Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 10 luglio 2015, n. 29512

Fatto

1. Con sentenza del 29/09/2011, il Tribunale di Marsala dichiarò SICILFERT SRL responsabile dell’illecito amministrativo dipendente dal reato di cui agli artt. 21 e 24, 2 comma Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231 (e successive modificazioni), in relazione alla commissione dei delitti di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen. “quale società destinataria, in via provvisoria, giusto decreto n. 2020, datato 11.8.2005, della Regione Siciliana – Assessorato Industria – Dipartimento Regionale Industria, di un contributo in conto impianti di Euro 5.084.798,00 per l’esecuzione del progetto di investimento n. 141 (codice identificativo: 1999.IT. 16.1 PO. 011/1.17/5.2.10/0045), relativo alla realizzazione di un impianto per la produzione di energia da fonte rinnovabile nel settore di intervento biomassa da ubicare nel territorio comunale di Marsala, la cui prima quota di contributo era già erogata a titolo di anticipazione, per una somma di denaro pari a complessivi Euro 2.542.399,00, con l’aggravante di avere conseguito, in seguito alla commissione dei suddetti delitti un profitto di rilevante entità. In Marsala, in data 20.3.2007”.
Il Tribunale, pertanto, ritenuta la pluralità delle condotte, applicò nei confronti della suddetta società la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 120.000,00 nonché la sanzione interdittiva dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi per anni 1 e mesi 6; ordinò, altresì, la confisca di tutti i beni di proprietà della SICILFERT SRL già sottoposti a sequestro preventivo con decreto emesso dal GIP di Marsala il 22 febbraio 2008 in quanto, in parte, costituenti profitto del reato (somma di denaro pari a Euro 327.033,71) e, quanto ai restanti beni, per equivalenza fino all’intero importo dello stesso profitto del reato ammontante a complessivi Euro 2.542.399,00, in solido con F.M., amministratore unico della suddetta società per il quale si era proceduto separatamente e che aveva patteggiato la pena per i reati di truffa, falso e malversazione ai danni dello Stato con sentenza passata in giudicato.
Il suddetto giudizio di responsabilità si fondava sulle indagini che avevano permesso di accertare che F.M. e la Sicilfert avevano percepito il finanziamento in parola e di fatto già locupletato la prima tranche di esso, pari a due milioni e mezzo di Euro transitata sui conti e sul patrimonio della Sicilfert Srl, ma mai impiegati per la realizzazione del progettato impianto produttivo di energie rinnovabili, ma, piuttosto, malversati a tutto vantaggio del F.M., che ne aveva fatto uso personale, abusivo e distorto a proprio vantaggio ed a vantaggio della Sicilfert SRL.
Proposto appello, la Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 03/06/2014, confermava la sentenza impugnata.
2. Avverso la suddetta sentenza, la Sicilfert s.r.l., a mezzo del proprio difensore, proponeva ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. motivazione illogica sulla sussistenza del reato presupposto: la difesa sostiene che la sussistenza del reato presupposto era stata affermata sulla base della semplice sentenza di patteggiamento del F.M.: ma, la Corte non aveva considerato che quella sentenza non poteva fare stato nel procedimento a carico della ricorrente con la conseguenza che il giudice di appello avrebbe dovuto esaminare e valutare autonomamente le prove della presunta sussistenza dei reati presupposti;
2.2. violazione degli ARTT. 5-6 dlgs 231/2001: ad avviso della difesa, la tesi secondo la quale F.M. aveva agito nel suo esclusivo interesse non solo non avvantaggiando la Sicilfert s.r.l. ma semmai danneggiandola, non era stata sufficientemente valutata dalla Corte territoriale in quanto, incorrendo in un errore di diritto, l’aveva ritenuta superflua ed assorbita dalla circostanza che era stata accertata la mancata predisposizione di un modello organizzativo idoneo a prevenire i reati della stessa specie di quelli verificatasi. La ricorrente, quindi, sostiene che, in realtà, la Corte, al fine di pervenire ad un giudizio di responsabilità, avrebbe dovuto evidenziare quali, tra le prove acquisite, fossero in grado di dimostrare, per di più “oltre ogni ragionevole dubbio”, che il F.M. avesse agito, non nel suo solo interesse, ma anche nell’interesse della Sicilfert srl. Ma, tali prove non esistevano perché, quella acquisite e utilizzate in motivazione, sia in primo che in secondo grado, convergevano verso un’unica, nitida direzione, vale a dire quella di una iniziativa ideata (procacciamento e utilizzazione di una fideiussione falsa), attuata (presentazione e gestione della richiesta di finanziamento dinanzi all’Assessorato all’industria della Regione Sicilia) e conclusa (incasso del finanziamento e sua successiva destinazione tramite lo svuotamento delle casse sociali) autonomamente dall’amministratore pro tempore: occorreva, in altri termini verificare se l’ente avesse “voluto” tale utilità e se, nel momento in cui l’aveva percepita, si fosse resa conto della sua effettiva origine.
