Infedele dichiarazione per il sostituto che indica nella dichiarazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quelli effettivi, non inserendo tra i componenti positivi gli importi della ritenuta d’acconto operata dal sostituto d’imposta e da questo non versata
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 18 gennaio 2017, n. 2256
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMORESANO Silvio – Presidente
Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere
Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere
Dott. RENOLDI Carlo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 25-01-2016 del tribunale del riesame di Grosseto;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Vito Di Nicola;
lette le conclusioni del Procuratore Generale che ha chiesto l’inammissibilita’ del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. (OMISSIS) ricorre per cassazione impugnando l’ordinanza indicata in epigrafe con la quale il tribunale del riesame di Grosseto ha confermato il decreto di sequestro preventivo fino alla concorrenza della somma di Euro 278.463,04 emesso dal giudice per le indagini preliminari con riferimento al reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 4 perche’, quale commercialista libero professionista, indicava, nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2012, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, ed in particolare, tra l’altro, non inseriva tra i componenti positivi Euro 687.830,69 corrispostigli per prestazioni professionali attraverso la cessione di un terreno dalla ” (OMISSIS)” di (OMISSIS) anche per conto di ulteriori societa’ da questa accollate, importo di cui alla fattura n. (OMISSIS), prodotta alla G.d.F. dal legale rappresentante (OMISSIS) e mai registrata dal (OMISSIS) nella propria contabilita’, cosi’ evadendo l’IRPEF altrimenti dovuta.
2. Per l’annullamento dell’impugnata ordinanza il ricorrente solleva un unico complesso motivo, corredato da memoria, qui enunciato ai sensi dell’articolo 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con esso, il ricorrente deduce la violazione di legge (articolo 321 c.p.p., Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articoli 1 e 4 e succ. mod.) per l’inesatta interpretazione della nozione di “imposta evasa” di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 1 e conseguente inosservanza delle soglie di punibilita’ stabilite in relazione al delitto oggetto di addebito (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b).
Dopo un’ampia ed articolata esposizione dei principi fondamentali che disciplinano le misure cautelari reali, sostiene il ricorrente che il tribunale cautelare ha ritenuto di respingere la censura difensiva non gia’ sulla base di una diversa ricostruzione fattuale e/o algebrico-contabile di quanto accaduto, bensi’ su di una concezione della nozione di “imposta evasa” asseritamente eterogenea rispetto a quella sulla quale la difesa aveva fatto perno nell’articolare le proprie osservazioni critiche.
Il tribunale cautelare ha affermato che, sarebbe “del tutto pacifico che la somma corrispondente alla ritenuta d’acconto possa essere detratta dall’ammontare complessivo dell’imposta dovuta unicamente qualora sia stata effettivamente corrisposta all’Erario”.
In tal modo, il giudice a quo avrebbe accolto una nozione di “imposta evasa” del tutto asistematica e, persino, irragionevole alla luce dei principi fondamentali che informano la disciplina penalistica, avendo omesso di considerare che il contribuente, il quale subisce una ritenuta, materialmente versa, estinguendo ab ovo e fino alla concorrenza del relativo importo, l’imposta dovuta al momento in cui la ritenuta e’ effettuata, dovendo ricondursi la distinzione tra questa e una normale operazione di diretto pagamento del tributo nella mera alterita’ soggettiva tra l’obbligato al versamento e colui il quale, avendo percepito l’importo monetario corrispondente all’imposta dovuta, e’ tenuto a restituirlo all’Erario.
E’ quindi del tutto inesatto sostenere che il concetto di imposta evasa, se non altro nella sua dimensione e per il suo rilievo penalistico, non debba tener conto (e quindi non debba essere scomputato l’ammontare) delle entita’ monetarie effettivamente versate dal contribuente al sostituto d’imposta, posto che il patrimonio del soggetto agente subisce un decremento nel momento in cui e’ operata la ritenuta. D’altro canto, deve ritenersi del tutto ininfluente, quantomeno sotto il profilo dell’imputabilita’ del fatto di infedele dichiarazione nel caso di specie ipotizzato, che il sostituto d’imposta, dopo aver ritenuto la somma versata dal contribuente, non abbia provveduto successivamente a versarla nelle casse erariali. E cio’, non soltanto in quanto una simile condotta sarebbe in astratto suscettibile di radicare un’autonoma pretesa punitiva nei confronti del sostituto d’imposta ma, soprattutto, perche’ alcun rimprovero, ancora una volta, sotto il profilo rigorosamente penalistico, puo’ essere mosso nei confronti di colui il quale ha gia’ provveduto al versamento in conformita’ alla disciplina di settore e non puo’ certo essere ritenuto responsabile per il fatto, eventualmente illecito, commesso dal terzo.
