Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 15 giugno 2015, n. 24895
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa in data 8.1.2008, il Tribunale di Viterbo ha dichiarato M.N. colpevole dei reati del reato previsto e punito dagli artt. 81 e 609 bis c.p. (capo A) per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, costretto Ma.An.Ma. a subire, mediante violenza consistita nell’impedirle movimenti e minacce, atti sessuali consistiti nello strusciarsi addosso toccandole il seno e varie parti del corpo, facendo precedere e seguire tali atti da parole e discorsi dal contenuto osceno e per averle lasciato all’interno di una busta paga un biglietto manoscritto recante la frase “una seghetta domenica” a cui erano spillate Euro 30,00, nonché del reato di cui, cioè, dei reati ex artt. 586 e 590 c.p. per aver cagionato a Ma.An.Ma. , quale conseguenza non voluta del delitto di cui al capo A), lesioni personali, in particolare una malattia diagnosticata quale depressione reattiva con elementi di disturbo post-traumatico da stress di durata superiore a giorni quaranta, (capo B).
L’imputato, riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 609, comma 3, c.p. e le attenuanti generiche, applicato l’aumento per la continuazione, è stato condannato alla pena di anni due e mesi due di reclusione.
Proposto appello da parte dell’imputato, la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 22.10.2013, ha ridotto la pena ad anni uno e mesi dieci di reclusione, concedendo i doppi benefici ed ha confermato nel resto l’impugnata sentenza.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo i seguenti motivi:
1) illogicità della motivazione in punto di attendibilità della deposizione della persona offesa. Assume in proposito la difesa che i giudici di merito hanno posto a fondamento del loro convincimento le dichiarazioni della persona offesa senza effettuare un rigoroso vaglio della loro attendibilità, benché esse siano confuse, contraddittorie, prive di riscontri e, in alcuni casi, smentite dalle deposizioni dei testi.
La Ma. ha descritto quattro episodi in cui si sarebbe concretizzata la condotta criminosa contestata all’imputato; a questi episodi nessuno avrebbe assistito e la teste de relato R. , alla quale la persona offesa avrebbe confidato le avances sessuali dell’imputato, ha negato di averle subite anche lei quando lavorava nello stesso esercizio commerciale gestito dal M. , ridimensionando i suoi comportamenti, a suo dire improntati a leggerezza, immaturità, ma non espressione della volontà di abusare sessualmente della donna.
2) illogicità della motivazione con riguardo alla configurabilità del contestato reato di violenza sessuale, potendo al più ravvisarsi nella condotta dell’imputato il reato di molestie sessuali. Assume in proposito la difesa che la stessa parte offesa, in sede di deposizione dibattimentale, ha tratteggiato il comportamento dell’imputato con espressioni che lo riconducono nell’alveo del più lieve reato di molestie, dichiarando “faceva un po’ così, faceva lo stupidino”, quasi a voler indicare l’esistenza di un rapporto confidenziale con l’uomo, che esclude la condotta contestata.
3) Illogicità della motivazione per travisamento delle risultanze istruttorie.
Lamenta la difesa che i giudici non hanno motivato circa l’esistenza di un nesso di causalità tra la patologia diagnosticata alla parte offesa e gli abusi sessuali, omettendo di dare conto del ragionamento logico-giuridico seguito per pervenire alla conclusione della riconducibilità dello stato psicologico della persona offesa alla condotta contestata all’imputato.
Ritenuto in diritto
Il ricorso è inammissibile in quanto propone censure di merito non sottoponibili al vaglio di questa Corte di legittimità. Esso è difatti incentrato su una nuova valutazione, richiesta alla Corte di Cassazione, degli elementi di fatto acquisiti al giudizio sul presupposto della asserita inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Si richiamano a tale riguardo i principi enunciati dalla Suprema Corte in materia secondo i quali il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione dell’espressa previsione dell’art. 606 co. 1 lett. e) c.p.p., al solo accertamento della congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o della autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti. Ne consegue che, laddove le censure del ricorrente non siano tali da scalfire la logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, queste devono ritenersi inammissibili perché proposte per motivi diversi da quelli consentiti, in quanto non riconducibili alla categoria di cui al richiamato art. 606 co. 1 lett. e). (Cass. S.U.n.12 del 31.5.00, S.U. n.47289 del 24.9.03, sez III n.40542 del 12.10.07, sez IV n.4842 del 2.12.03).
Fatta questa doverosa premessa sui limiti del sindacato di legittimità, ritiene questo Collegio che la sentenza impugnata, nell’esame integrato con quella di primo grado, al quale fa rinvio per relationem quanto alla descrizione del fatto, alla illustrazione della deposizione della parte offesa e delle altre risultanze istruttorie, contenga una convincente motivazione della credibilità della parte offesa.
I giudici di merito, difatti, correttamente evidenziano la credibilità della teste parte offesa Ma. per l’assenza di ragioni di malanimo nei confronti dell’imputato, di qualsiasi risentimento che trapeli nel racconto, per la puntuale, circostanziata descrizione degli eventi e per la corretta concatenazione logica nel narrato.
La versione della persona offesa trova peraltro riscontro nella deposizione dei testi escussi fra i quali il teste Luce, appartenente all’arma dei Carabinieri, che ha riferito su fatti ai quali ha assistito personalmente, quali la conversazione tra la persona offesa e la teste Reggi all’indomani della presentazione della denuncia, le testi D.M. e F. , quest’ultima dipendente del ristorante, le quali hanno riferito di aver appreso dalla Ma. la condotta posta in essere nei suoi riguardi dal datore di lavoro. La D.M. , poi, ha confermato di aver visto direttamente il biglietto scritto dall’imputato riportante la frase “seghetta domenica”.
Quanto al biglietto in questione, correttamente viene giudicata inattendibile dai giudici di merito la versione offerta dall’imputato secondo cui il testo doveva essere considerato parte di una frase più estesa e priva di riferimenti sessuali. Invero, rilevano i giudici di merito, la circostanza che la frase sia vergata proprio al centro del foglio implica l’impossibilità che detta espressione potesse formare oggetto di un discorso più articolato.
Parimenti inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso proposto in quanto manifestamente infondato. I giudici di merito, difatti, hanno correttamente collocato la condotta criminosa posta in essere dall’imputato nell’ambito della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 609 bis c.p., richiamando puntualmente il principio di diritto affermato da questa Corte sul punto, secondo cui “integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia sessuale (art. 660 cod. pen.) la condotta consistente nel toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall’abuso sessuale. Se dalle espressioni verbali si passa ai toccamenti a sfondo sessuale, il delitto assume la forma tentata o consumata a seconda della natura del contatto e delle circostanze del caso” (Cass. Sez. III sentenza n. 27042 del 2010).
Manifestamente infondata è infine anche la terza doglianza mossa con riferimento al vizio motivazionale inerente il nesso di causalità tra gli abusi subiti dalla persona offesa e la malattia conseguitane. I giudici di merito hanno difatti adeguatamente e logicamente motivato sul punto in esame, richiamando puntualmente le deposizioni rese dalla Dott.ssa T. e dal Dott. m. che ebbero in cura la persona offesa all’indomani dei fatti di cui all’imputazione, riscontrando e diagnosticando un disturbo post-traumatico da stress. I medesimi, in particolare, riferivano che la depressione ansiosa della donna si accentuava con i temi della sessualità essendo ricollegabile agli abusi subiti.
Il ricorso pertanto deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che si stima determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il. ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile liquidate Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi a norme dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
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