2.3. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 444 COD. PROC. PEN., 63 DLGS 231/2001:
la difesa lamenta l’illegittimità del rifiuto da parte di entrambi i giudici di merito, della richiesta di applicazione della pena nei limiti di Euro 52.000,00 subordinata alla non applicazione della confisca nei confronti della ricorrente società. La difesa, poi, sostiene che, ove i giudici avessero ritenuto illegittima l’apposizione della condizione sulla confisca, ben avrebbero potuto ugualmente applicare la pena richiesta disattendendo la condizione illegalmente apposta.
2.4. violazione dell’art. 19 dlgs 231/2001: la difesa sostiene che entrambi i giudici di merito, erroneamente, avevano fatto coincidere il profitto dell’ente con l’intero profitto del reato presupposto, senza, quindi, verificare la relazione causale e patrimoniale fra il reato commesso e il beneficio procurato sulla base del principio della pertinenzialità che impone la sussistenza di un profitto da intendersi in senso concreto materiale e patrimoniale e non quale generico vantaggio per la società dalla commissione dell’illecito. E così, nel caso di specie, il profitto confiscabile non poteva essere individuato nell’intera contribuzione ricevuta di Euro 2.542.399,00 ma solo in quello di stretta pertinenza dell’ente, ossia solo nella somma di Euro 327.033,71 rinvenuta ancora nella disponibilità dell’ente al momento del sequestro.
2.5. violazione dell’art. 19 dlgs cit.: la difesa lamenta che, nonostante, con memoria del 19/02/2014, la Sicilfert avesse dimostrato che era intervenuto un accordo con la “Riscossione Sicilia s.p.a.” in virtù del quale la Sicilfert si era obbligata a corrispondere l’intero importo del finanziamento pubblico, la Corte aveva completamente ignorato tale fatto sostenendo che si trattava di un piano affidato alle buone intenzioni dei vertici rinnovati e senza alcun esito sul suo definitivo completo buon esito. In realtà la confisca non avrebbe potuto essere disposta proprio a norma dell’art. 19 dlgs cit. che sottrae alla confisca “la parte che può essere restituita al danneggiato”: la norma non fissa alcun termine finale per la restituzione né esclude che la restituzione possa essere oggetto di un accordo negoziale così da essere dilazionata nel tempo.
2.6. LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELL’ART. 19 DLGS CIT: la difesa, dopo avere premesso che la confisca era stata applicata alla società ai sensi dell’art. 19 dlgs cit. che già dal 2001 faceva rientrare nel suo ambito operativo i reati di truffa aggravata e malversazione, ha rilevato che, invece, nei confronti dell’amministratore F.M. , la confisca per equivalente non può essere disposta in quanto, per le persone fisiche, la legge ne estende l’applicabilità ai suddetti reati dal 2012 e, quindi, in epoca successiva ai fatti: da qui deriverebbe l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevede uno stesso termine di entrata in vigore della confisca per equivalente nei confronti dell’ente e dell’amministratore posto che l’asimmetria temporale determina conseguenze irragionevoli.
2.7. trattamento sanzionatorio: infine la difesa lamenta l’eccessività della pena irrogata.
2.8. Con memoria a firma dell’avv.to Scalfati, depositata il 28/05/2015, la difesa, oltre che illustrare ulteriormente i motivi dedotti, ha sostenuto che, fra le condotte previste dai reati di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen. (ossia i reati presupposti in relazione ai quali era stata ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo), intercorrerebbe un rapporto di sussidiarieta del secondo rispetto al primo, realizzandosi, così, un concorso apparente di norme.

Diritto

1. motivazione illogica sulla sussistenza del reato presupposto: la prima doglianza dedotta dalla ricorrente (supra p.2.1.) è manifestamente infondata.
In punto di diritto, va rammentato che, a norma dell’art. 8 del dls n. 231/2001, la cui rubrica è intitolata “Autonomia della responsabilità dell’ente”, “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia […]”.
