cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza  21 febbraio 2014, n. 4196 

Svolgimento del processo

Con atto di citazione inviato per la notificazione ex art. 149 c.p.c. il 7 luglio 1998 l’Avv.to M.D. evocava, dinanzi al Tribunale di Salerno, T.A. nella qualità di unica erede del notaio T.G. , esponendo che nell’anno 1983 quest’ultimo gli aveva conferito incarico, anche per conto della figlia, per intraprendere causa contro il Comune di Sarno per l’esproprio di un fondo di sua proprietà, aggiungendo di avere pattuito verbalmente con il notaio T. , quanto all’entità del compenso, che gli sarebbero stati riconosciuti onorari secondo i massimi tariffari vigenti alla data della definizione della causa ovvero dell’effettivo pagamento, oltre alla corresponsione di un congruo “palmario” in considerazione dei risultati ottenuti; precisava che le ragioni del notaio erano state ampiamente riconosciute dai giudici di merito, condannato il Comune di Sarno al pagamento di elevato risarcimento del danno, intimato precetto per L. 665.000.000, ma che a seguito del decesso dell’originario cliente, i rapporti proseguivano con la sua erede e con il coniuge della stessa, Avv.to G.P. , i quali pur confermando l’impegno, versavano solo ulteriori acconti sul dovuto ed anzi il G. nel versare altro acconto, lo convinceva a rilasciare alla moglie, per motivi fiscali, la fattura n. 41/1995 “a saldo” e non “in acconto”. Tanto premesso, chiedeva la condanna della convenuta al pagamento delle sue spettanze professionali, determinate in L. 123.116.908, oltre accessori, da cui andavano detratti gli acconti versati, oltre a dichiararsi priva di efficacia ai fini del giudizio la fattura n. 41/1995 rilasciata con la causale “a saldo” anziché “in conto”.
Nel medesimo giudizio veniva convenuto anche l’Avv.to G.P. per sentirlo condannare al pagamento della somma sopra illustrata, in solido con la predetta convenuta, per il comportamento tenuto nei confronti dell’attore, accessori dovuti quanto meno dall’11.9.1995, nonché alla restituzione della copia della scrittura privata redatta in pari data, consegnata al medesimo convenuto per sottoporla all’esame dell’Avv.to V. .
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti, i quali – con separate comparse – eccepivano preliminarmente l’incompetenza per territorio (competente il Tribunale di Napoli), nel merito, deducevano di non conoscere il tenore dell’accordo intercorso con il dante causa della T. , versati comunque dalla stessa L. 40.000.000, oltre ad assegno di L. 6.068.000 somma di cui alla fattura n. 41/1995, emessa effettivamente a saldo transattivo, spiegata riconvenzionale dalla T. per ottenere declaratoria di invalidità di eventuale accordo di palmario che fosse risultato provato, nonché la condanna alla restituzione di quanto versato per L. 70.806.000, con determinazione giudiziale del compenso, il Tribunale adito, espletata istruttoria, rigettava la domanda attorea.
In virtù di rituale appello interposto dall’Avv.to M. , con il quale lamentava che la decisione del giudice di prime cure avesse attribuito alla fattura n. (…) valenza probatoria di saldo del compenso, non riconosciuto il compenso per il pattuito palmario, la Corte di Appello di Salerno, nella resistenza degli appellati, rigettava l’appello.
A sostegno dell’adottata sentenza la corte territoriale evidenziava che il thema decidendum concerneva il c.d. palmario e la valenza probatoria della fattura n. (omissis) emessa per L. 6.068.000 laddove si leggeva, con scrittura autografa, “a saldo transattivo di tutte le attività professionali espletate fino ad oggi nella vertenza promossa da T.A. e T.G. c/ il Comune di Sarno”. Proseguiva la Corte di merito che le difese dell’appellante erano nel senso che si sarebbe trattato di dichiarazione affetta da simulazione assoluta, pattuito con il notaio T. anche un “palmario” e per comprovare le sue difese aveva articolato mezzi istruttori, in appello, anche giuramento decisorio deferito alla convenuta T. . Al riguardo il giudice del gravame rilevava che per la pattuizione di un supplemento di compenso, in aggiunta a quello previsto dalle tariffe, in caso di esito favorevole della lite, occorreva la forma scritta, con la conseguenza che doveva essere ritenuta inammissibile l’attività istruttoria articolata dal M. , compreso il giuramento decisorio, generica al riguardo la missiva del 9.11.1992 che non faceva il minimo accenno all’onorario di risultato.
