-autovelox-

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 23 maggio 2013, n. 22158

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARMENINI Secondo L. – Presidente –

Dott. GALLO Domenico – Consigliere –

Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Consigliere –

Dott. VERGA Giovanna – Consigliere –

Dott. ARIOLLI Giovann – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S. N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 61/2012 TRIB. LIBERTA’ di COSENZA, del 19/06/2012;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOLLI;

lette/sentite le conclusioni del PG Dott. DELEHAYE Enrico il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 19/6/2012 il Tribunale del riesame di Cosenza rigettava l’appello proposto nell’interesse di C.S. avverso il provvedimento con cui il Tribunale di Paola in data 17- 18/5/2012 respingeva l’istanza di dissequestro e la restituzione di sei apparecchi di rilevamento di velocità su strada, sottoposti a sequestro preventivo giusto decreto del G.I.P. dello stesso Tribunale del 10/4/2008, nell’ambito di procedimento penale iscritto nei confronti di altri soggetti diversi dall’odierno ricorrente, per i reati di cui agli artt. 110 e 640 c.p., art. 61 c.p., n. 9, art. 81 cpv. c.p., e artt. 110 e 323 c.p., art. 61 c.p., n. 9, art. 81 cpv. c.p..

2. Avverso tale provvedimento ricorre per cassazione il difensore dell’interessato, il quale ne chiede l’annullamento, deducendo: 1) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b). In particolare, posto che l’accusa ipotizza il delitto di truffa consistente nella rilevazione della velocità attraverso gli strumenti (regolari) in questione, ma posizionati in modo tale da essere occultati agli ignari automobilisti, ne consegue che tali res non rivestono funzione strumentale alla commissione del reato, poichè non funzionali e non relazionagli indissolubilmente allo stesso (come ritenuto per le autovetture all’interno delle quali erano posizionati ed i computer all’interno delle stesse custoditi), nè la libera disponibilità degli stessi può aggravare gli effetti dei reati in parola. In sostanza, deduce che un bene avente natura lecita (in quanto regolarmente tarato e conforme ai paradigmi normativi) non può seguire la sorte processuale dei presunti autori che di quel bene hanno fatto un uso illecito. Quanto al periculum ne contesta la sussistenza in ragione della mancanza di relazione tra gli indagati e il ricorrente, nuovo intestatario dei beni; 2) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), stante l’assenza di elementi che avallino concretamente l’esistenza di una discrasia tra l’intestazione formale del bene e la disponibilità effettiva dello stesso, non potendosi ritenere il ricorrente intestatario fittizio dei beni sulla sola parentela esistente tra un ex dipendente di una società indagata ed il titolare di un nuovo soggetto giuridico.

Deduceva, infine, che in analogo procedimento penale instauratasi dinanzi a diversa autorità giudiziaria (G.U.P. Tribunale di Cosenza) gli indagati erano stati prosciolti, stante impossibilità di cogliere l’elemento soggettivo proprio della truffa in relazione alla modalità di posizionamento degli autovelox, trattandosi di regolamentazione in continuo divenire.

3. Il ricorso è infondato.

Sussiste, innanzitutto, un rapporto di strumentante tra i beni sequestrati ed il reato di truffa per cui si procede, considerato che gli autovelox costituiscono lo strumento delle attività illecite accertate ed enunciate nella prospettazione accusatola (truffa consistente nella rilevazione di velocità attraverso autovelox posizionati in modo da essere occultati agli ignari automobilisti), a nulla valendo che la res impiegata per commettere la truffa abbia natura lecita, allorchè assolva, nell’ordito truffaldino, una valenza causale ai fini della realizzazione del reato. Di conseguenza, gli autovelox si prestano, proprio in ragione di tale nesso di interdipendenza con il reato, ad essere assoggettati a vincolo reale sia quale corpo del reato (“le cose … mediante le quali il reato è stato commesso”) sia quale cosa pertinente al reato la cui libera disponibilità può agevolare la commissione di altri reati della stessa specie di quello per cui si procede.

Quanto, poi, all’esistenza di un collegamento tra i beni sequestrati, divenuti di proprietà del ricorrente, estraneo al reato, con le attività delittuose poste in essere dagli indagati, va innanzitutto premesso che oggetto del sequestro preventivo può essere qualsiasi bene – a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato – purchè esso sia, anche indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti. In tal caso, incombe al giudice un dovere specifico di motivazione sul requisito del periculum in mora in termini, tuttavia, di semplice probabilità del collegamento di tali beni con le attività delittuose dell’indagato, sulla base di elementi che appaiano indicativi della loro effettiva disponibilità da parte di quest’ultimo, stante il carattere meramente fittizio della loro intestazione ovvero di particolari rapporti in atto tra il terzo titolare e l’indagato stesso (ex plurimis vedi: Sez. 5^, sentenza n. 11287 del 22/01/2010, rv. 246358).

Nel caso in esame, il Tribunale del riesame ha correttamente desunto il collegamento tra il ricorrente ed il reato per cui si procede sulla base di molteplici circostanze di fatto la cui combinazione logica consente di ritenere, in termini di fondata probabilità, che il colpevole “conservi” la disponibilità dei beni in sequestro, a prescindere dall’attuale intestazione formale. Si sono al riguardo valorizzati diversi elementi di carattere “territoriale” (la ditta del ricorrente opera nel medesimo ambito territoriale di quelle degli indagati), di pregressa appartenenza lavorativa (il ricorrente risulta essere stato dipendente della ditta che aveva fornito le apparecchiature che sarebbero state utilizzate per la commissione dei reati), nonchè parentale (con C.S. che è indicato quale esecutore delle operazioni materiali truffaldine di rilevazione delle infrazioni al codice della strada agli ignari utenti). Non può quindi escludersi l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’esistenza di una discrasia tra intestazione formale e la disponibilità effettiva del bene, e consentano di ritenere che il terzo abbia accettato la titolarità apparente del bene al solo fine di conservarne l’acquisizione in capo al soggetto indagato e neutralizzare il pericolo della confisca.

Va, pertanto, rigettato il ricorso. Ne consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2013.

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