Questa Corte ha rilevato che “Il senso letterale della norma è chiarissimo nell’evidenziare non tanto l’autonomia delle due fattispecie (che anzi l’illecito amministrativo presuppone – e quindi dipende da – quello penale), quanto piuttosto l’autonomia delle due condanne sotto il profilo processuale. Per la responsabilità amministrativa, cioè, è necessario che venga compiuto un reato da parte del soggetto riconducibile all’ente, ma non è anche necessario che tale reato venga accertato con individuazione e condanna del responsabile. La responsabilità penale presupposta può essere ritenuta incidenter tantum (ad esempio perché non si è potuto individuare il soggetto responsabile o perché questi è non imputabile) e ciò non ostante può essere sanzionata in via amministrativa la società. 15. Anche l’intenzione soggettiva del legislatore (che, in questo caso, emerge dalla relazione governativa, trattandosi di decreto legislativo) è chiara in tal senso, affermando che il titolo di responsabilità dell’ente, anche se presuppone la commissione di un reato, è autonomo rispetto a quello penale, di natura personale. Dice la relazione ministeriale che non vi sarebbe ragione di escludere, in queste ipotesi, la responsabilità dell’ente. Quello della mancata identificazione della persona fisica che ha commesso il reato è, infatti, un fenomeno tipico nell’ambito della responsabilità d’impresa: anzi, esso rientra proprio nel novero delle ipotesi in relazione alle quali più forte si avvertiva l’esigenza di sancire la responsabilità degli enti (viene portato l’esempio ai casi di c.d. imputazione soggettivamente alternativa, in cui il reato (perfetto in tutti i suoi elementi) risulti senz’altro riconducibile ai vertici dell’ente e, dunque, a due o più amministratori, ma manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale di costoro). L’omessa disciplina di tali evenienze – prosegue la relazione – si sarebbe dunque tradotta in una grave lacuna legislativa, suscettibile di infirmare la ratio complessiva del provvedimento. Sicché, in tutte le ipotesi in cui, per la complessità dell’assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità penale in capo ad uno determinato soggetto, e ciò nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l’ente ne dovrà rispondere – ricorrendone tutte le condizioni di legge – sul piano amministrativo. 16. Infine, anche la ratio oggettiva della norma – quale emerge sistematicamente dal complesso delle disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti – persegue la finalità di sanzionare l’ente collettivo ogni volta che le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente (o sulle quali queste esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo) commettono dei reati nel suo interesse o a suo vantaggio”: Cass. 20060/2013 Rv. 255414 (in motivazione).
Ora, in punto di fatto, va osservato che il fatto descritto nel capo d’imputazione a carico della società (cfr supra p.1) è stato ampiamente accertato e, sul punto, neppure la ricorrente ha dedotto alcunché: il che significa che, al di là della sentenza di patteggiamento dell’amministratore unico, la responsabilità penale presupposta deve ritenersi quanto meno accertata incidenter tantum proprio perché la pacifica commissione da parte dell’amministratore F.M. dei fatti di cui ai capi d’imputazione, integra gli estremi dei contestati reati di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen. come ha, prima ritenuto il tribunale (cfr amplissima motivazione a pag 4 ss) e, poi, la Corte (pag. 3 ss).
La ricorrente sostiene che la Corte avrebbe fondato la propria decisione sulla sola sentenza di patteggiamento: ma, è sufficiente la lettura delle pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata, per avvedersi che la Corte, in primis, ha fatto propria la motivazione con la quale il tribunale aveva accertato la sussistenza di entrambi i reati, poi, ha ritenuto infondata, anche alla stregua della intervenuta sentenza di patteggiamento passata in giudicato, la pretesa della ricorrente società di sostenere l’insussistenza dei reati e, infine, ha nuovamente ed autonomamente motivato sulla condotta del F. ritenendola integrativa degli estremi dei reati di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen. e confutando, quindi, la tesi difensiva.
In altri conclusivi termini, la lettura unitaria delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito, non lascia margine di dubbio alcuno sull’accertamento dei reati presupposti essendo stato il giudizio effettuato alla stregua di puntuali elementi fattuali dai quali sono state tratte le corrette conseguenze giuridiche. Pertanto, poiché la motivazione della Corte territoriale non si presta, sul punto, ad alcuna censura, la doglianza dev’essere ritenuta manifestamente infondata.
Infine, ma solo per completezza, si deve anche osservare, come ha correttamente rilevato il Procuratore Generale, che “in tema di responsabilità da reato degli enti, l’intervenuta prescrizione del reato presupposto successivamente alla contestazione all’ente dell’illecito non ne determina l’estinzione per il medesimo motivo, giacché il relativo termine, una volta esercitata l’azione, non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica”: Cass. 20060/2013 riv 255415
2. violazione degli artt. 5 – 6 dlgs 231/2001: la censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.
