cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 21 novembre 2014, n. 24860

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Presidente
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere
Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere
Dott. ABETE Luigi – Consigliere
Dott. SCALISI Antonino – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9291/2009 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), in proprio e quale legale rappresentante dell’associazione professionale (OMISSIS) , (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio degli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), che li rappresentano e difendono, come da procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

ENPAF – ENTE NAZIONALE PREVIDENZA ASSISTENZA FARMACISTI (OMISSIS), in persona del suo Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, come da procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza – n. 768/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/02/2008;

udita la relazione, della causa svolta nella pubblica udienza del 16/10/2014 dal Consigliere Ippolisto Parziale;

udito l’Avvocato (OMISSIS), per delega (OMISSIS), per i ricorrenti, nonche’ l’avv.to (OMISSIS) per il controricorrente, che si riportano agli atti e alle conclusioni assunte;

udito il sostituto procuratore generale, Dott. Alberto Celeste, che conclude per l’inammissibilita’ del ricorso e in subordine per il rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Cosi’ riassume la vicenda processuale la sentenza impugnata.
Con decreto ingiuntivo n. 16526/95 emesso il 14 dicembre 1995, il Tribunale di Roma ingiungeva all’E.N.PA.F. il pagamento in favore de ricorrenti (OMISSIS) e avv. (OMISSIS) della somma complessiva di lire 107.020.950 a titolo di saldo (come da parcella n. 59/1994) dei compensi dovuti per n. 292 pareri legali pro veritate, richiesti dall’ENPAF in base ad incarico professionale conferito nel marzo 1979, in relazione ad altrettante domande di mutui ipotecari avanzate da iscritti all’Ente. Su opposizione tempestivamente proposta dall’E.N.P.A.F., il Tribunale di Roma, con sentenza n. 36847/02 depositata il 30 settembre 2002 e notificata il 12 febbraio 2003, revocava il decreto ingiuntivo opposto e rigettava la domanda subordinata (per il pagamento di complessive lire 8.760.000 a titolo di rimborso spese) proposta in subordine dagli opposti, che condannava alla rifusione delle spese processuali. Rilevava il Tribunale, per quanto qui ancora rileva, come infondatamente i ricorrenti – opposti avessero richiesto importi superiori a quelli gia’ ricevuti e determinati in ragione di lire 50.000 e poi di lire 80.000 per ogni singolo parere, dovendosi considerare, in sintesi: a) la lettera in data 27.4.1982, con la quale lo Studio (OMISSIS) chiedeva un adeguamento del compenso per ciascun parere da lire 50.000 a lire 80.000, comprensivo del 2% Legge n. 576 del 1980, ex articolo 11, ed oltre iva, proposta accolta dall’ENPAF con delibera n. 419 del 14.5,82 che fissava il compenso in lire 92,000 compresa iva; b) il comportamento delle parti., avendo in particolare lo Studio (OMISSIS) ricevuto dal 1982 al 24 febbraio 1989 i suddetti importi senza sollevare alcuna contestazione, e soprattutto avendo lo stesso solo dodici anni dopo, nel 1994 (non risultando provata la comunicazione all’Ente dei 292 preavvisi di parcella datati 31.12.1986), quantificato il credito nella diversa e madore misura pretesa in giudizio con la parcella posta a base del ricorso monitorio .
2. La Corte di appello di Roma rigettava l’impugnazione proposta dagli odierni ricorrenti, rilevando che a) non era necessario che l’accordo riguardante la misura del compenso dovesse rivestire la forma scritta; b) era ammissibile la prova per testi e presunzioni sulla base della peculiarita’ del caso, del principio di prova per iscritto costituito dalla lettera 27 aprile 1982, sottoscritta dall’avv. (OMISSIS), rappresentante dell’Associazione professionale, che aveva chiesto un adeguamento del compenso a lire 80.000 e del comportamento delle parti, osservato per 12 anni dopo la lettera, relativo al pagamento da parte dell’Ente di tale importo per tutte le richieste successive. In definitiva, secondo la Corte di appello, doveva essere condivisa l’affermazione del primo giudice secondo la quale vi e prova convincente in atti degli accordi conclusi tra le parti sulla misura del compenso, ed e’ pacifico che tali importi convenuti sono stati regolarmente corrisposti agli odierni appellanti .
