Cassazione logo

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 16 gennaio 2015, n. 1973

 
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TERESI Alfredo – Presidente
Dott. SAVINO Mariapia – rel. Consigliere
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Consigliere
Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 710/2007 CORTE APPELLO di MESSINA, del 25/06/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/05/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. SAVINO Mariapia Gaetana;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. CANEVELLI Paolo, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.
Udito il difensore Avv. (OMISSIS) Foro di Roma (sost. proc.).
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 12.01.07 il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto ha dichiarato (OMISSIS) colpevole del delitto di cui agli articoli 81 e 640 bis c.p. per avere, in esecuzione del medesimo disegno criminoso ed in concorso con altri coimputati, con artifici e raggiri consistiti nel predisporre fatture per operazioni in tutto od in parte inesistenti, emesse dalla (OMISSIS) srl, dalla (OMISSIS), dalla ditta individuale (OMISSIS) e dalla (OMISSIS), e nel predisporre attestazioni liberatorie di pagamento non corrispondenti al vero, con cio’ documentando investimenti della (OMISSIS) SRL pari a lire 7.822.749,500, in realta’ non operati ed utilizzando parte di tale somma per fittizi versamenti in conto capitale da parte dei soci della (OMISSIS), indotto il Ministero dell’Industria del Commercio ed Artigianato a corrispondere alla (OMISSIS) s.r.l. contributi a fondo perduto della Legge n. 48 del 1992 rispettivamente di lire 5.323.230.000 per il primo progetto (OMISSIS) presentato nel 1996, lire 3.715,890,000 per il secondo progetto (OMISSIS) presentato nel 1997; in particolare per avere predisposto ed utilizzato fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti per un importo complessivo di lire 7.822.749,500, ripartito nei termini indicati nel capo di imputazione (capo A); del delitto di cui all’articolo 81 c.p., Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, perche’, nella sua qualita’ di amministratore unico della (OMISSIS) s.r.l. in esecuzione del medesimo disegno criminoso, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture per operazioni in tutto od in parte inesistenti emesse dalla (OMISSIS) srl, dalla (OMISSIS), dalla ditta individuale (OMISSIS) e dalla (OMISSIS), indicava nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2000, nonche’ nella dichiarazione annuale IVA per gli anni 1999, 2000 elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo di lire 3.502.421.031 ripartito nei termini indicati nell’imputazione (capo F).
Condannava lo stesso alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali.
Proposto appello, la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena nei confronti del (OMISSIS), concesse le attenuanti generiche, nella misura di anni 2 di reclusione. Pena interamente condonata. Revocava la sospensione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni e confermava nel resto l’impugnata sentenza.
Avverso tale pronuncia la difesa del (OMISSIS) ha presentato ricorso per cassazione per i seguenti motivi:
1) Violazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di all’articolo 640 bis c.p.. A parere della difesa la condotta posta in essere dall’imputato non integra gli elementi costitutivi del contestato articolo 640 bis c.p.p.. non potendosi ravvisare alcuna attivita’ ingannatoria volta ad indurre in errore il soggetto passivo attraverso artifici e raggiri, bensi’ e’ configurabile il diverso reato di cui all’articolo 316 ter c.p., (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato). Premesso che la truffa, reato a forma vincolata, necessita per il suo perfezionamento del requisito, inerente la condotta materiale, degli artifici e raggiri e della induzione in errore, rileva la difesa che tali artifici e raggiri, per essere penalmente rilevanti, devono essere idonei a ledere la capacita’ di autodeterminazione del soggetto passivo e, quindi, occorre accertare la inevitabilita’ dell’errore in cui e’ caduta la vittima a seguito dell’inganno perpetrato. In particolare, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, gli artifici e raggiri antigiuridici sono quelli che non lasciano, per la loro carica persuasiva, alla controparte, secondo i criteri di valutazione sociale medi e le sue specifiche condizioni, alcuna diversa via alla formazione della proprie rappresentazioni.