2.1. Il d.lgs. n. 231 del 2001 stabilisce, agli artt. 5 e 6, i criteri in base ai quali il reato commesso dalla persona fisica può essere attribuito alla persona giuridica.
L’art. 5 individua il c.d. criterio di imputazione oggettiva, a norma del quale l’ente risponde solo dei reati commessi nel suo “interesse o vantaggio”.
È controverso il significato da attribuire ai suddetti lemmi.
Secondo la Relazione governativa al D.Lgs. (p.3.2.) “[…] la formula costituisce l’espressione normativa del citato rapporto di immedesimazione organica. È appena il caso di aggiungere che il richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che si accontenta di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post”.
In dottrina, si contendono il campo, sulla questione, due tesi: quella monistica, il cui approdo finale è la sottovalutazione del criterio del vantaggio, e quella dualistica secondo la quale l’art. 5 d.lgs. cit. prevede due autonomi e alternativi criteri.
La giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3615/2005 Rv. 232957; Cass. 10265/2013 riv. 258575; Cass. 24559/2013 riv 255442; SSUU 38343/2014 Rv. 261114), ritiene che i due criteri d’imputazione dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione.
La suddetta giurisprudenza, presta formale adesione alla Relazione governativa: si legge, infatti – in specie nelle massime – che il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologia del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo in relazione all’elemento psicologico della specifica persona fisica autore dell’illecito; il criterio del vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito ed indipendentemente dalla finalizzazione originaria del reato.
Tuttavia, gradualmente, la giurisprudenza si è avviata verso una concezione oggettiva non solo del vantaggio ma anche dell’interesse.
È stato, infatti, rilevato che “[…] Se non può sussistere dubbio alcuno circa il fatto che l’accertamento di un esclusivo interesse dell’autore del reato o di terzi alla sua consumazione impedisca di chiamare l’ente a rispondere dell’illecito amministrativo ex d.lgs. n. 231/2001 (in questo senso anche Sez. 6, n. 36083 del 9 luglio 2009, Mussoni e altri, Rv. 244256), ciò peraltro non significa che il criterio del vantaggio perda automaticamente di significato. Infatti, ai fini della configurabilità della responsabilità dell’ente, è sufficiente che venga provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l’effettivo interesse vantato ex ante alla consumazione dell’illecito e purché non sia, come detto, contestualmente stato accertato che quest’ultimo sia stato commesso nell’esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi. Appare, dunque, corretto attribuire alla nozione di interesse accolta nel primo comma dell’art. 5 una dimensione non propriamente od esclusivamente soggettiva, che determinerebbe una deriva psicologica nell’accertamento della fattispecie che invero non trova effettiva giustificazione nel dato normativo. È infatti evidente come la legge non richieda necessariamente che l’autore del reato abbia voluto perseguire l’interesse dell’ente perché sia configurabile la responsabilità di quest’ultimo, né è richiesto che lo stesso sia stato anche solo consapevole di realizzare tale interesse attraverso la propria condotta. Per converso, la stessa previsione contenuta nell’art. 8 lett. a) del decreto – per cui la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è identificato o non è imputabile – e l’introduzione negli ultimi anni di ipotesi di responsabilità dell’ente per reati di natura colposa, sembrano negare una prospettiva di tal genere. Il concetto di interesse mantiene invece anche e soprattutto una sua caratterizzazione oggettiva, evidenziata proprio dal disposto del secondo comma dell’art. 5, il che consente per l’appunto di conservare autonomia concettuale al termine vantaggio, pure contemplato dalla norma menzionata tra i criteri ascrittivi della responsabilità. In altri termini l’interesse dell’autore del reato può coincidere con quello dell’ente (rectius: la volontà dell’agente può essere quella di conseguire l’interesse dell’ente), ma la responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l’agente obiettivamente realizzi (rectius: la sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche quello dell’ente. In definitiva, perché possa ascriversi all’ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell’autore di quest’ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l’interesse del medesimo (in senso analogo Sez. 5, n. 40380 del 26 aprile 2012, Sensi, Rv. 253355, in motivazione)”: Cass. 10265/2013 cit.
In particolare, relativamente alla nozione dell’interesse esclusivo dell’agente che ha commesso il reato presupposto, si è osservato che va individuata nei “fatti illeciti posti in essere nel loro interesse esclusivo, per un fine personalissimo o di terzi. In sostanza, con condotte estranee alla politica di impresa”: Cass. 3615/2005 cit.
