Cassazione 15

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 19 febbraio 2016, n. 3258

Ritenuto in fatto

l. — M.C. proponeva impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Roma, del 26 febbraio 2008, con la quale era stata rigettata la sua domanda di condanna della Procter & Gamble s.r.l. al risarcimento dei danni patiti a seguito dell’esplosione di un fustino di candeggine (marca “ACE”), prodotto dalla medesima società convenuta, avvenuta durante il suo normale utilizzo ad opera dell’attrice in data 18 luglio 2003, presso la sua abitazione in Nettuno.
A tal riguardo, il giudice di primo grado aveva ritenuto “insussistente la prova della riconducibilità del fatto ad un difetto del prodotto (anche in esito all’impossibilità per il nominato c.t.u. di procedere all’esame del fustino di candeggina per l’avvenuta sottrazione dello medesimo subito prima dell’inizio delle operazioni del consulente tecnico)”.
2. – L’adita Corte di appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 18 ottobre 2011, rigettava il gravame, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite.
2.1. – La Corte territoriale – premesso che in base al d.P.R. n. 224 del 1988 (applicabile ratione temporis alla fattispecie), configurante un’ipotesi di responsabilità oggettiva del produttore (o importatore), il danneggiato è onerato della prova del danno, del difetto del prodotto e del nesso causale tra danno e difetto (art. 8), mentre spetta al produttore (o importatore) la prova dei fatti idonei ad escludere la propria responsabilità (art. 6) reputava, al pari del primo giudice, che la C. non avesse fornito prova del difetto del prodotto utilizzato.
La Corte di appello evidenziava, infatti, che “la prova espletata in primo grado aveva dimostrato, unicamente, che un fustino ACE era stato riscontrato come rotto durante l’utilizzo che ne aveva fatto (o che ne doveva fare) la sig.ra C.” (e che, a seguito di detta rottura, per la fuoriuscita del liquido la medesima C. era stata “colpita al volto”), ma non vi era «prova che quello specifico prodotto si fosse rotto per un “difetto” di produzione piuttosto che per un semplice fatto accidentale ascrivibile alla danneggiata (per un uso anomalo del contenitore; per una caduta diì una parte del corpo della sig.ra sul contenitore ancora pieno e con il tappo avvitato)».
2.2. – Né, soggiungeva il giudice di secondo grado, la prova della quale era onerata la C. avrebbe potuto essere raggiunta con l’ausilio di una consulenza tecnica «da espletare non sullo specifico “oggetto” del contendere (il fustino ACE che si ruppe il giorno 18 luglio 2003) ma su ipotetici difetti di un prodotto standard da comparare, e valutare come compatibili, con la rottura del contenitore utilizzato dalla appellante».
Ciò non solo perché la c.t.u. non era un mezzo di prova, ma anche perché il consulente non poteva sopperire alla carenze probatorie della parte, là dove – ai fini della responsabilità per prodotto difettoso – la prova “non può essere limitata alla sola dimostrazione di un contatto tra un prodotto ed il consumatore ed ad una generica allegazione di un esito dannoso come conseguenza dell’uso di quel prodotto, dovendo dimostrare quale fosse esattamente il prodotto usato ed il difetto”, ossia, nella specie, il “difetto di quello specifico FUSTINO ACE utilizzato nella giornata del 18 luglio 2003 (ad esempio allegando delle fotografie raffiguranti quel fustino con le rotture di cui hanno fatto cenno i testimoni)”.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre M.C. sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso la Procter & Gamble s.r.1., che ha anche depositato memoria.

Considerato in diritto

1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 8 del d.P.R. n. 224 del 1988 e 2697 cod. civ. in relazione all’art. 5 del medesimo d.P.R. n. 224.
La Corte territoriale avrebbe errato nell’applicare le norme indicate in rubrica, giacché, nonostante essa C. avesse dato prova del danno e del “nesso causale”, ha ritenuto non raggiunta la prova della difettosità del prodotto, assumendone una nozione non rispondente a quella desumibile dall’art. 5 del d.P.R. n. 224 del 1988, ossia di prodotto dal “funzionamento anomalo rispetto ai propri standards”, come dalla stessa giurisprudenza di legittimità evidenziato (Cass. n. 20985 del 2007).
Nella specie, la stessa Corte di appello aveva ritenuto dimostrata, in base alle prove testimoniali, la rottura del fustino ACE nella parte inferiore, che “non è altro che un anomalo funzionamento del prodotto” rispetto alle normali aspettative, altresì incorrendo in illogicità là dove ipotizzava che l’evento dannoso potesse ascriversi ad “uso anomalo” del prodotto.
2. – Con il secondo mezzo è dedotto vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Sarebbe illogica la conclusione dell’assenza di prova di difettosità del prodotto in quanto “una rottura di un flacone di plastica alla base non può che integrare una situazione del tutto anomala di funzionamento di un prodotto”.
3. — Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 61, 191, 115 e 116 cod. proc. civ.
La Corte di appello, in violazione delle disposizioni indicate in rubrica, avrebbe errato a ritenere che le istanze istruttorie formulate da essa C. fossero inidonee a fornire la prova della difettosità del prodotto e, segnatamente, che lo fosse l’espletamento della c.t.u., già ammessa, ma non eseguita per “impossibilità di esaminare il flacone ACE de quo in dipendenza del suo inopinato trafugamento” (avendo il Tribunale disposto di non proseguire più nelle operazioni peritali per loro “inutilità”), mentre lo stesso c.t.u. aveva già predisposto una serie di quesiti da sottoporre alla società convenuta volti ad una “valutazione scientifica delle caratteristiche di serie del flacone ACE”, che avrebbero potuto corroborare il quadro probatorio già raggiunto.
4. – Con il quarto mezzo è dedotto vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Sarebbe insufficiente e contraddittoria la motivazione della Corte territoriale sulla “rilevanza o meno ai fini della decisione di una indagine peritale senza l’esame del particolare flacone ACE oggetto di lite”.
5. – I motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.
5.1. – Questa Corte ha già affermato (tra le altre, Cass., 29 maggio 2013, n. 13458 e i precedenti ivi richiamati) che la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto.
Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato – ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (trasfuso nell’art. 120 del cd. “codice del consumo”) – la prova specifica del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno, ciò rappresentando un prerequisito della responsabilità stessa, con funzione delimitativa dell’ambito di applicabilità di essa.
Quanto, poi, alla difettosità del prodotto, essa si correla al concetto di “sicurezza”, nel senso che è difettoso – ai sensi dell’art. art. 5 del d.P.R. n. 224 del 1988 (oggi trasfuso nell’art. 117 Codice del Consumo) — quel prodotto che non offra la sicurezza che ci si può legittimamente attendere in relazione al modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, alla sua presentazione, alle sue caratteristiche palesi alle istruzioni o alle avvertenze fornite, all’uso per il quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato, e ai comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere, al tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.
E’ stato, quindi, precisato (cfr. ancora Cass. n. 13458 del 2013, cit.) che il concetto di difetto così assunto è “sostanzialmente riconducibile al difetto di fabbricazione ovvero alle ipotesi … dell’assenza o carenza di istruzioni ed è strettamente connesso al concetto di sicurezza”. Per cui, anche assumendo come parametro integrativo di riferimento la nozione di prodotto “sicuro” contenuta nella disciplina sulla sicurezza generale dei prodotti (successiva ai fatti di cui si controverte) di cui al d.lgs. n. 172 del 2004, ora riprodotta nell’art. 103 Codice del consumo, “il livello di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve, perciò, considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo, piuttosto, farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall’utenza in relazione alle circostanze specificamente indicate dall’art. 5 sopra cit. o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali, ovviamente, possono e debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia”.
Si è, dunque, puntualizzato che “il danno non prova indirettamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una più indefinita pericolosità del prodotto di per sé insufficiente per istituire la responsabilità del produttore, se non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia” (così ancora Cass. n. 13458 del 2013, con riferimento a Cass. 13 dicembre 2010, n. 25116).
Di talché, “sebbene la prova della difettosità di un prodotto possa basarsi su presunzioni semplici, non costituisce corretta inferenza logica ritenere che il danno subito dall’utilizzatore di un prodotto sia l’inequivoco elemento di prova indiretta del carattere difettoso di quest’ultimo, secondo una sequenza deduttiva che, sul presupposto della difettosità di ogni prodotto che presenti un’attitudine a produrre danno, tragga la certezza dell’esistenza del difetto dalla mera circostanza che il danno è temporalmente conseguito all’utilizzazione del prodotto stesso” (sempre Cass. n. 13458 del 2013, cit.).
5.2. – Nell’alveo dei rammentati principi giuridici della materia si è mantenuta la sentenza della Corte capitolina (cfr. sintesi della motivazione ai §§ 2.1. e 2.2. del “Ritenuto in fatto” che precede, alla quale si rinvia integralmente), la cui ratio decidendi – lungi dal contrastare il concetto di difettosità del prodotto innanzi indicato, nonché dall’essere effettivamente attinta dalla doglianza che postula, contrariamente all’accertamento del giudice del gravame, esser stata raggiunta la prova del nesso causale tra difetto e danno – piuttosto si snoda, tramite un argomentare logico-giuridico che è. in linea con le coordinate sopra evidenziate, proprio sul piano della rilevata carenza probatoria in ordine al “difetto” presente in quel determinato prodotto utilizzato dalla C..
Non risulta, quindi, scalfita dalle doglianze della ricorrente la valutazione — spettante soltanto al giudice del merito e, nella specie, sviluppatasi in consonanza con i criteri di inferenza logica evidenziati dalla più volte citata Cass. n. 13458 del 2013 e, dunque, senza potersi attribuire rilievo dirimente all’esistenza di un danno seguito all’utilizzazione del prodotto — sull’assenza di una prova presuntiva favorevole all’attrice, non integrando gli estremi degli indizi precisi, gravi e concordanti il mero riscontro testimoniale della rottura, in un certo modo, del flacone di candeggina, insufficiente a poter far ritenere la difettosità del prodotto in assenza di ulteriori elementi convergenti in tal senso e sull’uso effettivamente fattone dello stesso da parte della danneggiata dal momento dell’acquisto.
Del pari esente da vizi logici e giuridici è la decisione operata, in forza della discrezionalità a tal riguardo spettante al giudice del merito, dalla Corte territoriale di non dar seguito alla c.t.u. richiesta dalla C. (cfr., segnatamente, § 2.2. del “Ritenuto in fatto” che precede, cui si rinvia), palesandosi congrua la motivazione che la sorregge (sul sindacato in tale prospettiva cfr., tra le altre, Cass., 3 gennaio 2011, n. 72), giacché valorizzante, precipuamente, l’impossibilità di poter effettuare gli accertamenti tecnici proprio sul prodotto che si assumeva difettoso e, dunque, in assenza di dimostrazione di “quale fosse esattamente il prodotto usato ed il difetto”, così anche da evitare una consulenza meramente esplorativa, nonché di sollevare la parte dall’onere di prova su di essa gravante.
6. – Il ricorso va, dunque, rigettato e la ricorrente condannata, ai sensi dell’art. 385, primo comma, cod. proc. civ., al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in favore della società controricorrente, in complessivi euro 10.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

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