Intercettazioni

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 18 giugno 2014, n. 26323 

 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENTILE Mario – Presidente –
Dott. IANNELLI Enzo – Consigliere –
Dott. GALLO Domenico – Consigliere –
Dott. RAGO Geppino – rel. Consigliere –
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il tribunale di Bari;
avverso l’ordinanza pronunciata il 26/02/2014 dal Tribunale del Riesame di Bari;
nei confronti di:
C.L. nato il (OMISSIS);
Visti gli atti, l’ordinanza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Giuseppe Volpe che ha concluso per l’inammissibilità.
 

Svolgimento del processo

 

1. Con ordinanza del 26/02/2014, il Tribunale del Riesame di Bari annullava l’ordinanza con la quale, in data 31/01/2014, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bari aveva applicato a C.L. la misura degli arresti domiciliari in quanto indagato per i reati di tentata estorsione continuata ai danni di S.G. (moglie del predetto C.), crollo di costruzione e detenzione e porto di materiale esplodente ad alto potenziale offensivo.

Il tribunale, pur ritenendo la sussistenza, a carico dell’indagato, di indizi di colpevolezza, tuttavia non riteneva che fossero gravi e quindi tali da giustificare l’emissione di una misura cautelare.

In particolare, il tribunale dichiarava l’inutilizzabilità di una prova decisiva e cioè di un colloquio intercettato nell’abitacolo dell’autovettura del C., nel corso del quale questi, parlando con l’avv.to R.M., in pratica, gli confessava di essere stato lui a commettere i fatti per cui era indagato e cioè di essere stato lui, al fine di convincere la moglie, dalla quale stava separandosi, a sottostare alle sue pretese, ad avere effettuato “una botta”.

Il tribunale, infatti, rilevava che quella intercettazione non era utilizzabile ex art. 103 c.p.p., comma 5 – art. 271 c.p.p., in quanto il C. e l’avv.to R., in quell’occasione, stavano “parlando in tutta evidenza della vicenda processuale per la quale il legale era difensore del C.”.

2. Avverso la suddetta ordinanza, il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Foggia ha proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione dell’art. 103 c.p.p., e l’illogicità della motivazione in quanto, “nessuna delle frasi e dichiarazioni pronunciate dal R. rappresenta l’esercizio dell’attività difensionale esercitabile in astratto da una legale:

il dialogo rectius il monologo del C. è il racconto unilaterale dell’indagato in cui partecipa l’amico avvocato R., di tutte le attività da lui poste in essere, alcune delle quali di natura criminosa, dirette a convincere il coniuge ad accettare le sue condizione nella spartizione del patrimonio;

il difensore, da parte sua, si limita ad ascoltare passivamente il C. ed in alcuni passaggi critica i pregressi accordi stipulati all’inizio della separazione;

il difensore non da alcun consiglio, non programma alcuna strategia difensiva, non chiede il consenso a svolgere alcuna attività particolare e non fa riferimento alcuna norma e/o orientamento giurisprudenziale in tema di separazione;

Il R. si limita ad ascoltare la strategia autonomamente intrapresa dal C. e di fatto integrante la consumazione dei delitti contestati.

Anche il contenuto delle ultime battute che si scambiano i due dimostra quanto fin ora detto.

Il C. domanda all’amico avvocato se sta immischiato nelle aste giudiziarie e questi risponde dapprima azzittendolo e poi vantandosi di qualche affare che è riuscito a concludere: ebbene nessuna attinenza rivestono tali argomenti con la causa di separazione del C. e con l’attività che il R. ha potuto porre in essere nell’esercizio del suo mandato difensivo ….

la causa della conoscenza dei fatti l’avere messo la bomba, l’avere agito per convincere la moglie, la confessata estorsione non era connessa alla circostanza che R.M. rivestisse la qualifica di avvocato: R. non offre alcun consiglio professionale all’amico/cliente. R. è un interlocutore passivo: il solo fatto che i reati confessati dal C. si vanno ad inserire nella vicenda della separazione e delle modalità di divisione del patrimonio non è un elemento idoneo a caratterizzarli come dialoghi attinenti alla funzione esercitata. E’ inesistente qualunque collegamento con il mandato difensivo del R. nella causa civile”.