A contrario, ed in positivo, si può quindi ritenere che le condotte dell’agente poste in essere nell’interesse dell’ente sono quelle che rientrano nella politica societaria ossia tutte quelle condotte che trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria.
Più agevole la definizione del “vantaggio” che va inteso come la “potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto”: Cass. 24583/2011 Rv. 249822 (in motivazione), valutabile “ex post”, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
Si può, quindi, affermare che, mentre è indubbio che l’interesse va valutato ex ante (perché si ha riguardo al momento in cui l’agente ha agito), ed il vantaggio va valutato ex post (perché si ha riguardo al risultato conseguito dall’azione dell’agente), al contrario, va sempre più sfumando l’indagine sull’atteggiamento psicologico dell’agente relativamente all’interesse che lo ha sorretto nell’azione illecita, richiedendosi solo la proiezione finalistica della condotta.
Appaiono, infatti, decisivi gli argomenti secondo i quali la teoria soggettivistica facendo dipendere l’esistenza dell’illecito dalla soggettiva rappresentazione, eventualmente erronea, dell’autore del fatto, non è compatibile né con l’ipotesi della responsabilità dell’ente nel caso della mancata identificazione dell’autore del reato ex art. 8, comma 1, lett. a), d.lgs. cit. (sarebbe, infatti, impossibile accertare se l’ignoto autore del reato agì o meno nell’interesse dell’ente) né con le ipotesi di responsabilità derivanti da reati colposi dove fosse ipotizzabile la colpa incosciente.
I successivi art. 6 e 7 individuano, invece, il c.d. criterio di imputazione soggettiva, in base al quale l’ente non risponde se risulti adottato un modello di organizzazione e gestione, idoneo ad impedire la commissione di uno dei reati realizzati da un soggetto che ricopre al suo interno sia posizioni apicali, sia subordinate.
Sul punto, questa Corte ha rilevato che “dall’esame del D.Lgs. n. 231 del 2001, e particolarmente dagli artt. 5 e 6, scaturisce il principio di diritto secondo cui l’ente che abbia omesso di adottare e attuare il modello organizzativo e gestionale non risponde per il reato (rientrante tra quelli elencati negli artt. 24 e 26), commesso dal suo esponente in posizione apicale soltanto nell’ipotesi di cui al D.Lgs. cit., art. 5, comma 2”: Cass. 36083/2009 riv 244256.
Più esattamente è stato precisato che “il sistema normativo introdotto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza”, sicché grava sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito dell’ente, mentre a quest’ultimo incombe l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi: SSUU cit.
Dal combinato disposto delle suddette norme, il sistema delineato dal dlgs cit. può essere, quindi, ricostruito nei seguenti termini:
– l’ente è responsabile ove la pubblica accusa provi che il soggetto che ricopre al suo interno sia posizioni apicali, sia subordinate, ha commesso il reato presupposto nell’interesse (inteso come proiezione finalistica dell’azione) o a vantaggio (inteso come potenziale ed effettiva utilità anche di carattere non patrimoniale ed accettabile in modo oggettivo) dell’ente;
– se la suddetta prova non viene data o fallisce, l’ente, anche se non ha adottato alcun modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati, non può essere ritenuto responsabile di alcunché;
– se la suddetta prova, invece, viene fornita, l’unico modo per l’ente di sfuggire alla declaratoria di responsabilità per il reato presupposto, è quello di dimostrare di avere adottato un idoneo modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati.
Il principio di diritto che, quindi, deve enunciarsi è il seguente: “I criteri ascrittivi della responsabilità da reato degli enti, rappresentati dal riferimento contenuto nell’art. 5 del D.Lgs. 231 del 2001 all’interesse o al vantaggio, evocano concetti distinti e devono essere intesi come criteri concorrenti, ma comunque alternativi. L’interesse va inteso come proiezione finalistica dell’azione da valutarsi ex ante; il vantaggio va, invece, apprezzato come potenziale ed effettiva utilità anche di carattere non patrimoniale ed accettabile in modo oggettivo, da valutarsi ex post”.
2.2. Non resta ora che verificare, alla stregua dei principi di diritto di cui si è appena detto, se la doglianza della ricorrente sia fondata in punto di fatto.
La difesa, innanzitutto, sostiene che la Corte avrebbe errato nel ritenere la responsabilità dell’ente sol perché non era stato adottato alcun idoneo modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati.
