Udinense e l’ordine di dissequestro del sito della discarica (…). Anche il B. ha chiesto la cassazione dalla sentenza della Corte di Appello di Trieste nella parte in cui ha confermato l’ordine di rimettere in pristino, a spese degli imputati, il sito della (…), mediante bonifica, nei termini sopra descritti, e nella parte in cui dispone l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici, dell’interdizione dal ruolo di esercente una discarica di rifiuti e dell’incapacità di contrarre con una pubblica amministrazione, per una durata pari a quella della pena principale (artt. 28, 30, 32 bis e 32 ter c.p., richiamati dall’art. 53 bis, c. 3, D.Lgs. n. 22/1997), nonostante l’intervenuta declaratoria di estinzione, per prescrizione, del reato contestato al Capo a) della rubrica, oggetto della condanna in primo grado. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, quanto alla comune ragione di doglianza, e sono fondati come di seguito precisato.

Ai sensi dell’art. 260, c. 4, D.Lgs. n. 152/2006, “Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente”. Si tratta di provvedimento “dovuto” per il giudice, in quanto obbligatorio ex lege, non suscettibile di valutazioni discrezionali, sottratto alla disponibilità delle parti stesse e di cui l’imputato deve quindi tenere conto nell’operare la scelta del patteggiamento.

In tal senso si è espressa questa Corte, con riferimento all’ordine di demolizione delle opere abusive di cui all’art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), precisando che non assume rilievo il fatto che l’ordine di demolizione non abbia formato oggetto dell’accordo intercorso tra le parti (Sez. 3, n. 18509 del 15/01/2015, Rv. 263557, Sez. 3, n. 44948 del 07/10/2009, Rv. 245212).

Sempre secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di tutela del paesaggio, l’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato può essere impartito dal giudice solo con la sentenza di condanna, onde in caso di dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, se è stato emesso tale ordine, il giudice dell’impugnazione deve revocarlo, trattandosi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione giuridica nella accessorietà alla sentenza di condanna, per cui, se il reato si estingue, tale giustificazione viene meno, fermo restando l’autonomo potere-dovere dell’autorità amministrativa (ex multis, con riferimento all’ordine di remissione in pristino di cui all’art. 181 D.lgs. n. 42/2004, Sez. 3, n. 51010 del 24/10/2013, Rv. 257916).

E la sanzione prevista dall’art. 181, c. 2, D. Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), appare assimilabile, quanto a natura giuridica di “sanzione amministrativa accessoria”, alla figura qui esaminata (cfr. anche il nuovo art. 452-duodecies c.p., introdotto dalla L. n. 68/2015 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente), che prevede che il giudice debba ordinare il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi).

Ne consegue, che è incorsa in violazione di legge, come denunciato dai ricorrenti, la Corte di Appello di Trieste non revocando l’ordine di rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi, a spese degli imputati, mediante bonifica dalle sostanze contaminanti derivanti dal deposito di materiali non inerti, avendo dichiarato, per maturata prescrizione, l’estinzione del reato di cui al capo a), ed essendo così venuta meno la condanna giustificante la sanzione, sicché la sentenza impugnata merita di essere annullata senza rinvio, limitatamente a tale omessa revoca, che va invece disposta.

Quanto al profilo di doglianza, sollevato dal ricorrente B. e concernente le pene accessorie (artt. 28, 30, 32 bis e 32 ter c.p.) che conseguono di diritto alla sentenza di condanna come effetti penali della stessa, ai sensi dell’art. 20 c.p., va considerato che, secondo i principi più volte affermati da questa Corte, una volta estinto il reato, vengono meno anche le pene accessorie; esse dunque non possono essere mantenute, in caso di proscioglimento dell’imputato, anche se pronunciato a seguito di estinzione del reato per prescrizione (Cass. Sez. 6, n. 18256 del 25/02/2015,Rv. 263280, Sez. 2, n. 11033 del 03/03/2005, Rv. 231050, Sez. U., n. 7 del 20/04/1994, Rv. 197537).

La Corte di Appello di Trieste proscioglie entrambi gli imputati dal reato di cui di cui agli artt. 110 c.p., 53 bis D.Lgs. 5-2-1997 n. 22, così come modificato dall’art. 22 L. n. 93/2001, imputazione di cui al Capo a) della rubrica, per intervenuta prescrizione dello stesso, revoca le statuizioni civili, ma “conferma nel resto l’impugnata decisione”, in tal modo omettendo di eliminare le pene accessorie disposte, come previsto dalla succitata legge speciale, dal primo giudice in esito alla condanna per il reato ambientale.

La impugnata sentenza, pertanto, va annullata senza rinvio anche relativamente alla omessa eliminazione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici, dell’interdizione dal ruolo di esercente una discarica di rifiuti e dell’incapacità di contrarre con una pubblica amministrazione, per durata pari a quella della pena principale (artt. 28, 30, 32 bis e 32 ter c.p.), con riferimento ad entrambi gli imputati, secondo il principio previsto dall’art. 587 c.p.p., che riguarda l’estensione, all’imputato non impugnante sul punto (T. ), degli effetti favorevoli derivanti dall’accoglimento del motivo di natura oggettiva dedotto dal coimputati.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento all’ordine di remissione in pristino ed alle pene accessorie, che elimina. Rigetta nel resto i ricorsi.

 

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