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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  16 giugno 2014, n. 25711

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza 28.9.2012 la Corte d’Appello di Milano ha confermato la colpevolezza di C.S. in ordine al reato di divulgazione e diffusione continuata di materiale pedopornografico aggravato dall’ingente quantità di cui agli artt. 81 e 600 ter commi “II” (così testualmente si legge, ndr) e 5 cp, motivando in considerazione dei meccanismi di funzionamento del programma Emule su cui si è soffermata. Secondo la Corte d’Appello l’imputato conosceva appieno il funzionamento del programma, tutt’altro che banale, che si basa sul principio di condivisione dei file, come si desume dalla stessa parola file sharing e pertanto ha ritenuto infondata la tesi della inconsapevolezza dell’effetto di condivisione.
2. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato denunziando tre motivi.
2.1. Col primo motivo, denunziando l’inosservanza dell’art. 600 ter comma 3 cp in relazione all’art. 606 comma 1 lett. b) cpp, rimprovera alla Corte di merito di non avere considerato che la condotta integrava piuttosto gli estremi del reati cui all’art. 600 quater cp. Rileva in particolare che contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Appello, la più recente giurisprudenza ritiene necessaria, ai fini della sussistenza del reato, la prova della specifica volontà di distribuzione del materiale pedopornografico, non essendo sufficiente il mero uso di un programma di file sharing.
2.2. Con un secondo motivo si denunzia mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione sul dolo del reato di cui all’art. 600 ter comma 3 cp: la Corte d’Appello desume la sussistenza dell’elemento psicologico sulla base del meccanismo di funzionamento del software, dilungandosi nell’illustrazione del funzionamento del programma Emule, assolutamente inconferente ai fini della dimostrazione della consapevolezza in capo all’imputato di condividere con gli altri utenti del programma quanto scaricato e quindi di diffondere il relativo materiale.
2.3. L’ultima censura riguarda il vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio ritenuto sproporzionato.

Considerato in diritto

Il secondo motivo è fondato.
Il tema dell’elemento soggettivo del reato di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico non è nuovo.
Come già evidenziato dalla più recente ed ormai costante giurisprudenza di questa Corte, affinché sussista il dolo del reato di cui all’art. 603 ter cp., comma 3, occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing (cfr. tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 47820 del 29/10/2013 Ud. dep. 2/12/2013; Sez. 3, Sentenza n. 11082 del 12/01/2010 Ud. dep. 23/03/2010 Rv. 246596; Sez. 3, Sentenza n. 33157 del 11/12/2012 Ud. dep. 31/07/2013 Rv. 257257; Sez. 3, Sentenza n. 11082 del 12/01/2010 Ud. dep. 23/03/2010 Rv. 246596).
Infatti, l’art. 600 ter c.p., comma 3, punisce, tra l’altro, chiunque “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza” il materiale pedopornografico. Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perché il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che, nello stesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito, soltanto perché stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere. Del resto, le due suddette esigenze ben possono essere entrambe soddisfatte perché, con indagini adeguate, è possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza del vero contenuto dei file detenuti.
Una diversa interpretazione, secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diverse (Sez. 3, 12 gennaio 2010, n. 11082; Sez. 3, 7 novembre 2008, n. 11169).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha ritenuto provata la sussistenza del reato di divulgazione e diffusione in considerazione del tipo di software utilizzato, ma un tale percorso argomentativo, che appare fondato esclusivamente sul dato quantitativo dei file scaricati e sull’utilizzo dello specifico programma di file sharing, non appare corretto né esauriente, perché avrebbe dovuto essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la condotta e volontà dell’imputato fossero di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale pedopornografico che in precedenza il soggetto, con autonomo comportamento, si era procurato o aveva creato.
La sentenza deve pertanto essere annullata per nuovo giudizio nel quale il giudice del rinvio, tenuto conto dei suddetti principi, completerà l’accertamento del fatto, restando invece ferma la dichiarazione di responsabilità per il reato sub B), non oggetto di impugnazione.
Le esposte considerazioni assorbono logicamente l’esame delle altre censure.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo A della rubrica e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.

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