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suprema CORTE DI CASSAZIONE

sezione II

sentenza 31 luglio 2014, n. 33872

Ritenuto in fatto

  1. Con ordinanza del 30.1.2014, il Tribunale di Napoli ha confermato il decreto di sequestro emesso dal gip dello stesso tribunale il 13.1.2014 nei confronti della società FOVI SCARL per l’ammontare di Euro 1.257.775,82, nell’ambito del procedimento penale avente ad oggetto due appalti pubblici, l’uno indicato come appalto ‘Buone Prassi’, l’altro come appalto art. 26, relativi ad interventi finanziati dalla Regione Campania, che figura come ente danneggiato dai reati. IL gip aveva disposto che in mancanza di beni della società il sequestro venisse eseguito per equivalente nei confronti dell’amministratore, S.R. .

2.Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici territoriali, nella vicenda ‘buone Prassi’, relativa ad un intervento finalizzato alla realizzazione delle buone prassi e dei modelli esemplari per la formazione, l’appalto era stato aggiudicato nel Giugno del 2006, a seguito dell’espletamento di apposita procedura di gara, ad una RTI guidata dalla società Ernest & Young Financial. Per l’intervento, deciso con delibera della Giunta nr. 457 del 19.4.2006, erano stati stanziati, originariamente tre milioni di Euro, destinati solo alla vincitrice della gara; sennonché, con successivo provvedimento del dirigente amministrativo, era stato in sostanza disposto un ampliamento del finanziamento, per un importo complessivo di Euro 8.775.638,40, in modo che ne potessero beneficiare anche le imprese classificatesi 2 e 3, tra le quali la RTI di cui faceva parte la soc. FOSVI.

2.1.La Vicenda ‘art. 26’, aveva preso origine dalla delibera di Giunta n. 180 del 28.1.2008, con la quale erano stati ammessi a finanziamento 11 progetti; con successiva delibera n. 2305 del 23.12.2008, il finanziamento era stato esteso a 55 progetti, per un totale complessivo di Euro 148.684.723,00. A pag. 4 il Tribunale si sofferma sulle numerose anomalie e irregolarità amministrative della procedura di assegnazione dei finanziamenti, segnalando in particolare le evidenti anomalie del sistema di protocollo utilizzato per registrare le domande, presentate dagli interessati grazie a conoscenze ‘private’ della procedura di gara, alla quale non era stata data evidenza pubblica.

  1. Quanto alla determinazione del profitto, il Tribunale si richiama all’indirizzo di legittimità segnato da Cass. 20976/2012, che distingue tra ‘reato contratto e reato in contratto; nel primo caso, si l’immedesimazione originaria del reato con il negozio giuridico, nel secondo, il contratto è valido, e ai fini dell’identificazione dell’ingiusto profitto occorre fare riferimento non all’intero prezzo dell’appalto, ma all’utile netto dell’attività di impresa. Secondo il Tribunale, nel caso di specie ci si troverebbe di fronte a ‘reati contratti’, Con la conseguenza che l’importo sequestrabile coinciderebbe con l’intero ammontare degli appalti.
  2. Ricorre il S. per mezzo del proprio difensore, per i seguenti motivi:
  3. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, mancanza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla valutazione del fumus commissi delicti. La difesa, premesso che tra i reati contestati agli imputati solo quello di truffa aggravata e non anche quello di turbata libertà degli incanti consentirebbe il sequestro per equivalente, rileva di avere già rappresentato al Tribunale, in un’articolata memoria difensiva le ragioni per le quali dovrebbe ritenersi insussistente ogni motivo anche solo di sospetto nell’operato del S. , che non potrebbe ritenersi coinvolto nella truffa solo perché amministratore di una delle società beneficiane del profitto del reato.
  4. Peraltro, il Tribunale avrebbe confuso gli estremi del delitto di truffa con quello di turbata libertà degli incanti, nel rilevare:
  5. a) quanto alla vicenda c.d. ‘Buone Prassi, l’illegittimo ampliamento dell’originario finanziamento;
  6. b) quanto alla vicenda ‘art. 26’, la mancata attivazione di una procedura amministrativa ad evidenza pubblica per l’assegnazione dei finanziamenti.

In questa confusione, si anniderebbe un altro vizio motivazionale di fondo del provvedimento impugnato, che non avrebbe operato il necessario approfondimento degli specifici elementi costitutivi dell’una e dell’altra fattispecie di reato.

  1. Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 322 ter cod. pen, mancanza e contraddittorietà della motivazione rispetto alla questione di diritto concernente la irretroattività della norma per la parte relativa alla confiscabilità del profitto del reato. La difesa richiama, in proposito, Cass. sez un. 3869/2009.
  2. Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 322 ter cod. pen. in ordine al profitto da sottoporre a sequestro. Il Tribunale avrebbe trascurato al riguardo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter, c.p., in presenza di un contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionar, la nozione del profitto confiscabile al corruttore non va identificata con l’intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A., dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall’illecito penale dal corrispettivo conseguito per l’effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell’illiceità della causa remota (Sez. 6, n. 17897 del 26/03/2009, dep. 29/04/2009, Rv. 243319; Sez. 6, n. 37556 del 27/09/2007, dep. 11/10/2007, Rv. 238033).

