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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza  5 settembre 2013, n. 20394

Svolgimento del processo

C.C. e L. , partecipanti per la quota indivisa di 1/3 alle comunioni ereditarie dei nonni materni, comunioni cui partecipavano le zie d.P.A. e d.P.V. , portatrici ciascuna della quota di 1/3, impugnavano innanzi al Tribunale di Napoli la delibera 9.7.1998 adottata a maggioranza dall’assemblea delle comunioni stesse. Con tale delibera era stato imposto loro il pagamento di un canone di locazione in corrispettivo del godimento di un immobile ereditario di cui essi soltanto godevano, e stabilito che tale obbligazione dovesse estinguersi per compensazione con il loro credito sulle rendite prodotte da altri cespiti comuni. Ritenendo illegittima la delibera sotto vari profili, incluso quello inerente al potere stesso dell’assemblea di operare una sorta di prelievo forzoso della quota parte delle rendite loro spettanti, C.C. e L. convenivano in giudizio d.P.A. e V. e T.G. , amministratore delle comunioni.
I convenuti resistevano e proponevano domanda riconvenzionale di condanna degli attori al pagamento di un’indennità per il godimento esclusivo dell’immobile.
Il Tribunale con sentenza non definitiva dichiarava nulla la deliberazione impugnata, per difetto del requisito di liquidità ed esigibilità dei crediti regolati in compensazione, e con sentenza definitiva accoglieva la domanda riconvenzionale, condannando gli attori a pagare alla comunione, a titolo di indennità per il godimento del bene, la somma di Euro 42.000,00.
Gravate entrambe le pronunce dagli attori, la Corte d’appello di Napoli rigettava la domanda riconvenzionale.
La Corte territoriale, rilevato il giudicato interno sul punto della sentenza non definitiva che aveva escluso l’esistenza di un rapporto di locazione fra le parti, riteneva non condivisibile la sentenza definitiva nella parte in cui aveva affermato il diritto di d.P.A. e V. alla percezione di un’indennità per il godimento esclusivo di tale cespite ad opera dei C. . Ciò in quanto, argomentava la Corte partenopea, dall’art. 1103 c.c. derivava il diritto di ciascun partecipante a godere e disporre della cosa comune nei limiti della propria quota (non quale conduttore o assegnatario, dunque, ma) come comproprietario in buone fede, fermi restando i limiti imposti dall’art. 1102 c.c. Limiti che – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado -non erano stati superati in danno delle d.P. , giacché, non essendo emerso che gli altri partecipanti alla comunione avessero avuto interesse a godere anch’essi dell’immobile, i C. non erano possessori in mala fede, sicché ai sensi dell’art. 1148 c.c. potevano ritenere i frutti civili fino alla domanda giudiziale. Quest’ultima, tuttavia, era stata formulata “sulla base di un asserito diritto sic et simpliciter della comunione all’indennità che non essendo fondata su di una delibera ad hoc di concessione in locazione si pone in contrasto con l’art. 1103 c.c.. Sarebbe stato quindi necessario”, proseguiva la Corte distrettuale, “che l’assemblea avesse adottato preventivamente una delibera con cui assegnare in locazione l’immobile eventualmente ai compartecipanti alla comunione e solo dalla relativa domanda giudiziale di pagamento del canone sarebbero decorsi i frutti civili da corrispondersi dal possessore di buona fede (art. 1148 c.c.) e che per quanto detto sopra in materia di comunione in genere non decorrono automaticamente” (così, testualmente, si legge a pag. 4 della sentenza impugnata).
Per la cassazione di tale sentenza d.P.A. e V. hanno proposto separati ricorsi, cui C.C. e L. hanno resistito con controricorso.
Con ordinanza depositata il 10.1.2013 questa Corte ha disposto che il ricorso di d.P.A. fosse notificato anche a T.G. e a d.P.V. .
In esito a ciò, T.G. è rimasto intimato.
d.P.A. e C.C. e L. hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti contro la medesima sentenza.
2 – Con l’unico motivo dell’impugnazione principale d.P.A. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1103 e ss. e 1148 c.c..
Sostiene parte ricorrente che l’art. 1102 c.c. vieta al singolo partecipante di attrarre la cosa comune o una sua parte nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri contitolari. Da tale norma, prosegue, si ricava che l’uso esclusivo del bene comune integra un abuso allorché nega il pari diritto (rectius, la pari facoltà: n.d.r.) di godimento degli altri partecipanti alla comunione, ai quali pertanto spetta un corrispettivo per il godimento non esercitato.
Inoltre, l’obbligo d’indennizzare gli altri partecipanti non può essere negato richiamando l’art. 1148 c.c., la cui operatività è limitata ai rapporti tra possessore e aventi diritto alla restituzione, e non ai rapporti fra partecipanti ad una comunione.
3. – Il primo motivo del ricorso proposto da d.P.V. deduce, in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c, la violazione dell’art. 112 c.p.c. e del principio del tantum devolutum, quantum appellatum.
Si sostiene che gli stessi C. , nell’impugnare la sentenza di primo grado, avevano ammesso di dovere alle comproprietarie un giusto corrispettivo del godimento esclusivo che essi avevano avuto del bene comune. Essi, infatti, avevano censurato la sentenza del Tribunale sotto altro profilo, quello dell’asserita violazione dell’art. 1105 c.c.. Pacifico che tale godimento era avvenuto senza contrasto fra le parti, la determinazione di tale corrispettivo, avevano sostenuto gli appellanti, avrebbe dovuto essere effettuata non in sede contenziosa, ma attraverso apposita delibera dell’assemblea dei comproprietari o, in difetto, con ricorso in sede di volontaria giurisdizione ai sensi dell’art. 1105 c.c..
L’interpretazione estensiva dei motivi d’appello costituisce un error in procedendo che vizia di nullità la sentenza.
4. – Le medesime considerazioni sono a base del secondo mezzo d’impugnazione, sotto il diverso profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c., nonché dell’omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c., riguardo all’interpretazione del motivo d’appello formulato dai C. .
5. – Col terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1103 e 1148 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c..
Richiamandosi a Cass. n. 7716/90, parte ricorrente deduce che il condividente di un bene immobile che durante la comunione abbia goduto dell’intero bene da solo e senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, identificati con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri.
6. – Il primo motivo del ricorso di d.P.A. e il terzo del ricorso di d.P.V. , da esaminare congiuntamente per la loro identità di oggetto, sono fondati.
6.1. – Nel sistema della comunione del diritto di proprietà per quote ideali, ciascun partecipante gode del bene comune in maniera diretta e promiscua, cioè come può purché non ne alteri la destinazione e non impedisca l’esercizio delle pari facoltà di godimento che spettano agli altri comproprietari (art. 1102 c.c.).

Allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto (a maggioranza o all’unanimità, secondo il tipo di uso deliberato: cfr. artt. 1105 e 1108 c.c.).

Tuttavia, prima e indipendentemente da ciò, nel caso in cui la cosa comune sia potenzialmente fruttifera, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, con riferimento ai prezzi di mercato correnti, frutti che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono -solo in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione – essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile (cfr. Cass. nn. 7881/11 e 7716/90, entrambe pronunciate in ipotesi di giudizio di divisione).
6.1.1. – Nel caso che ne occupa, dalla sentenza impugnata si ricava: a) che oggetto di comunione è un fondo (pare di capire, urbano) e dunque una cosa per definizione idonea a produrre frutti civili; e b) che C.C. e L. ne hanno goduto in via esclusiva.
Sulla base di tali premesse di fatto, la Corte d’appello (a parte l’erroneo richiamo all’art. 1103 c.c., che non disciplina il godimento del bene, ma gli atti di disposizione della quota) ha falsamente applicato (invece delle sopra citate norme sulla comunione) l’art. 1148 c.c., che disciplina il caso, affatto diverso, della sorte dei frutti naturali o civili percepiti dal possessore di buona fede il quale debba restituire la cosa al rivendicante. Tale norma regola l’attribuzione dei frutti nel conflitto esterno tra possessore in buona fede e proprietario, e dunque non può operare per discipinare il diverso problema della ripartizione interna fra più comproprietari dei frutti ritratti o ritraibili dalla cosa comune.
Nella situazione in esame non vi è alcun conflitto tra possesso e proprietà, atteso che tutti i partecipanti alla comunione devono ritenersi (proprietari e) possessori della cosa comune, d.P.A. e V. solo animo, C.C. e L. et corpus.
7. – L’accoglimento dei suddetti motivi assorbe l’esame delle restanti censure del ricorso incidentale, proposto da d.P.V. .
8. – Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, che nel decidere la controversia si atterrà al seguente principio di diritto: “in materia di comunione del diritto di proprietà, allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, secondo quanto prescrive l’art. 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto. Tuttavia, prima e indipendentemente da ciò, nel caso in cui la cosa comune sia potenzialmente fruttifera, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, con riferimento ai prezzi di mercato correnti, frutti che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono – solo in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione – essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile“.
9. – Ai sensi dell’art. 385, 3 comma c.p.c. il giudice di rinvio provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale e il terzo del ricorso incidentale, assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

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