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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 febbraio 2014, n. 6997

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 16/8/2013 il Tribunale di Catania, quale giudice del riesame, ha confermato, previa riunione delle separate istanze proposte dai due coniugi, l’ordinanza del 1/8/2013 del Tribunale di Catania applicativa della misura della custodia presso il domicilio in relazione al reato ex artt. 110 cod. pen. e 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 consistente nella coltivazione illegale su territorio di loro proprietà di sostanza stupefacente, tipo “marijuana”, e in particolare di circa 100 piante di altezza variabile tra i 2 e i 3 metri; fatto accertato in località Mangano nel territorio del Comune di Acireale (CT). Il Tribunale, ritenuta palese l’esistenza di “fumus” di reato, ha giudicato sussistere attuali esigenze cautelari derivanti dalla modalità del fatto e dalla professionalità di coltivatore del sig. G.   .
2. Avverso tale decisione l’avv. Francesco Silluzio ha avanzato ricorso nel’interesse di entrambi gli indagati, in sintesi lamentando la insussistenza delle esigenze cautelari ex artt.273 e 274 cod. proc. pen.. In realtà:
a. le pagine da 2 a 6 del ricorso richiamano i principi in tema di sussistenza di un grave quadro indiziario per concludere che nel caso in esame difetta il livello di gravità necessario ex art. 273 cod. proc. pen. per l’emissione della misura;
b. le pagine da 6 a 8 del ricorso insistono sull’esigenza di proporzionalità della misura rispetto al fatto e richiamano l’art.299, comma 2, cod. proc. pen., così concludendo che la possibile applicazione agli indagati di circostanze attenuanti e di diminuzioni sulla base del rito avrebbe imposto un giudizio di non proporzione della misura restrittiva rispetto alla pena eventualmente irroganda;
c. alle pagine 8 e 9 il ricorso sottolinea l’assenza di esigenze di prova che giustifichino la misura.

Considerato in diritto

1. Osserva preliminarmente la Corte che il ricorso va ritenuto manifestamente infondato e viziato da genericità nella parte in cui censura il giudizio del Tribunale in ordine all’esistenza di gravi indizi a carico dei ricorrenti. Il Tribunale del riesame, esponendo sinteticamente le ragioni già approfondite dall’ordinanza applicativa della misura, ha ritenuto che le modalità dei fatti come accertati in sede di sequestro (tra cui viene in luce l’esistenza di un impianto di irrigazione delle piantine sequestrate) e le stesse dichiarazioni degli indagati in sede di interrogatorio non lascino molti dubbi circa la riconducibilità agli stessi della coltivazione di marijuana all’interno del fondo da loro coltivato anche con altri prodotti. A fronte di questa ricostruzione del quadro indiziario, il ricorso prospetta in modo assolutamente generico l’esistenza di una situazione di incertezza sulla riferibilità della coltivazione e la possibilità che persone estranee abbiano ad essa dato corso.
2. L’infondatezza del primo motivo e la non esistenza di dubbi effettivi sul quadro indiziario priva di rilevanza le restanti censure nella parte che proprio sulla debolezza degli indizi fondano la carenza di esigenze cautelari attuali.
3. Ciò premesso, restano da affrontare due profili di criticità emergenti dal ricorso. Il primo concerne la prognosi in ordine al trattamento sanzionatorio e la sua ricaduta sull’applicabilità di una misura restrittiva della libertà. Pur non espressamente richiamato dai ricorrenti, infatti, viene in luce il dettato dell’art.275 cod. proc. pen. con riguardo ai criteri di scelta delle misure, ivi compreso quanto previsto dai commi 2 e 2-bis.

Ora, il Tribunale ha qualificato il fatto come di non modesta gravità e la pena futura non riconducibile entro i limiti della sospensione condizionale ex art.163 cod. pen. Si è in presenza, invero, di condotta di coltivazione non effettuata nelle mura domestiche o con caratteristiche episodiche, ma mediante impianto permanente dissimulato tra le coltivazioni, così che il giudizio di gravità del fatto operato dai giudici del riesame appare coerente coi dati di fatto. Si tratta di giudizio che i ricorrenti non contestano in modo chiaro, limitandosi a prospettare l’applicazione di riduzioni della pena derivanti sia dall’adozione di riti alternativi sia dalla concessione di circostanze attenuanti. Sul punto la Corte osserva che, anche qualora la pena base fosse determinata nel minimo edittale di sei anni di reclusione (apparendo da escludere, alla luce della motivazione dell’ordinanza impugnata sul punto non censurata specificamente, l’applicazione del comma 5 dell’art. 73, citato), anche l’eventuale concessione di una circostanza attenuante (non dimenticando sul punto la previsione del comma 3 dell’art. 62 bis cod. pen.) e la ulteriore riduzione della pena di 1/3 per ragioni di rito non porterebbero la pena finale ricompresa nei limiti dell’art. 163 cod. pen. Va, dunque, escluso che il ricorso possa dirsi fondato nella parte in cui appare prospettare una incompatibilità ontologica fra l’applicazione della misura cautelare e la pena prevedibilmente applicabile alla luce del giudizio formulato con l’ordinanza impugnata.
4. Il secondo profilo riguarda la possibilità di reiterazione del reato in relazione ai criteri fissati dall’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. Si tratta di tema che il ricorso affronta in modo indiretto e poco argomentato, ma che presenta una propria obiettiva rilevanza e deve essere esaminato dalla Corte alla luce delle regole fissate dalla disposizione ricordata. Ebbene, l’ordinanza deriva l’esistenza di un concreto pericolo di reiterazione dalla circostanza che il sig. G.    opera professionalmente come coltivatore. Premesso che tale argomento, tipicamente legato alla persona, non può estendersi alla coindagata, l’ordinanza omette di argomentare per quale ragione gli indagati, in assenza di precedenti penali che supportino un giudizio di pervicacia nel reato, dovrebbero ragionevolmente tornare a porre in essere condotte simili a quelle che per la prima volta li hanno condotti di fronte all’autorità giudiziaria, li hanno portati a subire una misura cautelare afflittiva e sfoceranno in una possibile condanna a pena non modesta. Né i giudici del riesame prospettano motivatamente un’ipotesi di collegamento con ambienti criminosi dediti in modo professionale al commercio di sostanze stupefacenti o altri elementi che lascino ipotizzare pressioni o agevolazioni sugli indagati da parte di terzi. Difettano, in ultima analisi, le motivazioni che sorreggano la necessità della misura cautelare in atto, anche sotto il profilo della proporzionalità tra misura restrittiva ed esigenze cautelari.
5. Sulla base di tali considerazioni l’ordinanza dev’essere annullata con rinvio al Tribunale perché, considerati i principi fissati con la presente decisione, provveda a nuovo esame in ordine alla sussistenza di attuali esigenze cautelari e alla scelta della misura imposta ai ricorrenti.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alle esigenze cautelari e rinvia al Tribunale di Catania.

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