Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 25 luglio 2017, n. 36784

Il professore Universitario che lavori presso un’azienda ospedaliera in regime di intramoenia deve ritenersi pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 357 del cod. pen. e quindi i reati commessi, di violenza sessuale sulle pazienti, sono aggravati ex art. 61, n. 9 del cod. pen. poiché commessi con abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione rivestita

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA 25 luglio 2017, n. 36784

 

Ritenuto in fatto

Con sentenza della Corte di appello di Venezia del 26 novembre 2015, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Padova del 28 febbraio 2001, si dichiarava di non doversi procedere nei confronti dell’imputato L.F. relativamente ai reati commessi sino alla data del (omissis) perché estinti per prescrizione, e si rideterminava la pena per le residue ipotesi di reato ad anni 4 e mesi 3 e giorni 20 di reclusione (reati di violenza sessuale, 609 bis, cod. pen., ritenuti in continuazione, aggravati ex art. 61 n. 9 cod. pen. in quanto commessi con abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione rivestita, medico professore universitario erogante attività assistenziale presso l’Azienda ospedaliera di (…) in base ad una convenzione tra i due enti, nei confronti delle pazienti precisate nell’imputazione).

L.F. propone ricorso, tramite il difensore, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen..

2.1. Vizio di motivazione con riferimento al capo della sentenza relativa all’affermazione della penale responsabilità.

Le argomentazioni motivazionali della sentenza impugnata risultano carenti ed illogiche, dove ritengono apoditticamente senza contraddizione i narrati delle persone offese, e che le divergenze dei fatti narrati dalle parti offese attengono a segmenti marginali, di contorno.

Riguardo alla posizione della parte offesa V. la stessa dapprima aveva affermato di aver avuto un orgasmo e poi negava la circostanza; orbene nell’ambito di un procedimento per un delitto di violenza sessuale non può ritenersi un particolare insignificante il raggiungimento o no dell’orgasmo da parte dell’asserita vittima, giustificabile comunque con il decorso del tempo tra le diverse deposizioni rese. La V. , infatti, anche in precedenza aveva riferito di aver raggiunto l’orgasmo, non solo nel corso delle indagini ma anche al direttore dell’azienda ospedaliera così come all’ufficio relazioni con il pubblico dell’ospedale. Inoltre la deposizione della V. era in sanabile contrasto con quella della P.I. infermiera che prestava assistenza al ricorrente durante le visite in libera professione. La presenza dell’infermiera durante la visita invalidava l’intero narrato della V. . Nulla argomenta sul punto la sentenza impugnata.

Anche relativamente ad altra paziente, F. ) affetta da irsutismo, e alle esigenze diagnostiche nulla motiva la decisione. Anche le valutazioni del consulente tecnico di parte Prof. B. , sulla necessità di valutare anche la condizione clitoridea della paziente, sia nella larghezza sia nella lunghezza, nulla viene argomentato. La sentenza si limita solo a parlare di lubrificazione naturale.

Anche relativamente alla Stellato non si comprende come mai la stessa abbia atteso otto anni prima della denuncia.

Relativamente alla Pe. la stessa è stata reticente nei confronti della psicologa e del marito, anche se poi si reca spontaneamente in Procura per denunciare; sussistono inoltre divergenze tra il narrato della Pe. è quello dell’amica C. , anche lei oggetto di visite anomale, ma che pur continuava a lavorare con il ricorrente.

La sentenza ritiene che le parti offese effettuavano una narrazione convergente, sovrapponibile, così incorrendo in un autentico travisamento delle risultanze processuali poiché le descrizioni delle manovre effettuate dal ricorrente sono state riferite dalle varie persone offese in modi tutt’altro che coincidenti e sovrapponibili, come emerge dall’analisi delle singole dichiarazioni che si analizzano nel ricorso.

2.2. Errata applicazione dell’articolo 61, n. 9 del cod. pen.. Carenza di motivazione sul punto. Errata applicazione dell’art. 62 n. 6 del cod. pen. Carenza di motivazione sul punto.

