In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o fina­lizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, la competenza territoriale, in caso di connessione con i reati fine, deve essere determinata ai sensi dell’art. 16, commi 1 e 3, cod. proc. pen., ossia con riferimento al più grave dei reati connessi.
Qualora si proceda per il delitto di associazione per delinquere, anche di tipo mafioso o finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, da solo o connes­so con reati fine meno gravi, la competenza territoriale deve essere determinata – in base all’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. – facendo riferimento, se conosciu­to, al luogo in cui i sodali si sono consociati dando vita all’associazione medesima (pactum sceleris), giacché ai fini della consumazione del reato è sufficiente il raggiungimento dell’accordo criminale fra i compartecipi.
In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o fina­lizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, qualora non sia possibile individuare il luogo della pattuizione che ha dato vita al reato associativo, la competenza ter­ritoriale appartiene al giudice del luogo in cui l’operatività dell’associazione si è manifestata per la prima volta tramite elemento espressivo dell’esistenza del soda­lizio, quali una base operativa, un centro decisionale o altre simili manifestazioni materiali. Tali elementi, a prescindere dal tempo in cui sono scoperti o accertati, devono ritenersi logicamente e cronologicamente preesistenti alla commissione dei reati fine, sicché prevalgono su questi ultimi ai fini di determinare la compe­tenza territoriale ai sensi dell’art. 8, comma 3, cod. proc. pen..
In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o fina­lizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, qualora le evidenze processuali non rendano manifesto né il luogo in cui ha preso vita l’associazione per delinquere né quello della sua concreta operatività organizzativa e decisionale, occorre far riferimento al luogo in cui è stato commesso il primo reato fine, a prescindere dalla sua gravità, in quanto manifestativo – ai sensi dell’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. – della consumazione del reato associativo. Tuttavia, qualora i reati fine siano connessi a quello associativo, la competenza territoriale deve essere determinata ai sensi ai sensi deil’art. 16, comma 1, cod. proc. pen., e quindi con riferimento non al reato commesso per primo, bensì a quello più grave.

Suprema Corte di Cassazione

sezione II penale

sentenza 2 agosto 2016, n. 33724

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 29 dicembre 2014, in riforma parziale della sentenza del Tribunale di Torre Annunziata del 5 luglio 2013, la Corte d’appello di Napoli ha ridotto la pena inflitta a S.E.I., condannato – in concorso con altri im­putati non ricorrenti – per il delitto di associazione a delinquere finalizzata alla falsificazione di carte di pagamento abilitate al prelievo di denaro contante (Ban­comat).
Contro tale sentenza l’imputato ricorre allegando due motivi.
Il primo motivo di ricorso – declinato ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 8, 9 e 16 cod. proc. pen. – concerne il rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale. In proposito, il ricorrente os­serva che numerosi elementi fattuali deponevano nel senso che l’associazione a delinquere era stata costituita nel territorio romano e qui, dunque, si sarebbe dovuto radicare il processo, giacché, avendo il delitto di cui all’art. 416 cod. pen. natura di reato permanente, la competenza territoriale spetta al giudice del luo­go in cui ha avuto inizio la consumazione.
Con il secondo motivo di ricorso, invece l’imputato si duole – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. – del vizio di motivazione in rela­zione all’omesso esame delle censure mosse dalla difesa con l’atto di appello.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
2. Il primo motivo di ricorso sottopone all’attenzione del Collegio la que­stione della competenza territoriale per il delitto di associazione a delinquere, quando il luogo in cui è stato costituito o comunque è sorto il sodalizio è diverso da quello di commissione dei reati fine.
Ovviamente, la questione assume rilievo solo nei casi – come quello in esame – in cui i reati fine siano connessi al reato associativo ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. In tal caso, peraltro, la regola per l’individuazione dell’ufficio giudiziario territorialmente competente è posta dall’art. 16 cod. proc. pen. L’intero processo si dovrà quindi svolgere innanzi al giudice competente per il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice competente per il primo reato.
3. Nel caso in esame, il delitto più grave è quello di cui all’art. 416 cod. pen., punito nella forma semplice con la reclusione fino a sette anni, rispetto ai reati fine di cui all’art. 55, comma 9, d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, per i qua­li è prevista la pena massina della reclusione fino a cinque anni.
4. Una volta chiarito che, in applicazione dell’art. 16 cod. proc. pen., la competenza territoriale per il processo in esame deve essere stabilita con riferi­mento al delitto di associazione per delinquere, stante la natura permanente del reato, dovrà trovare applicazione la regola è quella posta dall’art. 8, comma 3, cod. proc. pen., in ragione della quale la competenza territoriale appartiene al giudice del luogo ove ha avuto inizio la consumazione.