In realtà, la Corte, dopo avere ribadito che i reati erano stati commessi nell’interesse e a vantaggio delle società, ha concluso, correttamente, che la società avrebbe potuto essere ritenuta non responsabile solo ove essa avesse dimostrato di avere adottato un modello di organizzazione idoneo a prevenire i reati: poiché era, però, pacifico che alcun modello era stato predisposto, ne conseguiva la responsabilità della società: cfr pag. 5 – 6.
Risolta questa prima questione, non resta ora che verificare la fondatezza o meno della censura secondo la quale il F. aveva agito solo ed esclusivamente nel suo interesse.
Sul punto, dalla sentenza di primo grado (pag. 18-19, confermata espressamente dalla Corte territoriale), risulta che “con riferimento al reato di truffa accertato in premessa, non può che constatarsi come la condotta dell’amministratore unico F.M. (rilevante ai sensi dell’art. 5, comma I lett. A del D.Lgs. 231/01), sia stata in effetti finalizzata a conseguire l’erogazione dei contributi pubblici in favore (ed a vantaggio) della società. Sul punto, nessuna influenza assume la circostanza che il finanziamento ricevuto dalla società sia stato, peraltro soltanto in parte, distratto su conti personali dell’amministratore. Ed infatti, premesso che una parte delle somme è comunque rimasta nella disponibilità della Sicilfert S.r.L., ciò che rileva è il momento realizzativo del profitto, in tal caso coincidente con l’accreditamento del contributo pubblico sul conto corrente nella disponibilità della società. Ciò che avviene dopo resta, perciò, condotta post factum inidonea ad elidere il dato storico del profitto (vantaggio) già conseguito dall’ente. Se, dunque, il contributo pubblico è entrato materialmente nel patrimonio sociale, confondendosi con le altre risorse pecuniarie, si è verificato il vantaggio oggettivo della società, che ha storicamente visto, per un lasso più o meno lungo di tempo, incrementata la sua ricchezza (cfr. Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 3615 del 2006) […] Alla medesima conclusione deve poi pervenirsi con riferimento al presupposto-reato di cui all’art. 316 bis c.p., posto in essere anche in tal caso dall’amministratore unico della Sicilfert. Ed, infatti, quanto al requisito oggettivo del “vantaggio” conseguito dalla commissione di tale ultimo delitto, lo stesso non può ritenersi eliso dal fatto che il F.M. abbia (in parte) sottratto tali somme trasferendole su conti correnti a sé intestati. Ed invero, sul punto rileva la circostanza che la parte residua del finanziamento fu utilizzata dall’amministratore unico: per l’estinzione di pregresse posizioni debitore gravanti sulla società: si veda, al riguardo, quanto già precisato con riferimento al debito di Euro 50.000,00 sussistente nei confronti del socio F.A. e all’esposizione bancaria per l’importo di Euro 331.587,51 sussistente nei confronti della Credem […]; per il compimento di plurimi investimenti finanziari: il primo, di Euro 1.800.000,00 (poi successivamente riaccreditati sul conto corrente della Sicilfert), ed il successivo (per l’ammontare di Euro 500.000,00) presso la USB Fiduciaria”.
La motivazione è amplissima nonché puntuale nell’avere individuato il vantaggio conseguito dall’ente, vantaggio che corrisponde perfettamente a quella nozione di cui si è dato conto e che è espressione della monolitica giurisprudenza di questa Corte di legittimità richiamata e fatta propria dal Tribunale.
La difesa, come si è illustrato, insiste, però, nel sostenere che i giudici di merito avrebbero omesso di verificare se l’ente avesse “voluto” tale utilità e se, nel momento in cui l’aveva percepita, si fosse resa conto della sua effettiva origine (cfr pag. 9 ricorso).
Ma, è proprio qui che si annida l’erroneità della suddetta tesi.
Ed infatti, poiché, sulla base della immedesimazione organica, l’ente “vuole” ed “agisce” per come “vuole” ed “agisce” il proprio rappresentante, non è materialmente possibile effettuare questa sorta di scissione propugnata nel ricorso.
Ed è proprio per evitare una incontrollabile deriva “psicologica”, che si è affermata la tesi oggettiva dell’interesse, lasciando all’ente la possibilità di tutelarsi dalla responsabilità solo attraverso la predisposizione di idonei modelli organizzativi: ossia, ancora una volta, un sistema che, sulla base di dati oggettivi ed estranei ad impossibili ed improbabili indagini sulla volontà del rappresentante, possa verificare l’estraneità dell’ente al comportamento illecito del proprio rappresentante.