La Corte di appello ha operato sostanzialmente un’omologazione dell’attività privatistica esercitata ‘intramoenia’ con la diversa attività esercitata da un medico per una casa di cura convenzionata con il servizio sanitario nazionale; trattasi invece di fattispecie ben diverse. Le due attività sono disciplinate da diverse normative, quella ‘intramoenia’ non può in alcun modo definirsi pubblicistica, se non limitatamente a quella frazione di compenso che il medico dovrà corrispondere all’azienda ospedaliera, anche la giurisprudenza sul punto ritiene che non sia pubblico ufficiale il medico che agisce in tale veste.

L’imputato ha inoltre provveduto a risarcire le donne parti offese e la sentenza impugnata non concede l’attenuante dell’art. 62, n. 6 del cod. pen. sulla considerazione del mancato risarcimento alla azienda ospedaliera di (…), costituitasi parte civile, solo in dibattimento.

L’azienda ospedaliera non veniva neanche indicata tra le persone danneggiate nel decreto che disponeva il giudizio. Sussiste inoltre una disparità di trattamento (discriminazione) tra le persone imputate di violenza sessuale a seconda della costituzione o no dell’azienda ospedaliera, o di altro ente.

2.3. Errato computo degli aumenti operati per la continuazione, in ragione dell’erroneo calcolo degli episodi in contestazione.

La Corte di appello commette un errore materiale poiché esclude per la prescrizione cinque episodi di violenza, elenca poi espressamente i restanti sette episodi non prescritti, di cui uno relativo alla Pe. , utilizzato come episodio più grave per il calcolo ex articolo 81 cod. pen. e invece calcola l’aumento non per sei episodi, ma per sette. Quindi un aumento di pena per mesi 1 e giorni 20 di reclusione è stato effettuato erroneamente.

Ha chiesto pertanto l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

I primi due motivi di ricorso sono inammissibili per manifesta infondatezza dei motivi, e perché, con il primo motivo, valutato nel suo complesso, si chiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità.

In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 – dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 265482).

In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che ‘attaccano’ la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 – dep. 31/03/2015, 0., Rv. 262965). In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione solo perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 3385 del 09/03/1995 – dep. 28/03/1995, Pischedda ed altri, Rv. 200705).

La Corte di appello (e il Giudice di primo grado) ha con esauriente motivazione, immune da vizi di manifesta illogicità o contraddizioni, dato conto del suo ragionamento che ha portato alla valutazione di attendibilità delle numerose parti offese. Sulla attendibilità delle parti offese si deve rilevare che la sentenza risulta adeguatamente motivata e non presenta vizi logici per un eventuale intervento di legittimità. Infatti, in tema di reati sessuali, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene al modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006 – dep. 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578).

Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa. (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014 – dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730); le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 – dep. 24/10/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).

4.1. Nel nostro caso le analisi delle due decisioni (conformi) sono precise, puntuali e rigorose nell’affrontare l’attendibilità delle persone offese, e individuano anche precisi riscontri, anche se non necessari, quali la perizia del consulente del P.M. – Prof. N.G. B. – (e, in parte, dello stesso consulente di parte – prof. B.G. -), che evidenziava come le metodologie delle visite attuate dal ricorrente nei confronti delle parti offese fossero anomale rispetto alle pratiche mediche normalmente richieste per compiere gli accertamenti richiesti. Del resto alcune pazienti erano giovani, e quindi senza secchezza vaginale, e pertanto la stimolazione anomala e naturale per la lubrificazione non aveva motivi validi, come evidenziato sempre dal Prof. N. .

Inoltre il marito della Pe. vide la moglie uscire sconvolta dalla visita.

Del resto tutte le lamentate pretese contraddizioni sono state ampiamente analizzate dalla decisione impugnata e nel ricorso si ripresentano le stesse argomentazioni dell’appello; per esempio relativamente al raggiungimento dell’orgasmo da parte della parte offesa V. la sentenza precisa che la stessa aveva solo in un secondo momento detto di aver simulato l’orgasmo, per fare smettere il ricorrente nella pratica di masturbazione spinta.