 

Motivi della decisione

 

1. In punto di diritto, va rammentato che la ratio del divieto di intercettazioni di conversazioni di cui all’art. 103 c.p.p., va rinvenuta nella tutela dell’esercizio della funzione difensiva e, quindi, di un diritto costituzionalmente protetto: da qui il divieto di utilizzabilità previsto dal combinato disposto dell’art. 103 c.p.p., comma 7, e art. 271 c.p.p..

Di conseguenza, i requisiti perchè possa essere fatta valere la suddetta inutilizzabilità è necessario che il difensore venga a conoscenza dei fatti a causa dell’esercizio delle funzioni difensive o della propria professione (Cass. 17979/2013 riv 255516) e sempre che attengano alla funzione esercitata (SSUU 25/1993 riv 195628).

Pertanto, poichè “il divieto in questione non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica” (SSUU cit.), a contrario, il divieto in esame non è invocabile:

a) se la conversazione non sia pertinente all’attività professionale svolta: Cass. 2951/2007 riv 238441.

b) se la conversazione integra essa stessa un’ipotesi di reato: Cass. 35656/2003 riv 226659.

3. La motivazione con la quale il tribunale ha ritenuto l’inutilizzabilità della conversazione intercettata, è la seguente:

“non possa essere utilizzata quella decisiva del dialogo intervenuto tra il C. e l’avv. R..

Ciò lo si può ritenere anche e soprattutto ove si legga per esteso la conversazione, peraltro correttamente sintetizzata dal P.M. nella propria richiesta originaria e nella memoria integrativa prodotta in udienza. I due interlocutori, in tale occasione, parlavano senza dubbio alcuno, ricostruendone i momenti, della pratica di separazione in atto tra l’indagato e S.G., tanto che alle rimostranze del primo circa la situazione che si era venuta a creare a seguito del suo licenziamento, il legale gli faceva notare come il tutto fosse stato originariamente sproporzionato in favore della donna, tanto che lui stesso si era recato dall’avvocato di controparte per trovare l’accordo, ma questa volta paritario. Infatti l’Avv. R. così si esprimeva: …Io glielo avevo detto…

quando la prima volta che sono andato ho detto… N., senti a me… facciamo… trova l’accordo… Digli a quella.., vediamo…

omissis… Perchè non è che vogliamo che… facciamo tutte cose diviso due… omissis… E no… ma pure a me ha detto.., no… ma quella là è casa sua…. Orbene, da una lettura attenta del dialogo, nonchè delle parole usate dal legale, in parte appena richiamate, si coglie come i due stessero parlando in tutta evidenza della vicenda processuale per la quale il legale era difensore del C.. Infatti, non è revocabile in dubbio – e ciò lo si ricava dalle stesse parole della donna quando è stata sentita a s.i.t. oltre che da quanto ammesso dallo stesso P.M. in sede di richiesta cautelare e da quanto ricavabile dagli atti allegati dalla difesa in udienza camerale – che il R. fosse proprio il legale che stava seguendo per conto dell’indagato la causa di separazione tra i due ex coniugi.

Tale dato inequivocabile rende vana la tesi della pubblica accusa che vorrebbe interpretare la conversazione nei termini di uno scambio di opinioni tra amici, perchè non è nè il tono, nè il luogo ove la stessa si stava tenendo (l’auto del C.) che possono qualificare la stessa in termini di scambio amicale anzichè di attività defensionale. E’ evidente, infatti, che in quel preciso momento i due stavano discutendo del contenuto dell’attività defensionale che l’avv. R. stava svolgendo”.

