SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 13 maggio 2014, n. 10316
Ritenuto in fatto
M.C. , in proprio e quale erede del defunto padre M.L. , convenne in giudizio il Comune di Roma dinanzi al Tribunale della medesima città esponendo:
che il padre conduceva in locazione, dagli anni trenta, un immobile, sito in Roma, di proprietà del suddetto Comune;
che, per eseguire la ristrutturazione dell’edificio, il medesimo Comune aveva trasferito M.L. in altro immobile, sito in (…);
che il Comune aveva comunicato al conduttore il diritto di rientrare nell’appartamento di provenienza;
che il padre aveva dichiarato di voler rientrare nell’immobile originario ma che nel frattempo era deceduto;
che esso appellante, quale erede dell’originario locatario, aveva domandato diverse volte di rientrare in possesso dell’immobile, ma con esito negativo, per cui aveva chiesto giudizialmente il riconoscimento del suo diritto.
2. Il Comune di Roma domandò il rigetto dell’avversa pretesa.
3. Il Giudice Unico del Tribunale adito rigettò la domanda e condannò il convenuto al rimborso delle spese processuali.
4. Avverso detta sentenza, con ricorso depositato in Cancelleria in data 23 aprile 2009 e notificato in data 8 giugno 2009 al Comune di Roma, unitamente al decreto con il quale era fissata l’udienza di discussione, M.C. in proprio e quale erede del defunto padre M.L. propose appello.
L’appellante, con due motivi di gravame, chiese che, in accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza gravata, fosse ordinato al Comune di Roma di immettere l’appellante, in proprio e nella qualità, nella detenzione dell’appartamento per cui è causa, con condanna di detto Comune al risarcimento dei danni subiti in proprio e nella qualità di erede.
5. Il Comune di Roma, ritualmente citato, rimase contumace.
6. La Corte d’appello di Roma ha dichiarato l’improcedibilità dell’appello ed ha confermato la sentenza del Giudice Unico del Tribunale di Roma perché il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza del Presidente del Tribunale furono notificati dopo il termine ordinatorio di conoscenza del decreto stesso, senza che fosse stata richiesta la proroga, prima della scadenza di detto termine.
Ad avviso della Corte infatti la scadenza del termine ordinatorio, senza la preventiva richiesta di proroga, comporta gli effetti propri del termine perentorio, di cui all’art. 153 c.p.c..
7. Propone ricorso per cassazione M.C. con quattro motivi.
Resiste con controricorso il Comune di Roma
Motivi della decisione
8. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 435 c.p.c. e 291 c.p.c.”.
9. Con il secondo motivo denuncia “nullità della sentenza o del procedimento conseguente a violazione e/o falsa applicazione degli artt. 291 e 435 c.p.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.) – pregiudizio del diritto di difesa”.
10. Con il terzo motivo si denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 435 c.p.c. e 136 c.p.c.”.
11. Con il quarto motivo si denuncia “nullità della sentenza o del procedimento conseguente a violazione e/o falsa applicazione degli artt. 435 e 136 c.p.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.) pregiudizio del diritto di difesa”.
I motivi, per la loro stretta connessione, devono essere congiuntamente esaminati.
Assume il ricorrente che, nel caso in esame, non si è verificata alcuna ipotesi di omissione di notifica del ricorso in appello in quanto quest’ultimo è stato effettivamente notificato alla parte appellata, presso il di lei procuratore costituito, unitamente al decreto presidenziale di fissazione dell’udienza.
Né, prosegue M. , la Corte d’appello poteva dichiarare l’improcedibilità del gravame per inosservanza del termine posto dall’art. 435, comma 2, c.p.c. in quanto la ritardata notifica del suddetto ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di discussione è stata del tutto improduttiva di conseguenze sul piano processuale per ciò che riguarda la ragionevole durata del processo.
Precisa al riguardo il ricorrente: che il ricorso in oggetto è stato notificato in data 5 giugno 2009; che è stato ricevuto dal destinatario Comune di Roma l’8 giugno 2009; che l’udienza di discussione era stata fissata l’11 maggio 2010, con il decreto presidenziale depositato il 7 maggio 2009.
Tenuto conto dei tempi di restituzione degli atti dall’ufficio notifiche, prosegue il M. , avuto riguardo all’ampio margine di rispetto dei termini di comparizione in relazione all’udienza fissata (con margini superiori all’anno), appare evidente che minimi criteri di ragionevolezza dovevano far valutare la fattispecie in linea con gli artt. 435 e 291 c.p.c., alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 111, comma 2, cost..