Aggiungeva che andava condivisa la tesi degli appellati secondo cui l’ulteriore somma versata di L. 40.000.000 faceva seguito alla proposta di accordo elaborata dal M. e dell’Avv.to V. nell’agosto del 1995, in forza del quale il primo avrebbe richiesto a saldo altre L. 45.000.000. Né era ammissibile la prova testimoniale della simulazione assoluta della quietanza, ragione per la quale il M. aveva deferito giuramento decisorio alla T. , ma i relativi capitoli non scalfivano minimamente la dichiarazione, non disconosciuta, contenuta nella fattura n. 41/95, non integrando gli estremi del giuramento de ventate e/o de scientia. Del pari era inammissibile la prova testimoniale della simulazione della quietanza, ostandovi il disposto degli artt. 2722 e 2726 c.c., superfluo l’interrogatorio formale dei convenuti che non avevano sollevato sostanziali contestazioni dei fatti.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Salerno ha proposto ricorso per cassazione il M. , articolato formalmente su un unico complessivo motivo, illustrato anche da memoria ex art. 378 c.p.c., al quale hanno resistito la T. ed il G. con separati controricorsi differenziati di violazioni di legge diverse, si concluda con la formulazione di tanti quesiti per quanto sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati (Sez. Unite 9 marzo 2009 n. 5624) – ma anche perché la funzione del quesito, di sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, non può dirsi elusa, quando esso sia formulato per più punti e questi consistano in più proposizioni, intimamente connesse, che, per la loro funzione unitaria, sotto il profilo logico e giuridico, risultino complessivamente idonee, pur sovrapponendosi parzialmente, a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere alla Corte di affermare un principio di diritto contrario a quello posto a base della decisione impugnata (Cass. 6 novembre 2008 n. 26737).
L’eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata, salvo quanto si andrà a precisare di seguito con riferimento ai singoli quesiti.
Con un primo profilo il ricorrente denuncia violazione dell’ari 112 in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza sul punto, anche in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 132 n. 4 e 161 c.p.c., per non avere l’originario attore chiesto alcun palmario, diversamente rispetto a quanto addotto in sentenza, ma agito per ottenere la condanna della convenuta al pagamento degli onorari massimi tenuto conto del valore della causa e della professionalità profusa, così come pattuito dal dante causa della T. nel 1983. Prosegue il ricorrente affermando che il thema decidendum del giudizio di secondo grado è delimitato dai motivi di impugnazione e poiché non era stato gravato da appello l’esistenza di un accordo intervenuto fra il notaio T. e l’Avv.to M. per il pagamento delle spettanze di quest’ultimo, avendo invece il giudice del gravame pronunciato sul medesimo punto ha violato il disposto degli artt. 112 e 324 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4, ma anche ai nn. 3 e 5. A conclusione dell’illustrato motivo vengono posti i seguenti quesiti di diritto:
“Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se è affetta da nullità per vizio di ultrapetizione o extrapetizione la sentenza che pronuncia sull’esistenza ed ammissibilità di un c.d. palmario quanto invece l’azione aveva ad oggetto la richiesta di riconoscimento degli onorari massimi in relazione al valore della causa trattata”.
“Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se viola il disposto dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. ed il disposto dell’art. 324 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4, oltre che nn. 3 e 5 c.p.c. la sentenza che estende il proprio esame a parti della decisione di primo grado che non sono state specificamente censurate con l’atto di appello e che sono pertanto state coperte dal giudicato”.
Il motivo è da ritenere inammissibile.