Sennonché, in tema di associazione per delinquere e con particolare rife­rimento al concetto di “consumazione” rilevante ai fini della determinazione della competenza territoriale, si registra una pluralità di vedute.
4.1 Un primo orientamento, ben rappresentato nell’elaborazione giuri­sprudenziale di questa Corte, è dell’avviso che il criterio da adottare sia quello del luogo in cui l’associazione si è costituita. Trattandosi, infatti, di un reato di natura permanente, la consumazione si avrebbe nel momento e nel luogo di co­stituzione del vincolo associativo diretto allo scopo comune. Dunque, il luogo in cui si è formato il pactum sceleris prevarrebbe su quello di operatività della struttura.
In mancanza di elementi certi in ordine alla genesi del vincolo associativo, dovrebbe farsi ricorso al criterio sussidiario e presuntivo del luogo del primo rea­to commesso o, comunque, del primo atto diretto a commettere i delitti pro­grammati. Solo qualora nessuno dei criteri indicati consentisse di determinare la competenza per territorio si dovrebbe attribuire rilievo al criterio sussidiario di cui all’art. 9 cod. proc. pen. (Sez. 1, 18 dicembre 1995, n. 6648, Dilandro, Rv. 203609; Sez. 6, 21 maggio 1998, Caruana, Rv. 213573, relativa ad associazione per delinquere di tipo mafioso; Sez. 1, 24 aprile 2001, n. 24849, Simonetti ed altri, Rv. 219220; Sez. 6, 23 aprile 2004, n. 26010, Loccisano, Rv. 229972; Sez. 4, 7 giugno 2005, n. 35229, Mercado Vasquez, Rv. 232081; Sez. 3, 6 luglio 2007, n. 35521, Pizzolante, Rv. 237397; Sez. 2, 3 giugno 2009, n. 26285, Del Regno, Rv. 244666).
In termini analoghi, con riguardo all’associazione finalizzata ai traffico di stupefacenti di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990, si sono pronunciate: Sez. 1, 7 febbraio 1991, n. 600, Mulas, Rv. 186709; Sez. 6, 6 ottobre 1994, n. 3784, Celone, Rv. 201849; Sez. 4, 12 febbraio 2004, n. 17636, Montalto, Rv. 228183; Sez. 4, 13 marzo 2008, n. 19526, Dario, Rv. 240160. In tali occasioni si è affer­mato che il momento iniziale di consumazione del reato d’associazione per delin­quere finalizzata al traffico di stupefacenti, rilevante ai fini della determinazione della competenza per territorio, coincide con quello in cui è stato perfezionato l’accordo criminoso di tre o più soggetti per la costituzione di quel vincolo comu­ne teso alla commissione di una pluralità di reati in tema di sostanze stupefacen­ti.
4.2 Recentemente questa Corte ha però affermato che, in tema di reati associativi, la competenza per territorio si dovrebbe determinare in relazione al luogo in cui ha sede la base ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio; pertanto, assumerebbe ri­lievo non tanto il luogo in cui si è perfezionato il pactum sceleris, quanto quello in cui si è effettivamente manifestata e realizzata l’operatività della struttura (Sez. 2, 3 dicembre 2015, n. 50338 Signoretta, Rv. 265282).
Si tratta di un principio ricorrente nell’elaborazione di questa Corte: Sez. 1, 19 dicembre 1996, n. 6171, Chierchia, Rv. 206261; Sez. 1, 14 dicembre 2005, n. 45388, Saya, Rv. 233359; Sez. 5, 23 gennnaio 2007, 2269, Tavaroli, Rv. 236300; Sez. 1, 23 aprile 2009, n. 17353, Antoci, Rv. 243566; Sez. 2, 12 giugno 2012, n. 22953, Tempestilli, Rv. 253189; Sez. 2, 19 giugno 2013, n. 26763, Leuzzi, Rv. 256650; Sez. 2, 3 maggio 2013, n. 19177, Vallelonga, Rv. 255829; Sez. 5, 24 ottobre 2014, n. 44369, Robusti, Rv. 262920; Sez. 2, 4 giu­gno 2014, n. 23211; Rv. 25965; Sez. 4, 10 dicembre 2015, n. 48837, Banev, Rv. 265281.