3.1. Ne consegue, secondo la difesa, che il profitto che la parte privata ha conseguito dall’appalto illecitamente ottenuto, non può globalmente omologarsi all’intero valore del rapporto sinallagmatico in tal modo instaurato con l’amministrazione. L’instaurarsi di un rapporto a prestazioni corrispettive, infatti, impone di scindere il profitto confiscabile – quale direttamente derivato dall’illecito penale – dal profitto determinato dal corrispettivo di una effettiva e corretta erogazione di prestazioni comunque svolte in favore della stessa pubblica amministrazione, prestazioni che non possono considerarsi, di per sé stesse e per immediato automatismo traslativo, colorate di illiceità per derivazione dalla causa remota, non potendosi includere, nella nozione di profitto, qualunque ricavo conseguito per effetto della stipula di un contratto di appalto illecitamente ottenuto nell’ambito di una relazione corruttiva (Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, dep. 02/07/2008, Rv. 239924; Sez. 6, n. 42300 del 26/06/2008, dep. 13/11/2008, Rv. 241332). Cass. pen. sez. VI nr. Cass. 42530/2012 del 5.10.2012 e nr. 4177/2012).

3.2. Nel caso di specie la pubblica accusa avrebbe invece determinato l’importo da sequestrare sulla base di una mera “operazione algebrica” (somma delle percezioni ricevute per le due vicende oggetto di contestazione), senza tener conto di voci economiche sicuramente non corrispondenti a profitti, come l’importo dell’IVA per l’appalto “BUONE PRASSI”, e le spese sostenute dall’impresa appaltatrice, pari ad Euro 53,500,00; come anche, relativamente “all’art. 26”, degli importi versati dalla FOSVI alle altre due società facenti parte dell’ATI, e dei costi sostenuti.