Quanto all’affermata violazione della inderogabilita’ dei minimi tariffari, trattandosi di pratiche tutte di importo superiore ai trenta milioni di lire, la Corte di appello osservava, in primo luogo, che tale principio, affermato in materia di onorari per prestazioni giudiziali, non era applicabile anche alle prestazioni stragiudiziali (Cass. 7550 del 1987) e, in secondo luogo, che lo Studio professionale non aveva fornito la prova, della quale era onerato, del valore delle singole pratiche, a fronte della prova contraria fornita dall’Ente (sulla base di un tabulato analitico delle pratiche), dalla quale risultava che l’importo di trenta milioni di lire per i mutui da erogare riguardava solo alcune pratiche e costituiva l’importo massimo richiesto.
3. Impugnano tale decisione i ricorrenti, che formulano quattro motivi e depositano memoria. Resiste con controricorso la parte intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso e’ infondato e va rigettato in tutti i suoi motivi per quanto di seguito si chiarisce con riguardo a ciascun motivo.
1. Col primo motivo di ricorso si deduce: Violazione e falsa applicazione articoli 2721, 2722, 2723 e 2724 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3) .
Viene formulato il seguente quesito: Se erri il giudice che – in caso di contrasto fra i contraenti. – sullo effettivo contenuto di un contratto fra loro stipulato – ritenga che l’effettiva volonta’ degli stessi possa esser individuata con il ricorso alle presunzioni anche nei casi in cui – come nel caso di specie – non e’ consentito il ricorso alla prova testimoniale .
1.1 – Il motivo e’ infondato. In primo luogo e’ inconferente il richiamo agli articoli 2722 e 2723 c.c., posto che non si verte in materia di patti aggiunti o contrari al documento. E’ applicabile, invece, l’articolo 2721 c.c., di cui la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del secondo comma, che consente una deroga al principio di cui al primo comma dello stesso articolo, deroga che e’ stata ampiamente motivata dalla Corte locale, in conformita’ ai principi applicati al riguardo da questa Corte.
2 – Col secondo motivo di ricorso si deduce: Violazione dell’articolo 116 c.p.c. – violazione Legge n. 794 del 1942, articolo 24 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 3 .
Vengono formulati i seguenti quesiti: 1. Se erri il giudice che ritenga che in materia stragiudiziale il professionista possa legittimamente pattuire un compenso in deroga ai minimi tariffari (senza la preventiva autorizzazione ed approvazione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza); 2. Se, in mancanza di una preventiva autorizzazione ed approvazione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza, una convenzione in deroga ai minimi tariffari di legge, in materia stragiudiziale, debba ritenersi illegittima, e, percio’, priva di effetti; 3. Se l’esistenza di una convenzione verbale in deroga ai minimi tariffari di legge in materia stragiudiziale sia, del pari, illegittima, e di conseguenza, inefficace; 4. – Se in materia di tariffe stragiudiziali – a fronte della richiesta dei soli minimi inderogabili – incontestabilmente non corrisposti – non sussista alcuna necessita’ che l’insufficienza della tariffa debba essere comprovata attraverso la dimostrazione dell’impegno profuso nella prestazione professionale .
2.1 Il motivo e’ inammissibile e comunque infondato. Tutta l’argomentazione del motivo e’ fondata sulla violazione dei minimi tariffari, che richiede, per essere valutata, la prova in ordine al valore di ogni singola prestazione e alla prestazione effettuata, aspetto questo sul quale la Corte locale si e’ soffermata specificamente, affermando che tale prova e’ mancata, fornendo al riguardo anche una adeguata motivazione (vedi sul punto anche il quarto motivo).