Sotto diverso profilo, operando un singolare ribaltamento dell’onere probatorio, il tribunale cautelare sarebbe invece giunto, secondo il ricorrente, ad addossare in capo alla persona accusata l’onere dimostrativo in relazione al fatto dal quale dipenderebbe l’assenza della condizione di punibilita’ prevista dalla legge, realizzando il palese stravolgimento tanto delle regole di giudizio tipicamente riconnesse all’esercizio della funzione giurisdizionale nel processo penale che la disapplicazione della fattispecie sostanziale contestata all’imputato, attraverso il capzioso aggiramento della condizione di punibilita’ prevista dalla legge, e confezionando in tal modo un ulteriore e vistoso profilo di illegittimita’ che affligge il provvedimento impugnato.
3. Con memoria datata 12 ottobre 2016, il ricorrente, replicando alla richiesta di inammissibilita’ del ricorso formulata dalla Procura generale con particolare riferimento al vincolo di solidarieta’ passiva esistente tra sostituto e sostituito nel caso di mancato versamento dell’imposta, ha affermato che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, articolo 35 il quale, rubricato “Solidarieta’ del sostituto di imposta”, afferma espressamente che “quando il sostituto viene iscritto a ruolo per imposte, sopratasse e interessi relativi a redditi sui quali non ha effettuato ne’ le ritenute a titolo di imposta ne’ i relativi versamenti, il sostituito e’ coobbligato in solido”.
Pertanto, secondo il ricorrente, la solidarieta’ passiva sussiste esclusivamente nelle ipotesi in cui non soltanto il sostituto non abbia operato il versamento delle somme, ma non abbia neppure effettuato le ritenute a titolo d’imposta. Nel caso in cui, come nella specie, la ritenuta sia stata effettuata, ma il sostituto non abbia provveduto al relativo versamento, l’obbligazione passiva sara’ unicamente in capo al sostituto medesimo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non e’ fondato.
2. Il tribunale cautelare ha affermato che il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, comma 1, lettera f), stabilisce che, per imposta evasa, debba intendersi “la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo (…) di ritenuta (…) prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine”.
Da tale definizione normativa, il tribunale ha tratto solido argomento per ritenere del tutto pacifico che la somma corrispondente alla ritenuta d’acconto possa essere detratta, da parte del sostituito, dall’ammontare complessivo dell’imposta dovuta unicamente qualora sia stata effettivamente corrisposta all’Erario dal sostituto di imposta entro il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi, rimanendo in tal caso indifferente per il fisco l’autore del pagamento (sostituto o sostituito).
Nel caso di specie, la ritenuta d’acconto, determinata nella fattura emessa dal (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) in Euro 132.275,13, non risulta corrisposta entro il settembre 2013 ne’ dal professionista, ne’ dalla detta societa’, circostanza che, secondo il convincimento del tribunale, era certamente ben nota al ricorrente, in quanto commercialista della medesima persona giuridica ed obbligato in solido al versamento.
Per questa ragione, a fronte di un complessivo ammontare degli elementi attivi non dichiarati, l’imposta evasa e’ stata determinata in Euro 278.463,04 e quindi per un importo superiore alla soglia di punibilita’ quantitativa ratione temporis prevista per l’integrazione della fattispecie incriminatrice.