La corte di appello ha escluso la fondatezza della pretesa creditoria dell’Avv.to M. rilevando che dalla documentazione prodotta da T.A. , in particolare dalla copia della fattura n. 41 dell’11.9.1995, recante in calce la firma autografa del professionista, con annotazione, altrettanto autografa, del seguente tenore “a saldo transattivo di tutte le attività professionali espletate ad oggi nella vertenza promossa da T.A. e T.G. c/ il Comune di Sarno”, emergeva il saldo di quanto dovuto dal momento che la T. nell’occasione aveva incontestabilmente versato al M. l’ulteriore somma di L. 40.000.000, dando seguito alla proposta di accordo elaborata dal M. e dal V. nell’agosto del 1995, ampiamente satisfattiva dell’attività espletata. Ha soggiunto il giudice a quo che era illegittima la richiesta di L. 123.116.908 ed inammissibile l’attività istruttoria sollecitata dal ricorrente, sia quella testimoniale, che sarebbe consistita nella prova della simulazione assoluta della quietanza, sia per quanto concerneva il deferito giuramento, i cui capitoli non scalfivano minimamente la scrittura privata non disconosciuta, così qualificata sotto il profilo probatorio la fattura n. (omissis) .
La motivazione attraverso la quale la corte del merito è pervenuta a una conclusione negativa circa la sussistenza dell’obbligazione di cui si assume l’inadempimento è congrua e priva di errori logici e/o giuridici, specie laddove ha qualificato la fattura n. (OMISSIS) quale scrittura privata non disconosciuta, giacché forniva elementi probatori dell’avvenuto adempimento dell’obbligazione pretesa, con riconducibilità delle somme esborsate dalla debitrice – di cui alla testimonianza del notaio Scognamiglio – al rapporto in questione.
Tale affermazione del giudice a quo non risulta criticata da alcun argomento esposto nel motivo, che incentra la doglianza sostanzialmente sull’esistenza ed ammissibilità di un c.d. palmario, circostanza peraltro ritenuta irrilevante dalla Corte distrettuale, e tanto basta a ritenere la censura inammissibile.
Con il secondo profilo di censura dell’unico motivo di ricorso, il M. denuncia l’omesso esame di ben cinque specifici motivi di appello, sia sotto il profilo del vizio di motivazione sia (e soprattutto) in relazione alla violazione dell’art. 112 c.p.c. con riferimento all’art. 360 n. 4 c.p.c., essendosi la corte distrettuale limitata a condividere le motivazioni del giudice unico, senza alcun riferimento e/o confutazione ai motivi di gravame, argomentando in poche righe il rigetto del giuramento decisorio ed ha ritenuto inammissibile la prova testimoniale della simulazione, adducendo che vi ostava il disposto degli artt. 2722 e 2726 c.c. e la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite (n. 6877 del 2002). Ad avviso del ricorrente la pronuncia non soddisfa assolutamente l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 132 n. 4 c.p.c, dall’art. 118 disp.att.c.p.c. e prima ancora dall’art. 111 Cost. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se la sentenza del giudice di gravame che abbia rigettato i motivi di appello limitandosi a condividere semplicemente le motivazioni del giudice di primo grado ed evitando così di confutare esplicitamente le tesi dell’appellante non accolte, violi non solo l’obbligo della motivazione imposto dall’art. 132 n. 4 c.p.c., art. 118 disp.att.c.p.c., e, prima ancora, dall’art. 111 della Costituzione; ma soprattutto il disposto dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 e n. 5 c.p.c.”.
Il quesito relativo alla seconda parte dell’unico motivo concernente violazioni di norme di diritto, pecca di genericità e si risolve in enunciazioni di carattere generale ed astratto, non contenendo alcun riferimento al caso concreto. In tal modo, la Corte di legittimità si trova nell’impossibilità di enunciare uno o più principi di diritto che diano soluzione allo stesso caso concreto (Cass. ord. 24 luglio 2008 n. 20409; Cass. SS.UU. ord. 5 febbraio 2008 n. 2658; Cass. SS.UU. 5 gennaio 2007 n. 36, e successive conformi). Né il quesito, correttamente posto, può essere desunto dal contenuto e dall’illustrazione del motivo che lo precede, e neppure può essere integrato il primo con il secondo.
Diversamente, si avrebbe la sostanziale abrogazione della norma dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis nella specie (Sez. Un. 11.3.2008, n. 6420 e successive conformi). La relativa censura è, quindi, inammissibile.
Del pari è inammissibile il motivo laddove fa valere vizi motivazionali.
Nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) l’illustrazione del mezzo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Sotto questo profilo, è stato più volte affermato che nella norma dell’art. 366 bis c.p.c., nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al precedente art. 360 c.p.c., n. 5, deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata (momento di sintesi); sicché, non è possibile ritenerlo rispettato quando soltanto la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è, conseguentemente, inidonea a sorreggere la decisione (Cass. 18 luglio 2007 n. 16002; Cass. 22 febbraio 2008 n. 4646; Cass. 25 febbraio 2008 n. 4719).