Relativamente all’aggravante dell’art. 61, n. 9 del cod. pen. la sentenza impugnata contiene adeguata motivazione immune da vizi di contraddizione e di manifesta illogicità, poiché applica correttamente i principi in materia della Corte di Cassazione. Il ricorrente agiva quale prof. Universitario in convenzione con l’azienda ospedaliera, in intramoenia. Ai sensi dell’art. 357 del cod. pen. è pubblico ufficiale colui che esercita una pubblica funzione – legislativa, giudiziaria o amministrativa -, e per l’effetto della convenzione si esercitava la stessa pubblica funzione amministrativa dell’ospedale pubblico.

L’attività intramoenia non significa attività privata poiché esercitata sempre in convenzione, nella struttura e con i mezzi pubblici, con un compenso per l’azienda ospedaliera.

Integra il delitto di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici la falsa attestazione del medico convenzionato di medicina generale di avere eseguito visite domiciliari mai effettuate negli elenchi mensili riepilogativi trasmessi alla A.S.L. (Sez. 5, n. 47630 del 28/10/2014 – dep. 18/11/2014, Iafelice e altro, Rv. 26168701; vedi anche Sez. 5, n. 16368 del 10/03/2011 – dep. 26/04/2011, Di Pisa, Rv. 25018201 e Sez. 5, n. 12827 del 09/03/2005 – dep. 05/04/2005, Schwarz ed altri, Rv. 23170001).

Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: ‘Il professore Universitario che lavori presso un’azienda ospedaliera in regime di intramoenia deve ritenersi pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 357 del cod. pen. e quindi i reati commessi, di violenza sessuale sulle pazienti, sono aggravati ex art. 61, n. 9 del cod. pen. poiché esercita una pubblica funzione amministrativa’.

Relativamente all’attenuante del risarcimento del danno (art. 62 n. 6 cod. pen.) l’omesso risarcimento del danno – pacifico e ammesso nel ricorso in Cassazione – ad una parte civile costituita, l’azienda ospedaliera i non consente di riconoscere l’attenuante, pur a fronte del risarcimento alle altre vittime, che comunque è stato valutato ex art. 133 cod. pen. per la determinazione della pena.

Ai fini della concessione dell’attenuante del risarcimento del danno, la riparazione deve essere integrale, sicché non possono giovare all’imputato, in caso di riparazione parziale o inadeguata, la dichiarazione liberatoria della persona offesa o la considerazione degli sforzi economici affrontati per effettuarla. (Sez. 5, n. 13282 del 17/01/2013 – dep. 21/03/2013, Sanchez Jimenez, Rv. 25518701).

Il risarcimento nel nostro caso non può ritenersi integrale perché una delle parti civili non è stata risarcita in nessun modo.

Risulta invece fondato l’ultimo motivo di ricorso, l’errore materiale del calcolo della pena, per un aumento ex art. 81 cod. pen. non dovuto.

La Corte di appello ridetermina gli episodi non prescritti in numero di 7 (2 per Va.Ma. , 1 per F. , 1 per V. , 2 per Va.Ro. , 1 per Pe. ) e poi ne calcola 8, 1 per la pena base relativa a Pe.An. .

Dalla pena finale quindi deve detrarsi un aumento di 1 mese e giorni 20 di reclusione, affermazione possibile anche in sede di legittimità perché non necessitano accertamenti di merito, art. 620, comma 1, lettera F, cod. proc. pen..

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’aumento di pena ex art. 81 cod. pen. per un episodio rideterminando la pena in anni 4 e mesi 2 di reclusione;

dichiara inammissibile nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla refusione delle spese in favore della parte civile che liquida in Euro 3.500,00 oltre accessori come per legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell’art. 52 del d.lgs 196/03 in quanto imposto dalla legge.

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