Secondo tali pronunce – che concernono sia le associazioni per delinquere semplici, sia le associazioni di cui agli artt. 416-bis cod. pen. e 74 d.P.R. 9 otto­bre 1990, n. 309 – al fine della determinazione della competenza per territorio di un reato associativo, occorre dunque far riferimento al luogo in cui si realizza l’effettiva operatività del sodalizio e si sviluppa il momento programmatico e di­rezionale, essendo irrilevante tanto il luogo di commissione dei singoli reati rife­ribili all’associazione quanto quello in cui il sodalizio prende vita con il raggiun­gimento dell’accordo criminale fra i compartecipi. Solo qualora ci si trovi in pre­senza di una organizzazione costituita da plurimi e autonomi gruppi operanti su territorio nazionale ed estero, i cui accordi per il perseguimento dei fini associati­vi e le cui attività criminose si realizzano senza solidi e chiari collegamenti opera­tivi, in assenza di elementi fattuali seriamente significativi per l’identificazione del luogo di programmazione ed ideazione dell’attività riferibile al sodalizio crimi­noso, si dovrà fare riferimento alle regole suppletive dettate dall’art. 9 cod. proc. pen.
4.3 Infine, altre pronunce, ai fini della determinazione della competenza per territorio, fanno riferimento al luogo in cui l’associazione ha iniziato concre­tamente ad operare. Questo criterio si compendia nell’affermazione secondo cui il luogo in cui ha avuto inizio la consumazione del reato permanente di associa­zione per delinquere coincide con il momento in cui l’operatività del sodalizio criminoso è divenuta esternamente percepibile per la prima volta, non con quello della costituzione del sodalizio (Sez. 3, 10 maggio 2007, n. 24263, Violini, Rv. 237333; in precedenza v. Sez. 1, 25 novembre 1992, Taino ed altri, Rv. 192783).
Si tratta di principio recentemente ribadito nei seguenti termini: ai fini dell’individuazione della competenza territoriale in relazione ai delitti associativi, trattandosi di reati permanenti, deve ritenersi operante il criterio di cui all’art. 8, comma terzo, cod. proc. pen., per effetto del quale il giudice cui spetta la cogni­zione della regiudicanda è quello del luogo in cui la struttura organizzata inizia ad essere operativa (Sez. 1, 28 aprile 2015, n. 20908, Minerva, Rv. 263612).
Con riguardo all’associazione per delinquere di tipo mafioso ex art. 416­bis c.p., hanno fatto riferimento al luogo in cui il sodalizio ha manifestato la sua operatività: Sez. 1, 10 dicembre 1997, n. 6933, Rasovic, Rv. 209608; Sez. 6, 16 maggio 2000, n. 2324, Lorizzo, Rv. 217561, per la quale, in particolare, la com­petenza territoriale in ordine al reato di associazione per delinquere di tipo ma­fioso non può determinarsi con riferimento al luogo in cui l’associazione si è co­stituita né a quello in cui sono stati eseguiti i reati fine, bensì, trattandosi di rea­to permanente, con riguardo al luogo in cui ha avuto inizio la consumazione del reato stesso, secondo la regola dettata dall’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. cioè al luogo in cui il sodalizio ha manifestato la sua operatività e, ove neppure tale luogo sia determinabile in base agli atti processuali, è necessario fare riferimento ai criteri suppletivi di cui all’art. 9 cod. proc. pen.
Infine, la prevalenza del criterio in esame è stata affermata anche in rela­zione all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti da Sez. 1, 26 ottobre 1994, n. 4761, Arrighetti, Rv. 199964; Sez. 6, 2 marzo 2006, n. 22286, Savino, Rv. 234722; Sez. 5, 8 ottobre 2009, n. 4104, Doria, Rv. 246064; Sez. 1, 22 gennaio 2013, n. 7926, Xhaferri, Rv. 255306, per le quali, può attribuirsi rilievo anche al luogo di commissione dei singoli delitti realizzati in attuazione del pro­gramma criminoso nel caso in cui, per numero e consistenza, essi rivelino il luo­go di operatività dell’associazione.
5. A parere di questo Collegio, l’apparente diversità di vedute sopra illu­strata non dà luogo ad un vero e proprio contrasto di giurisprudenza e le diverse posizioni possono essere ricondotte ad unità.