Orbene la doglianza indica il fatto controverso rispetto al quale si assume il vizio di motivazione, ma non specifica quali siano le ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione.
Anche detta censura, pertanto, non può trovare ingresso.
La terza censura, in cui è articolato l’unico motivo, ascrive alla sentenza impugnata violazione di norme, nonché omessa motivazione che integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, con conseguente error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., quanto alla linea subordinata assunta dall’appellante con riferimento alla quietanza a saldo di cui alla fattura n. (omissis) , laddove aveva chiesto dichiararsi la nullità della fattura sul punto e la condanna della convenuta al pagamento delle spese, diritti ed onorati minimi inderogabili, per essere le fatture emesse relative a soli acconti ricevuti per la fase innanzi al tribunale, ma non anche per la successiva fase del giudizio di appello e a quella esecutiva ed amministrativa. In altri termini, i giudici del merito avrebbero fatto mal governo del principio affermato dalle SS.UU. (sentenza n. 6877 del 2002), applicandolo solo in danno del ricorrente, negando la prova testimoniale e per interrogatorio formale tesa a dimostrare la simulazione della fattura, e nello stesso tempo valutato (con esito favorevole) le prove articolate ed assunte a sostegno della tesi difensiva della T. , secondo la quale, dedotta sempre la simulazione della fattura n. (…), la convenuta avrebbe nell’occasione corrisposto non già L. 5.000.000, oltre ad oneri fiscali, ma quella superiore di L. 45.000.000. Prosegue il motivo illustrando le voci del compenso che spetterebbero al professionista per avere curato la causa avanti alla corte di appello e nelle fasi successive. Aggiunge il ricorrente che la corte distrettuale aveva omesso qualsiasi esame e confutazione degli articolati motivi di gravame in relazione all’art. 1417 c.c. e riporta all’uopo il tenore dei motivi di gravame con i quali si insiste sostanzialmente sull’ammissibilità delle prove articolate per illiceità del contratto dissimulato in violazione delle leggi fiscali, nonché per essere circostanza – la simulazione – riconosciuta da entrambe le parti.
A corollario del mezzo vengono formulati plurimi quesiti di diritto: “Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se, nell’ipotesi in cui il giudice di merito intenda applicare il disposto degli artt. 2722 e 2726 c.c. ed
il pertinente principio di diritto sancito con la sentenza della Cassazione a SS. UU. n. 6877/02, in base al quale è inammissibile la prova testimoniale volta a provare la simulazione di una quietanza di pagamento, lo deve fare nei confronti di tutte le parti in causa e non solo nei confronti di alcuna di esse, violando altrimenti i principi fondamentali del contraddittorio e della parità della difesa, evincibili anche dagli artt. 101 e 115 c.p.c. e da altre disposizioni di legge in relazione all’art. 360n. 3 c.p.c.”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se l’ammissione e la conseguente assunzione di un mezzo di prova inammissibile rileva sul piano della formazione del convincimento del giudice e determina l’impossibilità per il giudice del gravame di tenerne conto ai fini del giudizio”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la mancata pronuncia da parte del giudice del gravame su una censura mossa al giudice di primo grado e, comunque, su una domanda subordinata configuri il vizio di omessa pronuncia ed il conseguente error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la Corte di appello di Salerno, per avere omesso ogni esame e pronuncia sulla subordinata domanda dell’appellante nei termini su trascritti, abbia violato le dette disposizioni, nonché, conseguentemente, il disposto dell’art. 24 della legge 13 giugno 1942 n. 794, attesa la su dimostrata fondatezza della stessa”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la Corte di Appello – in virtù del disposto dell’art. 1417 c.c. – doveva ritenere che il principio di cui alla sentenza n. 6877/02 delle SS. UU. della Cassazione era applicabile soltanto