In conclusione, deve ritenersi che le pacifiche risultanze processuali, ampiamente evidenziate da entrambi i giudici di merito, hanno posto in evidenza che i reati commessi dal legale rappresentante, lo furono nell’interesse e vantaggio dell’ente: nell’interesse, perché il finanziamento era finalizzato all’esecuzione del progetto di investimento relativo alla realizzazione di un impianto per la produzione di energia da fonte rinnovabile nel settore di intervento “biomassa”: quindi, una condotta che, in quanto inerente e pertinente alla politica d’impresa dell’ente, non può ritenersi effettuata nell’interesse personale ed esclusivo del legale rappresentante; a suo vantaggio come dimostrato, in punto di fatto, dalle utilità che l’ente ricavò ed analiticamente indicate in specie nella sentenza di primo grado.
3. VIOLAZIONE DEGÙ ARTT. 444 COD. PROC. PEN., 63 DLGS 231/2001: la
suddetta doglianza è manifestamente infondata.
Entrambi i giudici di merito, hanno respinto la richiesta sotto un duplice profilo: a) perché ritenuta non congrua in relazione alla gravità dei reati; b) perché comunque la richiesta era stata subordinata ad una condizione illecita e cioè la non confiscabilità del profitto: cfr pag. 23 sentenza primo grado; pag. 6 sentenza di appello.
Trattandosi di doppia motivazione, è sufficiente rilevare che le ragioni addotte in ordine alla non congruità della richiesta, devono ritenersi incensurabili in questa sede involgendo una questione di merito sulla valutazione discrezionale da parte dei giudici di merito che deve ritenersi esercitata correttamente e razionalmente: il che rende irrilevante la disamina dell’ulteriore ed alternativa motivazione con la quale la richiesta è stata respinta sotto il profilo che era stata sottoposta ad una condizione illecita.
4. violazione dell’art. 19 dlgs 231/2001: entrambe le censure dedotte in ordine alla confisca (supra in parte narrativa pp.2.4. – 2.5.), nei termini in cui sono state dedotte, sono manifestamente infondate.
4.1. Quanto alla prima doglianza (illustrata in parte narrativa al § 2.4.), va premesso che il pacifico principio di diritto al quale occorre attenersi è quello secondo il quale “in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un’ipotesi di c.d. reato in contratto, il profitto confiscabile ex art. 19 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere determinato da un lato, assoggettando ad ablazione i vantaggi di natura economico-patrimoniale costituenti diretta derivazione causale dell’illecito così da aver riguardo esclusivamente dell’effettivo incremento del patrimonio dell’ente conseguito attraverso l’agire illegale e, dall’altro, escludendo i proventi eventualmente conseguiti per effetto di prestazioni lecite effettivamente svolte in favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico, pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte”: ex plurimis Cass. 53430/2014 Rv. 261841.
Sennonché, in punto di fatto, risulta accertato (cfr supra p.2), che il denaro incassato fraudolentemente fu utilizzato per scopi completamente diversi per quelli per cui era stato erogato: in altri termini, non un solo Euro risulta che fu destinato al progetto per la realizzazione di un impianto per la produzione di energia da fonte rinnovabile. È chiaro, quindi, che tutta la somma incassata va considerata “profitto” non potendosi detrarre da essa alcunché.
Quanto, infine, alla tesi secondo la quale la confisca dovrebbe essere limitata alla sola somma rinvenuta nelle casse sociali, con esclusione di quella di cui si era appropriato il F. , va osservato che, erroneamente, la ricorrente tende a separare la propria posizione da quella del proprio legale rappresentante.
Invero, una volta che si sia accertato che i reati commessi dal legale rappresentante, lo furono nell’interesse e a vantaggio dell’ente, non resta alcuno spazio alla tesi difensiva: correttamente, quindi, entrambi i giudici di merito, hanno ritenuto che il profitto andasse individuato in tutto l’importo fraudolentemente ottenuto.
4.2. Quanto alla seconda doglianza (in parte narrativa p.2.5.), va osservato quanto segue.
L’art. 19 dlgs cit., stabilisce che è sempre disposta la confisca del prezzo o profitto del reato “salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato”.
La ricorrente, facendo leva su questa previsione normativa, sostiene che la confisca non avrebbe potuto essere disposta in quanto era stato raggiunto – fra essa ricorrente e la “Riscossione Sicilia s.p.a.” – un accordo che prevedeva la restituzione dell’intero importo del finanziamento pubblico.