Sotto un diverso profilo ritiene il ricorrente che il termine di dieci giorni, di cui all’art. 435, comma 2, c.p.c. è stato comunque rispettato in quanto la comunicazione della cancelleria, avvenuta con il fax dell’11 maggio 2009, non è mai giunto al suo difensore e, in ogni caso, la trasmissione a mezzo fax non risulta in alcun modo idonea a fungere da equipollente delle comunicazioni di cui all’art. 136 c.p.c..
Inoltre, sempre ad avviso del M. , la Corte d’appello non poteva far decorrere i dieci giorni dalla data di richiesta delle copie autentiche del provvedimento del Presidente (19 maggio 2009) ma da quello di ritiro delle stesse, ossia il 26 maggio 2009, essendo l’emissione delle copie autentiche un incombente sottratto alla disponibilità della parte richiedente in quanto dipendente dagli uffici della cancelleria.
Partendo da quest’ultima data è stato rispettato il termine di 10 giorni.
Sottolinea infine il M. come l’art. 435, 2 comma, c.p.c. disponga che l’appellante, nei dieci giorni successivi al deposito del decreto, “provvede” e non “deve” notificare il ricorso all’appellato unitamente al decreto di fissazione dell’udienza talché non sussistono le condizioni di legge per la dichiarazione di improcedibilità del ricorso.
I motivi sono fondati.
È infatti orientamento costante di questa Corte che, nel rito del lavoro, il termine di dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art. 435 secondo comma c.p.c., deve notificare all’appellato il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza di discussione, non ha carattere perentorio talché la sua inosservanza non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, non incidendo su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato, purché sia rispettato, il termine di venticinque giorni che, ai sensi del medesimo art. 435 terzo comma c.p.c., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione (Cass., 22 giugno 1994 n. 5997).
In altri termini, come precisato dalla Corte Cost. (ord. 24 febbraio 2010, n. 60), nel suddetto rito, l’inosservanza del richiamato termine di dieci giorni non comporta alcuna decadenza, sempre che resti garantito all’appellato uno spatium deliberandi non inferiore a quello legale prima dell’udienza di discussione, affinché egli possa approntare le sue difese e purché non vi sia incidenza alcuna del comportamento della parte, in mancanza di differimento dell’udienza, sulla ragionevole durata del processo (nella specie, la S.C. ha fatto applicazione del principio su esteso al caso in cui l’appellante aveva chiesto – dopo oltre un mese dal decreto presidenziale di fissazione dell’udienza l’anticipazione della stessa, provvedendo a notificare il ricorso ed il nuovo decreto oltre il termine di dieci giorni, computati dal nuovo decreto, ma ben otto mesi prima dell’udienza) (Cass., 31 maggio 2012, n. 8685).
Per le ragioni che precedono deve quindi ritenersi che abbia errato l’impugnata sentenza nel considerare l’appello improcedibile in quanto il ricorso e il decreto presidenziale di fissazione dell’udienza furono notificati dal ricorrente M. dopo la scadenza del termine ordinatorio di dieci giorni, decorrente dalla conoscenza del decreto stesso, senza che da parte dello stesso M. fosse stata richiesta la proroga del medesimo termine, prima della sua scadenza.
Ha altresì errato la Corte d’appello di Roma nel ritenere che tale scadenza, senza la preventiva richiesta di proroga, ha determinato per l’appellante gli effetti propri del termine perentorio di cui all’art. 153 c.p.c. che non può essere abbreviato o prorogato neppure su accordo delle parti.
Non pertinente è infine il riferimento della suddetta Corte d’appello alla sentenza di questa Corte n. 20604/2008 in quanto, in quest’ultimo caso, si trattava di omessa notifica mentre nel caso di cui ci si occupa si tratta di ritardata notifica.
Il ritardo nella notificazione non ha inciso sulla ragionevole durata del processo in quanto, in conseguenza di tale ritardo, non è stato necessario lo spostamento dell’udienza di discussione.
In conclusione, l’impugnata sentenza, dichiarando l’appello improcedibile, non si è attenuta ai suddetti principi elaborati da questa Corte e dalla Corte costituzionale e pertanto la stessa va cassata affinché la Corte di rinvio, in diversa composizione, rilevata la procedibilità dell’appello, esamini lo stesso nel merito e provveda anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Leave a Reply