3. – Col terzo motivo di ricorso si deduce: Violazione articolo 1322 c.c. (articolo 360, comma 3) . Viene formulato il seguente quesito: se erri la Corte di Appello che ha fatto ricorso alle presunzioni in una materia in cui evidentemente vige il divieto di ricorso alla prova testimoniale non potendosi definire principio di prova scritta l’espressione, che si presta a piu’ significati compenso contenuto in una missiva proveniente dal ricorrente .
3.1 Il motivo e’ inammissibile per carenza di autosufficienza, nonche’ infondato. La censura si articola sul presupposto della errata interpretazione data dalla Corte d’appello alla richiesta di aumento del compenso formulata dallo studio professionale nell’aprile del 1982. Tale documento non e’ riportato in violazione del principio dell’autosufficienza e cio’ non consente di valutare l’argomentazione prospettata dai ricorrenti, posto che la Corte territoriale ha invece ampiamente chiarito il fondamento della sua decisione, ancorandola anche a tale documento, valutato nel suo complesso come richiesta di aumento del compenso da 50.000 a lire 80.000, cui fece seguito poi un adeguamento delle richieste economiche da parte degli odierni ricorrenti, seguite dai relativi pagamenti nel medesimo importo effettuati dall’Ente.
4 – Col quarto motivo di ricorso si deduce: Difetto di motivazione (articolo 360, comma 5) . Si afferma che sussiste un vistoso difetto di motivazione non avendo il giudice esplicitato in alcuna maniera perche’ non abbia ritenuto che l’onere di allegazione dei fatti integrativi dell’effettivo impegno professionale profuso risultava, ictu oculi dalla produzione diparte e come nel decreto ingiuntivo vi fosse stata una specificazione per ciascun parere . Si osserva che il giudice di secondo grado essendosi limitato a riprodurre l’immotivata statuizione su cui si fonda la sentenza di primo grado, aggiungendovi come si e’ visto argomentazioni in palese contrasto con i predetti principi di diritto (motivi 1 e 2) merita in pieno la censura di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 5, per la quale come e’ noto, secondo codesta Suprema Corte, e inequivoco testo di legge non va formulato alcun quesito . Si rileva che La decisione di primo grado e’ del tutto priva di motivazione giacche’ – il primo giudice non ha voluto vedere la copiosa documentazione prodotta e … si e’ rifugiato nell’argomentazione della mancata specificazione delle ragioni che rendeva per ciascuno dei 292 pareri resi inadeguato il compenso di lire 80.000, asseritamele pattuito .
4.1 Anche tale motivo e’ inammissibile e comunque infondato. Inammissibile perche’ deducendosi vizi di motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, doveva essere formulato il necessario momento di sintesi che manca del tutto. La censura prospettata sotto profilo dell’omessa motivazione doveva essere invece articolata con riguardo all’articolo 360 c.p.c., n. 4, e comunque la motivazione della sentenza impugnata e’ adeguata e sufficiente, posto che la Corte ha chiarito che lo Studio professionale avrebbe dovuto provare per ciascun parere il valore della pratica trattata ai fini di poter determinare eventualmente la violazione dei minimi tariffari. La parte si era invece limitata ad una indicazione generica di un importo per tutte le pratiche pari o superiore ai 30 milioni di lire, senza alcuna ulteriore specificazione, a fronte della prova fornita dall’Ente circa il valore delle singole pratiche anche sulla base di un analitico tabulato delle stesse. Ne’ puo’ supplire tale genericita’, che integra difetto di autosufficienza, l’aver dedotto, anche in memoria, che per ogni parere era stato indicato specificamente il valore, in mancanza di diversa analitica indicazione e a fronte della diversa affermazione in fatto della Corte locale.
5. Le spese seguono la soccombenza.
P.T.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 3.000,00 (tremila) euro per compensi e 200,00 (duecento) euro per spese, oltre accessori di legge.

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