in tema di negozio dissimulato lecito e non anche in questa fattispecie, atteso che sia l’attore che i convenuti, pur secondo opposti punti di vista, avevano chiesto prova testi finalizzata a dimostrare l’illiceità di un accordo dissimulato, insito nella fattura n. 41/95 in violazione delle leggi fiscali, come riconosciuto anche dal Tribunale”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la Corte di appello nel non avere ammesso la prova testimoniale così come richiesta dalla parte attrice ed articolata alle lettere m-n-o-p-q-s-t-u-v-z, integralmente trascritta al capo n. 39 del FATTO, abbia violato: 1) il disposto dell’art. 1417 c.c., sia in relazione al n. 3 che al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nonché il disposto del secondo comma dell’art. 2697 c.c., per effetto di quanto pure innanzi censurato ed evidenziato a tale proposito (capo 1 lett. c) e d); 2) il disposto dell’art. 115 c.p.c. in relazione ai nn. 3 e 5 e per quanto di ragione, n. 4, dell’art. 360 c.p.c., nonché le elementari regole del contraddittorio e del diritto di difesa, che deve essere paritario per tutte le parti in causa”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se perla regola generale dell’art. 115 c.p.c. il Giudice deve porre a fondamento della sua decisione le prove proposte dalle parti, essendo il detto articolo diretto ad assicurare il rispetto dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio, per cui non gli è consentito di non prendere in considerazione le richieste istruttorie e deduzioni concernenti circostanze, che ove accertate, avessero potuto indurlo ad una diversa decisione, risolvendosi, in tal caso, il suo comportamento, nel vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia”.
La doglianza – valutata nella sua complessità – è inammissibile. Con congrua motivazione, esente da vizi logici e da mende giuridiche, la Corte di appello ha rilevato: che la quietanza “a saldo transattivo” costituiva prova della corresponsione del compenso per tutte le attività espletate nella vertenza contro il Comune di Sarno; che la tesi della simulazione assoluta della stessa non trovava alcun riscontro nella scrittura redatta in data 11.9.1995 e predisposta dal M. , per non essere mai stata accettata dalla T. ; che in detta ottica andava esaminato l’accordo (questo si valido) raggiunto tra il notaio T. e l’avv.to M. nel 1983, nonché l’intenzione dei convenuti di darvi esecuzione mediante il versamento di altri acconti documentati dalle fatture in atti, fino ad ottenere il rilascio della fattura “a saldo transattivo”; concludeva per l’inammissibilità della prova testimoniale circa la simulazione assoluta della quietanza e l’irrilevanza del deferito giuramento non integrando i relativi capitoli gli estremi del giuramento de ventate e/o de scientia. Tanto precisato, rileva il Collegio che nell’ambito della vicenda sopra descritta la circostanza che la prova del saldo transattivo risultasse anche dal fatto che alla data dell’11.9.1995 la T. aveva versato oltre alla somma indicata nella fattura, l’ulteriore cifra di L. 40.000.000, come affermato dalla Corte distrettuale, costituisce solo un elemento ulteriore di convincimento per dimostrare la natura liberatoria della fattura.
D’altro canto il creditore che abbia rilasciato la quietanza scientemente falsa per attuare l’unilaterale intento di liberare il debitore non potrebbe accedere alla prova di non veridicità oltre i limiti fissati dall’art. 2732 c.c., e nei casi in cui la non veridicità della quietanza non corrisponde ad una determinazione unilaterale del creditore quietanzante, ma riflette una programmazione contrattuale, la domanda di invalidazione soggiacerebbe al regime probatorio dell’azione di simulazione, per cui si applicherà per analogia il disposto dell’art. 1417 c.c. (in virtù del rinvio dell’art. 1414, ultimo comma, c.c.), cosicché la prova per testimoni è ammissibile senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi, ovvero qualora sia proposta dalle parti, ma con lo scopo di far valere l’illiceità del contratto avente ad oggetto il rilascio della dichiarazione non rispondente al vero.
Osserva il Collegio che tipicamente intesa, la quietanza è il documento cui si riferisce l’art. 1199 c.c.: sotto la rubrica “diritto del debitore alla quietanza”, esso obbliga “il creditore che riceve il pagamento” a “rilasciare quietanza”, su richiesta e a spese del debitore. In disparte la quietanza “con imputazione”, tipizzata dall’art. 1195 c.c., per cui si distinguono figure di quietanza variamente atipiche, non soltanto per addizione contenutistica, ma anche per alterazione funzionale: quietanza “liberatoria” o “a saldo”, ove, alla dichiarazione di ricevuto pagamento, il creditore aggiunge una dichiarazione di liberazione del debitore, una dichiarazione di avvenuto saldo, “a stralcio”, “nulla più a pretendere”, e simili; quietanza “anticipata”, ove la dichiarazione di ricevuto pagamento è sottoposta all’implicita condizione che il pagamento stesso avvenga in un determinato futuro, nella presupposizione dell’evento, comune alle parti del rapporto obbligatorio; quietanza “di favore” o “di comodo”, ove la dichiarazione di ricevuto pagamento, scientemente non veridica, è frutto di un accordo volto a creare un’apparenza di solutio (ad esempio, per consentire al debitore di vantare solvibilità presso terzi od esercitare il regresso verso un coobbligato).
La pluralità di significati che può assumere il termine “quietanza” e la riferibilità del concetto a fattispecie di diversa natura giuridica costituiscono oggetto di diatriba quanto al regime di impugnazione e di prova. La Corte di legittimità ha aperto un ventaglio di soluzioni per una casistica eterogenea, che annovera, oltre alla quietanza tipica, fattispecie nelle quali la purezza della dichiarazione di scienza viene sacrificata in nome di finalità ulteriori.
Per la quietanza tipica, tuttavia, la definizione confessoria è indiscussa, per cui il creditore che, rilasciando quietanza al debitore, ammette il fatto del ricevuto pagamento rende confessione stragiudiziale alla parte, con piena efficacia probatoria, ai sensi degli artt. 2733 e 2735 c.c., e non può impugnare l’atto se non provando, a norma dell’art. 2732 c.c., che esso è stato determinato da errore di fatto o da violenza; non gli è sufficiente, quindi, provare l’elemento oggettivo della non veridicità della dichiarazione di ricevuto pagamento, ma occorre che egli provi, altresì, l’elemento soggettivo dello stato di errore o di coartazione che lo determinò al rilascio (Cass. 7 dicembre 2005 n. 26970).
Nella quietanza “a saldo”, la dichiarazione liberatoria, se intesa come ricognizione negativa di debito, implica relevatio ab onere probandi, ai sensi dell’art. 1988 c.c., ovvero, se intesa come rinuncia o transazione, attiva la corrispondente disciplina negoziale.
Circa la simulazione della quietanza, resta da chiarire che nel rapporto interno tra creditore quietanzante e debitore favorito, l’ammissione della prova documentale e l’esclusione della prova testimoniale – l’applicazione, quindi, degli artt. 1417, 2722 e 2726 c.c., anziché dell’art. 2732 c.c., di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite (sent. 13 maggio 2002, n. 6877) – risponde alla logica del c.d. conflitto di prove, non essendovi motivo di estendere alla collisione tra scrittura e scrittura la regola che previene la collisione tra scrittura e testimonianza.
Infine, quanto alla dedotta frode fiscale, si osserva che, secondo costante giurisprudenza (Cass. 5 novembre 1999 n. 12327; Cass. 20 agosto 1987 n. 6970; Cass. 27 ottobre 1984 n. 5515; Cass. 24 ottobre 1981 m. 5571), non è causa di nullità, ma trova sanzione nelle norme fiscali.
Quanto sopra esposto circa la natura satisfattiva della fattura rende superfluo l’esame della questione dedotta con riferimento alla violazione dell’art. 24 della legge n. 794 del 1942.
Per completezza, vale la pena di sottolinearlo, con le critiche in esame il ricorrente mira sostanzialmente ad ottenere da questa Corte un diverso accertamento di fatto circa l’evoluzione del rapporto professionale fra le parti, accertamento questo, che attenendo al merito, non è consentito in sede di legittimità.
La quarta censura – con la quale il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1967 c.c. anche per vizio di motivazione, per non essere stata la ritenuta transazione provata per iscritto – culmina nel seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se, a norma del disposto dell’art. 1967 c.c., la transazione può essere provata per iscritto e se la Corte di appello di Salerno, nella richiamata violazione fattispecie abbia violato il disposto dell’art. 1967 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Il motivo rimane assorbito dal rigetto dei precedenti, stante l’acclarata infondatezza delle censure mosse avverso la ritenuta natura transattiva del documento redatto l’11-9-1995. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dai resistenti nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 4.500,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, per ciascuno dei controricorrenti.

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