Fatta questa premessa, osserva la difesa che nessuna attivita’ ingannatoria puo’ ravvisarsi nel caso in esame in quanto la documentazione presentata dall’imputato e’ stata oggetto di attenta verifica e rigoroso controllo da parte dei tecnici incaricati dall’istituto di credito erogatore del finanziamento per conto del Ministero stesso erogatore del contributo, i quali si sarebbero accorti di una eventuale incongruita’ delle spese dichiarate dal ricorrente.
Dissente, pertanto, la difesa dal ragionamento dei giudici di appello volto ad escludere la rilevanza delle stime di congruita’ operate dall’istituto di credito intermediatore, non solo per il carattere approssimativo dei controlli, ma anche perche’ “il parere alla concessione del contributo viene dato per legge a quello stesso Istituto di credito che puo’ avere interesse ad elevare i valori delle erogazioni, stimando come congrue spese eccessive, e cosi’ consentendo una piu’ alta erogazione di capitali. Osserva che siffatto ragionamento e’ privo di fondamento logico in quanto implica una sorta di connivenza dell’istituto di credito erogatore o di concorso nel reato, e comunque ai controlli dell’intermediatore sono seguiti i controlli effettuati dagli esperti del Ministero per verificare la corrispondenza e congruenza fra le opere fatturate e quelle realizzate.
2) Violazione di legge in relazione agli articoli 220 e 230 c.p.p..
Lamenta la difesa che il provvedimento impugnato omette di motivare in ordine alle ragioni che hanno indotto i secondi giudici a condannare l’imputato solo sulla scorta delle conclusioni della perizia di ufficio disposta in appello senza tener conto delle valutazioni di segno opposto espresse dai CT di parte e richiama massime di questa Corte secondo le quali in tema di valutazione delle risultanze peritali il giudice di merito puo’ fare legittimamente propria, allorche’ gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purche’ dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti.
Nella sentenza impugnata, nota la difesa, i giudici di merito hanno posto a fondamento del loro convincimento solo le valutazioni del perito nominato di ufficio senza dar conto delle ragioni della preferenza accordate a questi rispetto alle conclusioni della CT di parte e mostrando di ignorare del tutto tale consulenza. La sentenza impugnata ha acriticamente recepito le conclusioni della perizia collegiale di ufficio senza effettuare alcun confronto con le valutazioni espresse dal consulente di parte, e quindi va censurata in quanto non consente di individuare l’iter logico posto alla base della decisione.
3) Violazione dell’articolo 220 disp. att. c.p.p.. La difesa censura la sentenza impugnata per aver ritenuto acquisibili al fascicolo del dibattimento il verbale di constatazione della GdF sul presupposto della irripetibilita’ degli accertamenti in esso contenuti, ponendo a fondamento una massima secondo cui rientrano nel novero degli atti irripetibili tutti quelli mediante i quali la PG prende diretta conoscenza di fatti penalmente rilevanti come fatture, riscontri su merci, attivita’ aziendali, senza tener conto del consolidato orientamento per il quale “non adempie al dovere di motivazione il giudice che si limiti a richiamare principi giurisprudenziali asseritamente acquisiti senza tuttavia formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa e, dunque, senza ricostruire la fattispecie concreta al fine della sussunzione in quella astratta”.
Osserva in proposito che, contrariamente a quanto asserito dal primo giudice, il verbale suddetto non era stato acquisito con l’accordo delle parti in quanto la difesa si era espressamente opposta alla sua acquisizione.
RITENUTO IN DIRITTO
Il primo motivo risulta inammissibile in quanto introduce censure in fatto volte ad ottenere una diversa valutazione delle risultanza istruttorie; operazione, come noto, non consentita in sede di legittimita’ qualora, come nel caso in esame, la sentenza impugnata contenga una motivazione esaustiva che tenga conto di tutti gli elementi acquisiti al processo e delle deduzioni difensive. Difatti la sentenza di appello fornisce una puntuale ricostruzione della vicenda ed una altrettanto puntuale, logica ed esauriente valutazione delle risultanze istruttorie.