Anzitutto va premesso che, in pratica, i criteri sopra dedotti spesso porta­no a risultati convergenti, specie nelle ipotesi di associazioni per delinquere radi­cate nel territorio. In questi casi il pactum sceleris, l’operatività organizzativa dell’associazione e la commissione dei reati fine avvengono – il più delle volte – in un contesto territoriale circoscritto e contiguo. Quindi, l’adesione all’uno o all’altro indirizzo, specie nella giurisprudenza di merito, non sempre costituisce espressione della consapevole adesione a una scelta gravida di conseguenze pro­cessuali. La valorizzazione talvolta del momento del perfezionamento dell’accordo criminoso, talaltra dell’operatività decisionale dell’associazione o del­la manifestazione della sua esistenza estrinsecantasi nella commissione dei reati fine, dipende più dalle evidenze processuali a disposizione del giudice che da una opzione di carattere dogmatico. Infatti, in tema di associazione a delinquere, non sempre le risultanze istruttorie consentono di individuare con chiarezza il mo­mento e tantomeno il luogo in cui i sodali hanno stretto il rapporto associativo, né la localizzazione di un preciso centro direttivo delle attività criminose.
Ed allora, è proprio prendendo le mosse dalla frequente incompletezza dei dati decisionali che è possibile ricomporre le tre diverse opzioni innanzi illustrate, graduandole in ordine logico e giuridico.
Poiché la condotta tipica del delitto di cui all’art. 416 cod. pen. consiste nell’associarsi allo scopo di commettere più delitti, in linea generale deve affer­marsi che la consumazione del reato coincide con la stipulazione del patto crimi­nale che dà vita al sodalizio. Considerazioni non dissimili valgono per il delitto previsto dall’art. 416-bis cod. pen., in cui la condotta materiale incriminata è di “far parte” di un’associazione, e per quello di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, che riproduce la stessa formula impiegata dall’art. 416 cod. pen., salvo a precisare il fine specifico dell’associazione, rivolta in questo caso al traffi­co di sostanze stupefacenti.
Pertanto, l’elemento al quale occorre fare anzitutto riferimento per la de­terminazione della competenza territoriale in tema di associazione a delinquere – ai sensi dell’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. – è quello del luogo di costituzione del vincolo associativo diretto allo scopo comune, ossia dì stipulazione del pac­tum sceleris.
Si tratta, invero, di un momento psicologico o meramente volitivo difficil­mente ricostruibile e databile; di una condotta manifestativa della volontà asso­ciativa che non sempre si estrinseca in forme sacramentali (come avviene, ad esempio, nei riti di affiliazione a determinate associazioni criminali particolarmen­te strutturate); dunque, in fin dei conti, di un elemento che spesso sfugge alla possibilità di un accertamento processuale in termini di obiettività, specie con ri­ferimento – per quanto qui d’interesse – all’individuazione del luogo in cui i soda­li hanno stretto il patto criminoso.
Nell’eventualità che l’elemento psicologico non possa essere accertato con sufficiente nitidezza, la regola posta dall’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. dovrà essere intesa nel senso che la competenza spetta al giudice del luogo in cui si è manifestato il primo atto di consumazione del reato obiettivamente riscontrato.
Si tenga presente, peraltro, che l’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. pone una regola diametralmente opposta a quella di cui all’art. 9, comma 1, cod. proc. pen., valorizzandosi nell’un caso il luogo in cui la consumazione ha avuto «inizio» e nell’altro quello dell’«ultimo luogo» in cui è avvenuta una parte dell’azione. Ma il contratto va risolto a favore della regola posta dall’art. 8 cod. proc. pen., stante il carattere espressamente residuale della disposizione successiva.
Dunque, in via graduata rispetto al momento “psicologico” del pactum sce­leris, ai fini della determinazione della competenza territoriale in tema di asso­ciazione a delinquere dovrà farsi riferimento al luogo in cui si manifesta per la prima volta l’effettiva operatività del sodalizio e si sviluppa il momento pro­grammatico e direzionale.
Molteplici possono essere le risultanze processuali che consentano di indi­viduare il luogo in cui è sorta l’associazione per delinquere o quello in cui la stes­sa è divenuta operativa, ideando, programmando o dirigendo la commissione dei reati fine ed eventualmente approntando e conservando (e, in più delle volte, occultando) i mezzi materiali necessari all’attuazione del piano criminoso. Esse vanno dalle intercettazioni telefoniche o dalle captazioni ambientali che attestino il raggiungimento dell’accordo illecito al rinvenimento di un “covo” dell’associazione, di depositi di armi o munizioni o di attrezzature varie comun­que utili alla commissione dei reati programmati. Nelle associazioni più struttura­te, in cui sia possibile ravvisare l’esistenza di una vera e propria “cupola”, po­trebbe essere individuato anche un vero e proprio luogo fisico in cui l’associazione si riunisce e assume le proprie decisioni operative.
Tali elementi prevalgono sul luogo di commissione dei singoli reati riferibili all’associazione, poiché il sodalizio prende vita già solo con il raggiungimento dell’accordo criminale fra i compartecipi.