La Corte territoriale ha rigettato la suddetta richiesta adducendo la seguente motivazione: “È del tutto evidente come, solo sulla base di quello che allo stato è soltanto un piano affidato alle buone intenzioni dei vertici rinnovati della Sicilfert SRL, senza alcuna certezza sul suo definitivo completo buon esito, non possa certo revocarsi la confisca come disposta in primo grado nel pieno rispetto della normativa di cui agli artt. 9 e 19 del D.lgs 231 del 2001 che la rendono obbligatorio corollario, non certo discrezionale, in caso di condanna. Non sposta i termini della questione l’avere allegato, questa volta con la memoria difensiva depositata per l’udienza del 3 giugno 2014, le copie dei plurimi bollettini per il pagamento, nei prossimi lunghi anni a venire fino alla fine del 2019, delle varie rate, in larghissima parte ancora ovviamente non versate. Si tratta, allo stato, solo di un’aspirazione, non certo della prova, l’unica che potrebbe essere presa in considerazione ai fini della revoca della disposta confisca anche per equivalente, dell’intervenuta restituzione alle casse pubbliche di quanto lucrato e malversato dalla Sicilfert S.r.l.”.
Ora, già questa motivazione, è, in punto di fatto, incensurabile in quanto congruamente motivata.
Ma, a parte la suddetta motivazione, in realtà, la richiesta della ricorrente è inammissibile in punto di diritto.
Dalla norma invocata, infatti, si desumono due requisiti perché il profitto del reato non venga interamente confiscato e cioè: a) che ci sia un profitto che sia stato materialmente sequestrato; b) che vi sia un danneggiato che abbia richiesto (ed ottenuto) la restituzione di una parte della somma sequestrata.
Nel caso di specie manca il requisito sub b), nel senso che non risulta che la “Riscossione Sicilia s.p.a.”, ammesso che sia legittimata, abbia mai chiesto la restituzione della somma sequestrata.
Di conseguenza, l’accordo intervenuto fra la ricorrente e la “Riscossione Sicilia s.p.a.” è del tutto irrilevante costituendo un accordo che non può avere alcuna influenza sulla normativa invocata che prevede precisi presupposti di natura sostanziale e processuale (appartenenza della somma sequestrata al danneggiato dal reato; accertamento del quantum; restituzione) del tutto assenti nella fattispecie.
Va, quindi, data continuità al principio di diritto secondo il quale “in tema di responsabilità degli enti, l’utilità economica ricavata dalla persona giuridica a seguito della consumazione di una truffa non può essere confiscata come profitto del reato, nemmeno per equivalente, quando la stessa sia stata già restituita al soggetto danneggiato”: Cass. 45054/2011 riv 251070.
5. legittimità costituzionale dell’art. 19 dlgs cit.: la questione è manifestamente infondata per la semplice ragione, prospettata già dallo stesso ricorrente, che “il criterio di responsabilità della persona giuridica è autonomo rispetto a quello stabilito per l’imputato”, sicché non è ipotizzabile la violazione di alcuna norma costituzionale.
In altri termini, ciò che rileva è che, al momento della commissione dei reati presupposti, questi erano già in vigore, ed era prevista la confisca per quei reati.
Che, poi, la confisca per equivalente sia stata introdotta per le persone fisiche successivamente alla commissione del reato, non influisce, per la ricorrente, in alcun modo sulla propria autonoma responsabilità (del tutto diversa, rispetto a quella penale ed amministrativa, tant’è che è qualificata come un tertium genus rispetto alla prime due) trattandosi di scelta legislativa incensurabile.
6. trattamento sanzionatorio: la suddetta censura va ritenuta manifestamente infondata in quanto la motivazione addotta dai giudici di merito: [conseguimento di un profitto di rilevante entità; assenza di circostanze esimenti o attenuanti; mancata predisposizione atte a prevenire la commissione di illeciti: cfr pag. 20 sentenza di primo grado e pag. 6 sentenza di appello] deve ritenersi ampia, congrua e logica e, quindi, non censurabile in questa sede di legittimità, essendo stato correttamente esercitato il potere discrezionale spettante al giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio.
7. Infine, quanto alla dedotta sussidiarietà fra gli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen., questa Corte, pur consapevole di alcune decisioni contrarie (Cass. 23063/2009 riv 244180), ritiene di confermare il maggioritario e più recente indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “il reato di malversazione in danno dello Stato (art.316-bis cod. pen.) può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.640-bis cod. pen.)”: in considerazione della non identità degli interessi protetti. L’art. 640 e art. 640 bis c.p., tutelano, infatti, il patrimonio da atti di frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni pubbliche; l’art. 316 bis c.p., tutela la pubblica amministrazione da atti contrari agli interessi della collettività, anche di natura non patrimoniale: in terminis, Cass. 43349/2011 riv 250994.
8. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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