In particolare la Corte territoriale con specifico riguardo al reato di cui all’articolo 316 ter c.p., richiamato dalla difesa ha spiegato come lo stesso non fosse configurabile nel caso di specie trattandosi di una fattispecie residuale rispetto alla contestata truffa aggravata e non in rapporto di specialita’ con la stessa. Dunque ciascuna delle condotte descritte dall’articolo 316 ter possono concorrere ed integrare gli artifici ed i raggiri propri della truffa ove di tale fattispecie siano integrati anche gli altri requisiti. Precisa, giustamente, la Corte di appello che quella dell’articolo 316 ter e’ una figura aggiuntiva e complementare rispetto all’articolo 340 bis c.p., volta a coprire eventuali margini di scostamento, per difetto, del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie di frode in materia di spese.
Ne consegue, come rilevato dai giudici di secondo grado, che la condotta di cui all’articolo 316 ter si distingue da quella dell’articolo 640 bis per le modalita’; giacche’ la presentazione di dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere deve essere fatto strutturalmente diverso dagli artifizi e raggiri e si distingue altresi’ per l’assenza di induzione in errore.
Chiaramente la presenza dell’induzione in errore e la natura fraudolenta della condotta non possono che formare oggetto di una disanima da condurre caso per caso alla stregua delle specifiche connotazioni della situazione concreta.
Dunque l’ambito di applicazione dell’articolo 316 ter c.p., si riduce ad ipotesi marginali quali quelle del mero silenzio antidoveroso o di condotte non effettivamente idonee ad indurre in errore l’autore della disposizione patrimoniale (Cass. Sez. Un. n. 16568/2007).
Orbene sotto questo profilo la Corte territoriale ha precisato come il (OMISSIS) abbia organizzato una complessa macchinazione che faceva attenzione alla corrispondenza formale tra il fatturato e l’importo che appariva pagato proprio allo scopo di eludere i controlli degli organi competenti. Ed e’ pacifico, continua il giudice di seconde cure, che, qualora tramite la creazione artificiosa di fatture passive per operazioni inesistenti si ottenga, oltre ad un indebito rimborso IVA e/o al riconoscimento di un inesistente credito di imposta, la concessione di un finanziamento pubblico per un acquisto ma effettuato di beni strumentali, i reati di frode fiscale e truffa aggravata ex articolo 640 bis possono concorrere materialmente essendo diverse le condotte, seppur in parte sovrapponibili, e distinti i soggetti passivi tratti in errore nonche’ i patrimoni aggrediti.
Peraltro e’ stata disposta una perizia di ufficio collegiale, le cui conclusioni sono state recepite dai giudici di appello, non in maniera acritica, come vorrebbe la difesa, ma dando contezza della preferenza accordata ad essa piuttosto che alla consulenza del CT della difesa.
Ne consegue la manifesta infondatezza anche del secondo motivo di gravame. Difatti non corrisponde a verita’ l’affermazione del ricorrente secondo la quale la Corte di Appello avrebbe recepito la perizia suddetta in maniera acritica facendone l’unico fondamento delle proprie conclusioni. A ben vedere, infatti, il giudice di prime cure ha costruito il proprio convincimento anche sulla base di altri elementi tra i quali il processo verbale della GDF che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ben puo’ essere utilizzato quale prova ai fini della decisione dibattimentale (ex pluris Cass. Sez. 3 n. 36399/2011 secondo la quale “costituisce atto irripetibile, e puo’ quindi essere inserito nel fascicolo per il dibattimento, il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza per accertare o riferire violazioni a norme di leggi finanziarie o tributarie”).
Da quest’ultima affermazione discende l’inammissibilita’ anche del terzo ed ultimo motivo di ricorso inerente la utilizzabilita’ del verbale di accertamento della GDF.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *