Un ente canonico pubblico che non abbia mai chiesto o ottenuto il riconoscimento di persona giuridica nel diritto civile, va ritenuto un ente di fatto come tale soggetto alle regole del codice civile. I reati commessi dal rappresentante legale del suddetto ente vanno giudicati dall’autorità giudiziiaria italiana ex articolo 22 del Trattato fra Italia e Santa sede dell’11 febbraio 1929
Suprema Corte di Cassazione
sezione II penale
sentenza 12 maggio 2017, n. 23423
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DAVIGO Piercamillo – Presidente
Dott. RAGO Geppino – rel. Consigliere
Dott. DE SANTIS Anna Maria – Consigliere
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere
Dott. COSCIONI Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS), contro la sentenza del 06/04/2016 della Corte di Appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. RAGO. G.;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Romano Giulio, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. (OMISSIS) – condannato per tre episodi di appropriazione indebita aggravata in danno dell’ (OMISSIS) con sede in (OMISSIS) – ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza in epigrafe deducendo:
1.1. CARENZA DI GIURISDIZIONE;
Sostiene la difesa che l’imputato – nella sua qualita’ di presidente del Consiglio della suddetta (OMISSIS) – non avrebbe potuto essere giudicato dall’autorita’ giudiziaria italiana.
La difesa, sul punto, ha premesso che l’ (OMISSIS) e’ giuridicamente un semplice ente canonico che non e’ mai stato riconosciuto come persona giuridica civile nell’ordinamento italiano. In assenza di tale riconoscimento, cio’ che afferisce all’ordinamento canonico e’ di pertinenza dell’ordine della Chiesa, sul quale la Chiesa esercita la propria giurisdizione “indipendente e sovrana” ai sensi dell’articolo 7 Cost.. Di conseguenza, sarebbe “evidente il difetto di giurisdizione del giudice statale a far valere finalita’ previste da uno statuto di un altro ordinamento giuridico straniero, in riferimento ad una persona giuridica esistente esclusivamente in altro ordinamento e in relazione a reati previsti sono nell’ordinamento civile italiano, non in quello canonico”.
1.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 521 C.P.P..
La difesa denuncia la violazione della suddetta norma, in quanto pur essendo stato l’imputato tratto a giudizio quale Presidente di un inesistente comitato di garanzia dell’ (OMISSIS), era stato poi condannato nella diversa e mai contestata veste di amministratore di fatto.
1.3. ESTINZIONE DELL’ (OMISSIS)
Sostiene la difesa che entrambi i giudici di merito, travisando le prove in atti, non avevano considerato che, all’epoca dei fatti per cui e’ processo (2008/2010), le somme di cui all’imputazione non erano piu’ beni ecclesiastici, sicche’ l’imputato ne poteva liberamente disporre senza violare alcuna norma di legge o statutaria di (OMISSIS). Infatti, il suddetto ente era stato, sebbene implicitamente, soppresso dalla stessa autorita’ ecclesiastica in quanto gli scopi ed i fini del suddetto ente canonico erano stati assunti da (OMISSIS) s.c.a.r.l.: di conseguenza, le condotte contestate non potevano essere in violazione di scopi che l’ente canonico non perseguiva piu’ da oltre venti anni.
1.4. INSUSSISTENZA DELL’ELEMENTO MATERIALE
La difesa ha premesso che l’imputato era stato condannato per aver disposto delle somme della (OMISSIS) in violazione delle finalita’ dell’ente (articolo 2 Statuto) e della procedura per gli atti di straordinaria amministrazione (articolo 6). Sennonche’, obietta la difesa, “risulta per tabulas che i fini e gli scopi di cui all’articolo 2 dello Statuto (OMISSIS) non esistevano piu’ alla data dell’asserita commissione dei reati” a seguito della costituzione della (OMISSIS) s.c.a r.l. che aveva assunto le finalita’ di (OMISSIS) ente canonico. Di conseguenza, se gli scopi ed i fini dell’ (OMISSIS) ente canonico furono assunti dall’ (OMISSIS) scarl (costituita il 03/09/1987), sarebbe evidente che “le condotte contestate al (OMISSIS) tra il 2008 ed il 2010” non avrebbero potuto essere in violazione di scopi e fini che l’ (OMISSIS) ente canonico non perseguiva piu’ da oltre vent’anni.
In particolare, poi, la difesa contesta che il cd “Fondo Brianti” sarebbe appartenuto ad (OMISSIS) ente ecclesiastico: in realta’, il suddetto fondo era passato da Mons. (OMISSIS) a Mons. (OMISSIS) che lo aveva fatto restare bene privato del tutto svincolato dalla giurisdizione canonica, contrariamente a quanto sostenuto da entrambi i giudici di merito che avevano travisato le prove sul punto.
1.5. VIOLAZIONE DELL’ART. 157 C.P..
Ad avviso della difesa, il (OMISSIS) non aveva mai fatto confluire nel fondo (OMISSIS) ente canonico le somme di cui all’imputazione, avendole trattenute per se’ fin dal 1984 e comportandosi, da tale momento, come se fossero denari non dell’ente ma propri. Di conseguenza, il dies a quo avrebbe dovuto essere fatto decorrere dal 1984 con conseguente declaratoria della prescrizione.
1.6. VIOLAZIONE DELL’ART. 61 C.P., N. 11.
La difesa ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto sussistente la suddetta aggravante. Infatti, secondo l’assunto difensivo, il ricorrente era cessato dall’ufficio di Presidente dell’ (OMISSIS) ente canonico dal 1989, sicche’, da tale data non aveva avuto piu’ alcun rapporto privatistico con il suddetto ente ormai estinto. Di conseguenza, al ricorrente non poteva essere contestata un’aggravante che presuppone l’abuso di una qualche forma di autorita’ che egli non rivestiva. Mancando l’aggravante, il reato avrebbe dovuto essere dichiarato improcedibile per mancanza di querela.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. CARENZA DI GIURISDIZIONE;
La censura – dedotta per la prima volta in questa sede – e’ manifestamente infondata.
In punto di fatto, e’ pacifico che (OMISSIS) “e’ un ente di diritto canonico, classificabile tra le persone pubbliche di diritto canonico, eretto il 10/11/1954 nell’Arcidiocesi di Udine dal Mons. (OMISSIS) (…) per il perseguimento di finalita’ caritatevoli ed assistenziali (…) e’ incontroverso che (OMISSIS) sia stato un ente canonico pubblico e non abbia mai chiesto, o ottenuto, riconoscimento di persona giuridica nel diritto civile, ne’ il suo statuto sia mai stato depositato presso il pubblico registro delle imprese” (pag. 7-8 sentenza di primo grado).
Questo essendo il pacifico presupposto di fatto (ammesso dalla stessa difesa nel presente ricorso), la conseguenza giuridica, per pacifica e consolidata dottrina, e’ che il suddetto ente, va considerato come un ente di fatto (cosi’ come ritenuto peraltro dallo stesso tribunale che lo ha definito un “ente di fatto atrofizzato”: pag. 9 sentenza) soggetto, come tale, alle regole del cod. civile proprio perche’, operando sul territorio nazionale, non puo’ che essere soggetto, comunque, alle regole dello Stato Italiano, pur non avendo inteso richiedere (o ottenuto) il riconoscimento.
Da cio’ consegue, quindi, la piena e completa sottoposizione alla giurisdizione italiana sia civile che penale.
In particolare, quanto alla giurisdizione penale, si rammenta che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimita’, “ai fini dell’annoverabilita’ di un ente o istituto ecclesiastico tra gli “enti centrali della Chiesa” – i quali, ai sensi dell’articolo 11 del Trattato fra l’Italia e la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, reso esecutivo in Italia con legge 27 maggio 1929 n.810, sono “esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato” – non e’ sufficiente che esso sia dotato di personalita’ giuridica, ma accorre anche che rientri fra gli organismi che, come le Congregazioni, i Tribunali e gli Uffici, costituiscono la Santa Sede in senso lato, facendo parte della Curia romana e provvedendo al governo supremo, universale della Chiesa cattolica nello svolgimento della sua missione spirituale nel mondo”: Cass. 22516/2003 rv. 224185; Cass. 41786/2015 rv. 264775.
Nel caso di specie, quindi, poiche’ non e’ neppure minimamente ipotizzabile che l’ (OMISSIS) possa rientrare fra gli tra gli “enti centrali della Chiesa”, sicuramente, i fatti commessi da cittadini italiani (tale e’ il ricorrente) nel territorio italiano che siano sussumibili entro fattispecie di natura penale, vanno giudicati dall’autorita’ giudiziaria italiana come si desume, peraltro, da un’agevole lettura a contrario dell’articolo 22 del Trattato fra la Santa Sede e l’Italia sottoscritto l’11 febbraio 1929.
La censura, pertanto, va dichiarata inammissibile alla stregua del seguente principio di diritto: “un ente canonico pubblico che non abbia mai chiesto, o ottenuto, riconoscimento di persona giuridica nel diritto civile, ne’ il suo statuto sia mai stato depositato presso il pubblico registro delle imprese, va ritenuto un ente di fatto come tale soggetto alle regole del cod. civile. Di conseguenza, non potendo il medesimo rientrare tra gli enti centrali della Chiesa – esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato ex articolo 11 del Trattato fra l’Italia e la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, reso esecutivo in Italia con L. 27 maggio 1929, n. 810 i reati commessi dal rappresentante legale del suddetto ente vanno giudicati dall’autorita’ giudiziaria italiana ex articolo 22 del cit. Trattato”.
2. VIOLAZIONE DELL’ART. 521 C.P.P..
La censura e’ manifestamente infondata.
Sul punto, e’ sufficiente il rinvio alla lettura della pagina 11 della sentenza impugnata, in cui la Corte Territoriale, ha disatteso la medesima censura sulla base di puntuali elementi di fatto dai quali risulta che l’imputato “operava come indiscusso e incontrollato rappresentante di (OMISSIS), titolare dei conti correnti dell’ente, quale Presidente del comitato di garanzia”.
Corretta, quindi, deve ritenersi la conclusione giuridica e cioe’ che “irrilevanti appaiono le denominazioni con il quale il (OMISSIS) si autoqualificava e spendeva nel compimento dei vari atti (….) perche’ cio’ che rileva e’ che il medesimo ha sempre operato come rappresentante indiscusso dell’ente, disponendo, al di fuori di ogni controllo dell’Ordinario, dei beni dell’ente canonico (…)”.
Si noti che, come risulta dalla sentenza impugnata, la documentazione sulla base della quale la Corte Territoriale e’ giunta alla suddetta conclusione, fu prodotta dallo stesso imputato alla G. di F. (e, poi acquisita nel corso del processo), sicche’ deve ritenersi ampiamente tutelato il diritto di difesa, proprio perche’ l’addebito relativo alle tre condotte appropriative derivava proprio dal ruolo di rappresentante dell’ente, su questo aspetto e’ ruotato tutto il processo e su questo aspetto l’imputato ha avuto ampiamente il modo di difendersi.
3. ESTINZIONE DELL’ (OMISSIS);
E’ questo, nel merito, il punto n (OMISSIS)le di tutto il processo.
La difesa, infatti, sostiene che l’ (OMISSIS) ente canonico si era giuridicamente estinto molti anni prima delle pretese appropriazioni.
Da tale tesi vengono fatte discendere, “a cascata” le seguenti conseguenze giuridiche:
a) la non titolarita’ in capo all’ente delle somme oggetto di appropriazione delle quali l’imputato, quindi, poteva liberamente disporre senza dover rendere conto a chicchessia: cfr supra § 1.4. della presente parte narrativa;
b) la prescrizione degli asseriti fatti appropriativi: supra § 1.5.;
c) la non configurabilita’ dell’aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 11, e, quindi, la non procedibilita’ per mancanza di querela: supra § 1.6.
Questa Corte osserva che la suddetta questione ha costituito oggetto di ampio dibattito processuale in entrambi i gradi del giudizio di merito (cfr pag 9 ss della sentenza di primo grado; pag. 6 ss della sentenza impugnata), alla quale entrambi i giudici di merito, dopo avere ricostruito i fatti, hanno dato una conforme e congrua risposta sulla base di puntuali riscontri di natura fattuale e logica, disattendendo, quindi, la tesi difensiva dell’imputato riproposta in modo tralaticio nuovamente in questa sede di legittimita’.
Pertanto, la censura, essendo tutta incentrata, surrettiziamente, su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, va dichiarata manifestamente infondata.
Infatti, in tema di controllo sulla motivazione – non essendo ammissibile la denuncia del vizio del “travisamento del fatto”: ex plurimis Cass. 25255/2012 rv. 253099 – alla Corte di cassazione e’ normativamente preclusa la possibilita’ di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi e, quindi, di procedere ad una surrettizia rivalutazione del merito, potendo solo procedere a valutare la tenuta logica della motivazione (che, quindi, non dev’essere, ictu oculi, manifestamente illogica, dovendo il sindacato di legittimita’ essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze: ex plurimis SSUU 24/1999) e che la medesima sia rispettosa della regola di giudizio compendiata nella formula “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”.
Cio’ comporta che il vizio di motivazione va escluso quando il ragionamento sia effettivamente adeguato a superare il ragionevole dubbio e, per, converso sussiste quando le alternative proposte dalla difesa siano logiche e fondate su elementi di prova acquisiti al processo e regolarmente prospettati.
Infatti, la condanna puo’ essere pronunciata a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualita’ remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benche’ minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalita’ umana (Cass. 17921/2010 Rv. 247449; Cass. 2548/2015 Rv. 262280; Cass. 20461/2016 Rv. 266941).
Nel caso di specie, non e’ ravvisabile alcun vizio motivazionale sotto il profilo dell’al di la’ di ogni ragionevole dubbio, perche’ il giudice di merito, ha pronunciato sentenza di condanna sulla base di un compendio probatorio formato da indizi gravi, precisi e concordanti ex articolo 192 c.p.p., comma 2 ed ha contestualmente escluso, con motivazione logica e congrua, la tesi alternativa prospettata dalla difesa in quanto priva di ogni riscontro processuale e, quindi, non razionalmente plausibile.
Quanto, poi, ai pretesi “travisamenti della prova” (su cui, in pratica, si fondano tutte le censure dedotte), in punto di diritto, va osservato che, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Cass. 25255/2012 cit., in motivazione), qualora ci si trovi innanzi ad una cd. doppia conforme (doppia pronuncia di uguale segno) il vizio di travisamento della prova puo’ essere rilevato in sede di legittimita’ solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato e’ stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Infatti, in considerazione del limite del devolutum (che impedisce che si recuperino, in sede di legittimita’, elementi fattuali che comportino la rivisitazione dell’iter costruttivo del fatto, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice) il sindacato di legittimita’, deve limitarsi alla mera constatazione dell’eventuale travisamento della prova, che consiste nell’utilizzazione di una prova inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di prova incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettivita’, da quello effettivo.
Ma, nulla di tutto questo e’ ravvisabile nel ricorso in esame con il quale il ricorrente, sulla base del medesimo compendio probatorio, si e’ limitato a riproporre la propria tesi difensiva.
Dall’inammissibilita’ della suddetta questione, discende come logica conseguenza, anche l’inammissibilita’ delle ulteriori censure di cui ai §§ 1.4. – 1.51.6. illustrate in parte narrativa e disattese da entrambi i giudici di merito con motivazioni conformi amplissime, logiche, congrue e coerenti con l’univoco compendio probatorio correttamente analizzato e valutato e senza che in esse siano ravvisabili errori di diritto: quanto alla violazione dell’articolo 61 c.p., n. 11 cfr. pag. 15 sentenza impugnata; quanto alla dedotta prescrizione, la medesima, sulla base di quanto si e’ detto, dovendosi far decorrere dalla consumazione dei singoli atti appropriativi, non era ancora maturata alla data della sentenza di appello.
4. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’articolo 606 c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.500,00.
P.Q.M.
DICHIARA inammissibile il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento a favore della Cassa delle Ammende.
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