4. La doglianza dedotta dal ricorrente è fondata per le ragioni di seguito indicate.

Il tribunale, ha focalizzato la propria attenzione solo su quest’unica frase pronunciata dall’avv.to R.: “…Io glielo avevo detto… quando la prima volta che sono andato ho detto…

N., senti a me… facciamo… trova l’accordo… Digli a quella.., vediamo… omissis… Perchè non è che vogliamo che…

facciamo tutte cose diviso due… omissis… E no… ma pure a me ha detto.., no… ma quella là è casa sua…”.

Il Tribunale, però, come lamenta il Pubblico Ministero ricorrente, non ha valutato, nella sua globalità il dialogo intercettato e, quindi, in sostanza, non ha chiarito per quali ragioni quel dialogo avesse natura professionale o non fosse, invece, lo sfogo di un soggetto ( C.) che, esacerbato dalla piega che aveva preso la causa di separazione dalla propria moglie, confidava all’amico avvocato, non solo i litigi e le incomprensioni con la moglie ma anche tutti i tentativi per condurla a più ragionevoli pretese, compreso, da ultimo “la botta che l’hai sentita poi ti sei messa d’accordo”.

Non è in discussione, come sostiene il Tribunale “nè il tono, nè il luogo ove la stessa si stava tenendo (l’auto del C.) che possono qualificare la stessa in termini di scambio amicale anzichè di attività defensionale”: quello che, però, è mancata nell’analisi del tribunale è la valutazione se quel colloquio avesse natura professionale e cioè se potesse essere ricondotto nell’ambito del mandato difensivo.

Infatti, non ogni colloquio fra cliente e difensore, può essere qualificato come rientrante nell’ambito del mandato difensivo, ma solo quello che, in considerazione del contenuto complessivo della conversazione, possa far ritenere che l’avvocato, in quell’occasione, abbia svolto il suo tipico ruolo di difensore, ruolo che si esplica, come correttamente rilevato dal ricorrente, in consigli, strategie difensive, richieste di chiarimenti ecc..

E, proprio perchè la fattispecie è singolare, trattandosi di un colloquio intercorso fra soggetti pacificamente legati anche da un rapporto di amicizia o comunque di familiarità sicuramente esulante dal semplice rapporto professionale che lega il difensore al cliente – come attestato dal tono, dal luogo in cui avvenne e anche dal contenuto – il Tribunale avrebbe dovuto meglio valutare:

a) se il lungo monologo del C. fosse finalizzato ad ottenere consigli difensivi dall’amico avvocato, o, non fosse, piuttosto, una mera manifestazione del profondo rancore che nutriva nei confronti della moglie, confidenza che avrebbe potuto fare a chiunque altri con cui fosse in stretti rapporti di amicizia;

b) se le (rare) risposte che l’avv.to R. dette, fossero di natura professionale (e, quindi, rientranti nell’ambito del mandato difensivo) oppure avessero una mera natura consolatoria ed “amicale” a fronte delle confidenze ricevute.

In conclusione, alla stregua di quanto appena illustrato, l’ordinanza va annullata e gli atti trasmessi al tribunale il quale, nel nuovo esame, si atterrà al seguente principio di diritto: “In tema di garanzie di libertà dei difensori previste dall’art. 103 c.p.p., il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata.

Di conseguenza, nell’ipotesi in cui venga intercettato un colloquio fra l’indagato ed un avvocato legati da uno stretto rapporto di amicizia e familiarità, il giudice, al fine di stabilire se quel colloquio sia o no utilizzabile, all’esito di un esame globale ed unitario dell’intera conversazione, deve valutare: a) se quanto detto dall’indagato sia finalizzato ad ottenere consigli difensivi, o, non sia, piuttosto, una mera confidenza che potrebbe essere fatta a chiunque altri con cui si trovi in stretti rapporti di amicizia; b) se quanto detto dall’avvocato sia di natura professionale (e, quindi, rientrante nell’ambito del mandato difensivo) oppure abbia una mera natura consolatoria ed amicale a fronte delle confidenze ricevute”.

 

P.Q.M.

 
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Bari per nuovo esame.
Così deciso in Roma, il 29 maggio 2014.
Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2014.

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