Il ricorrente, prospettando una divaricazione tra le regole che disciplinano la materia penale rispetto a quella che governa il diritto tributario, sostiene che il “sostituito” non avrebbe alcun obbligo specifico una volta che il “sostituto” avrebbe effettuato materialmente la ritenuta, cio’ equivalendo ad estinzione da parte sua dell’obbligazione tributaria fino alla concorrenza dell’importo per il quale la ritenuta e’ stata effettuata ed afferma che la definizione legislativa di “imposta evasa” fornita dal tribunale cautelare sarebbe del tutto asistematica e, persino, irragionevole alla luce dei principi fondamentali che informano la disciplina penalistica.
Nondimeno il Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 1, comma 1, fornisce, al titolo 1 del decreto, le definizioni dei segni linguistici che sono utilizzati nel provvedimento legislativo come elementi del fatto tipico delle figure di reato previste dal diritto penale tributario, e cioe’ fornisce le definizioni, agli effetti penali, di cosa deve intendersi per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (articolo 1, lettera a), per “elementi attivi o passivi” (articolo 1, lettera b), per “dichiarazioni” (articolo 1, lettera c), per “fine di evadere le imposte” e per “fine di consentire a terzi l’evasione” (articolo 1, lettera d), per “fine di evadere le imposte” e “fine di sottrarsi al pagamento” con particolare riguardo ai fatti commessi da chi agisce in qualita’ di amministratore, liquidatore o rappresentante di societa’, enti o persone fisiche (articolo 1, lettera e), per “imposta evasa” (articolo 1, lettera f), “per soglie di punibilita’” (articolo 1, lettera g).
Ne consegue che il decreto legislativo, nel fornire la definizione di “imposta evasa” agli effetti della legge penale (atteso che la nozione e’ incardinata nella “nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma della L. 25 giugno 1999, n. 205, articolo 9”), stabilisce che per essa deve intendersi “la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta (…) prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine”, e quindi chiarisce che il sostituito non e’ sottratto dagli obblighi dichiarativi a suo carico se il sostituto non adempie.
La giurisprudenza di legittimita’ nelle pronunce della Sezione tributaria, che il Collegio condivide, e’ orientata, in sintonia con quanto previsto dalla legge penale tributaria, nel senso di ritenere che il fatto che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 64, comma 1, definisca il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge e’ obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri… ed anche a titolo di acconto” non toglie che anche il sostituito debba ritenersi gia’ originariamente (e non solo in relazione alla fase della riscossione) obbligato solidale d’imposta, e quindi egli stesso soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, derivando da cio’ che, in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del sostituto, al pagamento del tributo e’ obbligato anche il sostituito (Sez. 5, n. 8504 del 08/04/2009, Rv. 607853; Sez. 5, n. 8653 del 15/04/2011,Rv. 616985).
Peraltro la ratio che sostiene la nozione di “imposta evasa” agli effetti della legge penale, di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, comma 1, lettera f), allo stesso modo della previsione del vincolo di solidarieta’ passiva enucleabile dalla disposizione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 64, comma 1, mira in parte qua ad evitare che gli obblighi dichiarativi siano elusi sulla base di collusioni esperibili in danno dell’erario tra sostituto e sostituito, fermo che a quest’ultimo ovviamente spettano tutte le conseguenti azioni, anche per il rimborso dell’indebito tributario, nei confronti del sostituto inadempiente.
Deve pertanto ritenersi che, in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del sostituto di imposta e sempre che sia stata superata la relativa soglia di punibilita’ quantitativa e percentuale (della quale ultima il ricorrente non discute), integra il reato di infedele dichiarazione previsto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 4, la condotta del sostituito che indica nella dichiarazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quelli effettivi, non inserendo tra i componenti positivi gli importi della ritenuta d’acconto operata dal sostituto d’imposta e da questi non versata, costituendo tali poste elementi attivi del reddito che concorrono alla determinazione dell’imposta evasa come definita dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, comma 1, lettera f).
Avendo il tribunale cautelare ritenuto, con logica ed adeguata motivazione, che la circostanza del mancato versamento della ritenuta di imposta da parte del sostituto era nota al sostituito, essendo quest’ultimo commercialista della persona giuridica inadempiente, deve ritenersi integrato, fatto salvo il normale regime della progressione processuale, anche l’elemento soggettivo del reato provvisoriamente contestato.
3. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali
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