 Considerato in diritto

  1. Il fumus commissi delicti non è particolarmente contestato in ricorso rispetto alla materialità dei fatti e alla generica connotazione in termini di illiceità penale delle vicende processuali, ma in ogni caso le anomalie nelle procedure delle due gare in contestazione sono efficacemente focalizzate dai giudici territoriali, con valutazioni più che adeguate al ridotto livello indiziario che deve giustificare misure di cautela reale e allo standard argomentativo ‘minimo’ desumibile dalla limitazione dell’impugnazione di legittimità contro i provvedimenti di sequestro al vizio di violazione di legge. In ricorso è contestata piuttosto la presunta ‘confusione’, da parte del Tribunale, tra gli elementi distintivi rispettivamente caratterizzanti i reati di cui agli artt. 353 e 640 cod. pen., e la valutazione della direzione soggettiva dell’accusa. Sotto il primo profilo, la difesa rileva in sostanza, che il Tribunale avrebbe finito per applicare il sequestro per equivalente in relazione al reato di cui all’art. 353 cod. pen., che non è compreso tra i titoli di reato che lo giustificano. Riguardo alle specifiche responsabilità del S. , la difesa lamenta l’indebito automatismo della valutazione del suo coinvolgimento nei fatti solo in ragione della carica rivestita all’interno della società beneficiaria. Quanto al primo aspetto va premesso che deve ammettersi la possibilità del concorso formale fra il reato di turbata libertà degli incanti e quello di truffa, attesa la loro diversa obiettività giuridica (essendo rivolto l’uno alla tutela del regolare svolgimento dei pubblici incanti e delle licitazioni private, l’altro alla difesa della integrità patrimoniale del soggetto passivo), e differenziandosi inoltre gli stessi sotto il profilo degli elementi strutturali che li compongono Sez. 2, Sentenza n. 46884 del 04/11/2004 Ud. (dep. 02/12/2004) Rv. 231087 Presidente: Rizzo AS. Estensore: Sirena PA. Relatore: Sirena PA. Imputato: Brambati ed altri. Nella specie, è indubbio, alla stregua della prospettazione accusatoria e dei fatti accertati, il danno patrimoniale subito dall’amministrazione appaltante in entrambe le vicende processuali. Nel caso della vicenda ‘Buone Prassi’, sarebbe stato illecitamente deliberato un consistente aumento del finanziamento originario; nel caso della vicenda art. 26 l’amministrazione avrebbe erogato i finanziamenti previsti a soggetti non aventi diritto, in quanto fraudolentemente inseriti nei posti utili della graduatoria. Il profilo del danno patrimoniale subito dalla stazione appaltante si aggiunge quindi, in entrambi i casi, alle frodi poste in essere per alterare i risultati delle gare o falsificare le graduatorie, talché quello che la difesa lamenta in termini di ‘confusione tra l’una e l’altra ipotesi di reato, non è che l’applicazione coerente della figura del concorso formale di cui all’art. 81 primo comma cod. pen.. Verificata la configurabilità anche del reato di cui all’art. 640 bis cod. pen., nessun problema si pone rispetto alla corretta applicazione dell’art. 640 quater. Sotto il profilo della direzione soggettiva dell’accusa, appare poi sufficiente, in realtà, in termini di fumus, come ha in sostanza ritenuto il Tribunale, la posizione apicale rivestita dal ricorrente all’interno della società beneficiaria degli illeciti finanziamenti, essendo ben difficile, in assenza di non dedotte situazione di impedimento e/o di deleghe di poteri ecc, che l’accesso a cospicui finanziamenti pubblici e la riscossione della relative somme, attraverso l’inevitabile articolazione di vari passaggi amministrativi e l’interlocuzione con la parte pubblica, potessero realizzarsi senza alcun intervento, o comunque con l’assoluta ignoranza, dei titolari della massime istanze gestionali della soc. FOVI. Senza dire che anche ammettendo la posizione di ‘terzo’ del S. , le valutazioni del caso, ai fini dell’assoggettabilità del ricorrente al sequestro per equivalente, dovrebbero fare comunque riferimento, nella specie, al criterio dell”estraneità’ al reato del terzo assoggettato al sequestro (cfr. art. 323 ter comma 1 cod. pen.), che colloca il titolo della ‘legittimazione passiva’ alla misura cautelare un gradino al di sotto del ‘concorso’ nel reato, con l’ovvia semplificazione dell’onere probatorio a carico dell’accusa.
  2. Il secondo motivo è infondato. I problemi interpretativi posti dal collegamento tra l’art. 640 quater e l’art. 322 ter cod. pen. erano stati già risolti dalla più condivisibile giurisprudenza di questa Corte nel senso che nella parte relativa alla disciplina alla confisca per equivalente la prima norma richiamasse l’intero art. 322 ter cod. pen., e che, di conseguenza, la confisca per equivalente per i reati di cui agli artt. 640 bis e 640 ter cod. pen. non soffrisse la previsione restrittiva dell’ultimo inciso del primo comma dell’art. 322 ter cod. pen., che la limitava (peraltro con formulazione alquanto infelice) al prezzo del reato (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 41936 del 25/10/2005 Imputato: Muci). L’indirizzo era stato successivamente ripreso da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26792 del 03/03/2011, Marabotto e altri con la precisazione, anzi, che la ‘o’ che separa, nel primo comma dell’art. 323 ter cod. pen, i termini di profitto e prezzo, debba intendersi come congiunzione, essendo entrambi i predetti valori acquisiti in ragione dell’illecito commesso. In questo senso, non sarebbe nemmeno decisivo il riferimento dell’art. 640 quater all’intera disposizione dell’art. 322 ter, perché la soluzione interpretativa dell’ammissibilità del sequestro per equivalente del profitto dei reati considerati dall’art. 640 quater sarebbe stata compatibile anche con il primo comma della norma di riferimento dell’art. 322 ter. Si può aggiungere che nella chiusura del comma uno dell’art. 322 ter la chiarezza e l’esclusività del riferimento al prezzo come oggetto della confisca per equivalente, erano non di poco intorbidate, non solo sotto il profilo grammaticale, ma anche sotto il profilo logico, dall’espressione ‘tale’ immediatamente precedente. Rispetto al coordinamento tra le due disposizioni dell’art. 322 ter e dell’art. 640 quater cod. pen. la L. 190/2012 non ha quindi carattere innovativo, e non si pongono i problemi di diritto inter temporale segnalati dalla difesa.
  3. Anche i motivi sul quantum sono infondati. I giudici territoriali hanno fatto retta applicazione, al fine della valutazione della corrispondenza del profitto del reato alla globalità dei valori economici in gioco, alla distinzione tra ‘reato-contratto’ e ‘reato in contratto’ (vedi, oltre alla giurisprudenza citata dal Tribunale, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17451 del 04/04/2012 Imputato: Mele e altri, secondo cui il profitto del reato previsto dall’art. 640-bis cod. pen., ai fini dell’applicazione della confisca per equivalente, coincide con l’intero ammontare del finanziamento qualora il rapporto contrattuale non si sarebbe perfezionato ed il progetto non sarebbe stato approvato senza le caratteristiche falsamente attestate dal percettore, mentre corrisponde alla maggiore quota dei fondi non dovuti nel caso in cui siano rappresentati dal beneficiario operazioni o costi riportati in fatture o relazioni ideologicamente false). Non c’è dubbio poi, avuto riguardo alla peculiarità delle due vicende processuali, l’originaria e assoluta inesistenza di qualunque diritto della FOVI a percepire le somme relative ai progetti finanziati con i fondi della Regione Campania. In questo ordine di considerazioni, poi, non trova spazio alcuno la considerazione di oneri economici e spese varie affrontate dalla società FOVI per la realizzazione degli interventi.

Alla stregua delle precedenti considerazioni il ricorso va pertanto rigettato con la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

 Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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