I reati-fine costituiscono tuttavia, oltre che altrettante autonome condotte penalmente rilevanti, anche la manifestazione finale e materiale dell’esistenza e dell’operatività dell’associazione. Quindi, in via residuale, l’individuazione del giudice territorialmente competente dovrà avvenire avuto riguardo al luogo in cui l’operatività del sodalizio criminoso è divenuta esternamente percepibile per la prima volta mediante la commissione dei reati fine. Con l’avvertenza che, facen­dosi ancora applicazione della regola posta dall’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. e non dei criteri suppletivi di cui all’art. 9 cod. proc. pen., assume rilievo la commissione del primo reato fine e non già dell’ultimo.
6. In conclusione, è possibile affermare i seguenti princìpi di diritto:
“In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o fina­lizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, la competenza territoriale, in caso di connessione con i reati fine, deve essere determinata ai sensi dell’art. 16, commi 1 e 3, cod. proc. pen., ossia con riferimento al più grave dei reati connessi”.
“Qualora si proceda per il delitto di associazione per delinquere, anche di tipo mafioso o finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, da solo o connes­so con reati fine meno gravi, la competenza territoriale deve essere determinata – in base all’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. – facendo riferimento, se conosciu­to, al luogo in cui i sodali si sono consociati dando vita all’associazione medesima (pactum sceleris), giacché ai fini della consumazione del reato è sufficiente il raggiungimento dell’accordo criminale fra i compartecipi”.
“In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o fina­lizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, qualora non sia possibile individuare il luogo della pattuizione che ha dato vita al reato associativo, la competenza ter­ritoriale appartiene al giudice del luogo in cui l’operatività dell’associazione si è manifestata per la prima volta tramite elemento espressivo dell’esistenza del soda­lizio, quali una base operativa, un centro decisionale o altre simili manifestazioni materiali. Tali elementi, a prescindere dal tempo in cui sono scoperti o accertati, devono ritenersi logicamente e cronologicamente preesistenti alla commissione dei reati fine, sicché prevalgono su questi ultimi ai fini di determinare la compe­tenza territoriale ai sensi dell’art. 8, comma 3, cod. proc. pen.”.
“In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o fina­lizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, qualora le evidenze processuali non rendano manifesto né il luogo in cui ha preso vita l’associazione per delinquere né quello della sua concreta operatività organizzativa e decisionale, occorre far riferimento al luogo in cui è stato commesso il primo reato fine, a prescindere dalla sua gravità, in quanto manifestativo – ai sensi dell’art. 8, comma 3, cod. proc. pen. – della consumazione del reato associativo. Tuttavia, qualora i reati fine siano connessi a quello associativo, la competenza territoriale deve essere determinata ai sensi ai sensi deil’art. 16, comma 1, cod. proc. pen., e quindi con riferimento non al reato commesso per primo, bensì a quello più grave”.
7. Venendo al caso in esame, i giudici di merito hanno fatto corretta ap­plicazione dei principi di diritto sopra espressi.
Infatti, la Corte d’appello rileva che «non vi è alcun elemento concreto che consenta di ritenere che l’accordo criminoso tra gli associati sia maturato per la prima volta a Roma, onde poter radicare la competenza di quel tribunale». L’esistenza di una base dell’associazione nel territorio laziale costituisce, quindi, una mera deduzione difensiva non condivisa dai giudici di merito.
Pertanto, non potendosi fare riferimento ai criteri primari del luogo di co­stituzione o di operatività dell’associazione per delinquere – nei termini sopra ampiamente illustrati – correttamente la competenza territoriale è stata radicata in base al primo atto manifestativo certo della consumazione del reato associati­vo, ossia nel luogo in cui è stato commesso il primo dei reati fine.
8. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente, in sostanza, si lamenta della circostanza che la corte d’appello non avrebbe dato credito alla propria ri­costruzione dei fatti, piuttosto che a quella dell’accusa. Si tratta, dunque, di pro­spettazione alternativa in punto di fatto, come tale inammissibile in sede di legit­timità.
Infatti, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettu­ra alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Cor­te di cassazione si risolve sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, né deve con­dividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di ap­prezzamento (v. Sez. 6, n. 36546 del 03/10/2006 – Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007 – Servidei, Rv. 237652; Sez. 2, n. 7380 del 11/01/2007 – Messina ed altro, Rv. 235716).
Peraltro, nella specie, l’imputato non ha neppure precisato quale fossero con esattezza le censure d’appello alle quali la corte territoriale non avrebbe dato risposta, talché il dedotto vizio di motivazione non è neppure in astratto verifica­bile.
9. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la parte privata che ha proposto il ricorso deve essere condan­nata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *