Suprema Corte di Cassazione 

sezione I

sentenza n. 31460, del 1 agosto 2012

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 22 febbraio 2011, la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ha ridotto da anni 10 ad anni 9 e mesi 4 di reclusione la pena inflitta dal G.U.P. del Tribunale di Rossano con sentenza del 9 maggio 2008 a S.N., per il delitto di omicidio volontario della propria moglie F.S., da lui presa per il collo, violentemente e ripetutamente sbattendone la testa contro i muri e contro il pavimento della cucina, in tal modo cagionando alla F. un imponente trauma cranico encefalico, in esito al quale la stessa decedeva dopo due giorni (lesioni inferte l’omissis); decesso della vittima avvenuto alle ore 2,40 del (omissis).
Con le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante di cui all’art. 577 secondo comma c.p.; con la pena ridotta per il rito abbreviato prescelto.
2. La Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha ridotto la pena al S. avendolo ritenuto meritevole delle attenuanti generiche nella massima estensione consentita dalla legge.
3. Il delitto in esame è avvenuto intorno alle 10,00 di domenica (omissis), in (omissis), nell’abitazione dove vivevano sia l’imputato che la vittima, sua moglie, già separati fin dal (omissis), con il primo piano assegnato alla vittima ed il piano seminterrato assegnato all’imputato, che lavorava in (omissis) ed era rientrato in (omissis) per le festività natalizie e per stare in compagnia del loro figlio minore A.; la vittima aveva invero un’altra figlia, L., nata dalla sua unione con altro uomo.

Esso è scaturito da un litigio iniziato fra i due coniugi separati per l’uso della lavatrice, ubicata nel seminterrato di pertinenza dell’imputato e che la vittima intendeva utilizzare, contro la volontà dell’imputato, che temeva un eccessivo abbassamento della tensione elettrica dell’appartamento, per essere in funzione altri elettrodomestici; la discussione fra i due era degenerata, trasformandosi in un violento alterco, nel corso del quale la donna lo aveva minacciato di non fargli vedere il figlio minore A. fino alla sua partenza, sino a pervenire al tragico epilogo sopra descritto.
4. La ricostruzione dei fatti è avvenuta sulla base delle dichiarazioni rese dai due figli della coppia, in particolare dal figlio minore A., presente sul luogo al momento del fatto; d’altra parte lo stesso imputato si era recato, subito dopo i fatti, presso la locale stazione dei carabinieri, ammettendo le proprie responsabilità.
5. Avverso detta sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ricorre per cassazione S.N. per il tramite del suo difensore, che ha dedotto tre motivi di ricorso.
Col primo motivo lamenta la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per verificare la patologia psichiatrica da cui era affetto e l’incidenza che la stessa aveva avuto sulla sua capacità d’intendere e volere, in quanto gli stessi consulenti del P.M. non avevano ritenuto normale il quadro psichico di esso ricorrente, avendo riscontrato disturbi psichici di lontana origine accentuati dalla separazione con la moglie e dalla lontananza dal figlio durante la sua permanenza solitaria in (omissis) e dal paventato pericolo di perdere il figlio e la casa, dopo aver perso già la moglie.
Sarebbe stata necessaria un’indagine psichiatrica, onde apprezzare od escludere effetti condizionanti di una patologia tale da incidere sul suo potere di autocontrollo; e non potevano ritenersi sufficienti allo scopo gli accertamenti svolti dai consulenti del P.M.; in particolare la psicologa Dott.ssa M. aveva segnalato una sua difficoltà di controllo degli impulsi in presenza di stimoli a contenuto emotivo, nonché una patologia psichiatrica, della quale non era stata tuttavia accertata l’effettiva serietà clinica e la possibile incidenza sul controllo dell’agire, tale da escludere ovvero ridurre notevolmente la sua capacità d’intendere e volere al momento del fatto.
Con il secondo motivo lamenta erronea applicazione di legge e motivazione carente circa la mancata qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale.

La sentenza impugnata aveva ritenuto sussistente la sua volontà omicidiaria, avendo ricostruito l’aggressione subita dalla moglie sulla base di quanto era stato narrato dai due figli della vittima, di cui uno minore; e da tali deposizioni era stato rilevato come egli avesse afferrato per il collo la moglie, sbattendone a più riprese la testa contro il muro, il pavimento ed i mobili della cucina, fino a determinarne il grave traumatismo, che aveva condotta la vittima a morte; non erano stati tenuti presenti altri indizi di opposto segno, quali:
– l’avere egli immediatamente avvertito i carabinieri dell’accaduto per fare soccorrere la moglie, da lui lasciata a casa viva e vigile e senza vistose ferite;
– la mancanza di segni evidenti di violenza sul corpo della vittima, si che era rimasta priva di riscontri l’ipotizzata ed enfatizzata reiterazione di violenti colpi da lui inferti alla vittima;
– la modestissima rilevanza della lesività della stretta, da lui esercitata sul collo della vittima, incompatibile con un’azione diretta ad uccidere, in quanto detto suo intento avrebbe potuto essere facilmente attuato appunto sul collo della vittima, che avrebbe offerto ben poca resistenza;
– la stessa natura del trauma cranico arrecato, avendo esso presentato una sola lesione di modeste dimensioni e senza perdita di sangue.
Era pertanto evidente che la sua volontà non era stata quella di uccidere la vittima, quanto piuttosto quella di colpirla e ferirla.
Col terzo motivo lamenta erronea applicazione di legge e carenza di motivazione circa il diniego dell’attenuante della provocazione, in quanto, ai fini del riconoscimento della provocazione, occorreva tener conto di tutti i comportamenti anteriori tenuti dalla vittima, la quale aveva unilateralmente deciso di separarsi; lo aveva lasciato solo in (omissis) per vivere in (omissis) con la figlia nata da altro matrimonio; aveva deciso di vendere la casa costruita con i proventi del duro lavoro da lui svolto all’estero; lo aveva più volte minacciato di non fargli più vedere il figlio nato dalla loro unione.
Trattavasi di elementi idonei ad integrare il fatto ingiusto, la cui presenza avrebbe consentito il riconoscimento in suo favore dell’attenuante in questione, sussistendo il rapporto di causalità psicologica fra detti comportamenti e la reazione da lui attuata, non potendo ritenersi che l’attenuante della provocazione richiedesse, per il suo riconoscimento, altresì il requisito della proporzionalità con il grave reato da lui commesso.

Considerato in diritto

1. È infondato il primo motivo di ricorso proposto da S.N..
2. Con esso il ricorrente lamenta che i giudici di merito non abbiano riconosciuto la completa ovvero parziale sua incapacità d’intendere e volere al momento del fatto.
Va rilevato che la medesima doglianza era stata proposta dall’odierno ricorrente anche nel giudizio di appello, nel corso del quale il S. aveva chiesto che, previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, venisse espletata perizia psichiatrica sulla sua persona, onde accertare la sussistenza del vizio totale o parziale di mente; e la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, con motivazione ampia ed esaustiva, aveva respinto la richiesta, facendo presente che già nel corso delle indagini preliminari era stata svolta sulla persona dell’imputato una consulenza medico psichiatrica, la quale aveva evidenziato che l’imputato fosse affetto da semplice depressione reattiva di grado moderato, tendente a risolversi col passare del tempo e comunque non connotata da elementi degenerativi.
Trattavasi dunque di disturbi della personalità ovvero di anomalie psicotiche le quali, pur potendo incisivamente connotare in generale le sue attitudini relazionali, non erano di per sé sole annoverabili fra gli stati morbosi della psiche, tali da escludere o diminuire grandemente, ex artt. 88 ed 89 c.p., la capacità d’intendere e volere dell’agente.
Ritiene questa Corte di dover confermare la motivazione anzidetta, siccome immune da vizi logici e da contraddizioni.
Va aggiunto che, per riscontrare l’incapacità d’intendere e volere totale o parziale, non basta affermare che un soggetto sia affetto da un disturbo della personalità di matrice psicotica, essendo necessario dimostrare che questo disturbo abbia un nesso eziologico con lo specifico fatto di reato commesso, si da poter qualificare tale disturbo come la causa della condotta criminosa.
Invero la sentenza delle SS. UU. di questa Suprema Corte n. 9163 del 25/1/2005, Raso, Rv. 230317, sebbene abbia riconosciuto che le infermità di mente non sono solo quelle a base organica clinicamente accertabili, ma possono essere anche i disturbi della personalità o comunque tutte quelle anomalie psichiche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica, è stata ben chiara nel precisare che queste ultime, per comportare l’esclusione o l’attenuazione della imputabilità, devono essere di gravità ed intensità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere.
Nella sentenza delle Sezioni Unite, di cui sopra, è stato cioè condivisibilmente rilevato che, fermo restando l’accertamento in concreto del nesso eziologico fra il disturbo rilevato, che può essere anche transeunte, e l’azione delittuosa commessa, possono acquistare rilievo, ai fini dell’applicazione degli artt. 88 ed 89 c.p., solo quei disturbi della personalità, che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sull’imputabilità.

Deve quindi trattarsi di un disturbo idoneo a determinare e che in effetti abbia determinato una situazione psichica incontrollabile ed ingestibile, tale da rendere l’agente incolpevolmente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di indirizzarli e di percepire il disvalore del fatto commesso (cfr., in termini, Cass. I 26.9.07 n. 37353).
Non risulta che l’accertamento medico svolto nei confronti dell’odierno ricorrente nel corso delle indagini preliminari abbia rilevato una situazione psichica dell’agente così compromessa e caratterizzata da connotati di così grave consistenza da incidere concretamente sulla sua imputabilità; pertanto la motivazione addotta sul punto dalla sentenza impugnata appare adeguata e condivisibile.
3. È altresì infondato il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta la mancata qualificazione del reato da lui commesso come omicidio preterintenzionale.
4.Invero la sentenza impugnata è pienamente condivisibile nella parte in cui ha escluso la qualificazione del reato ascrittogli come omicidio preterintenzionale, di cui all’art. 584 c.p.
Il criterio distintivo fra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede nell’elemento psicologico, atteso che, nell’ipotesi della preterintenzione, la volontà dell’agente dev’essere diretta a percuotere od a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte; nell’omicidio volontario la volontà dell’agente deve consistere nell’intenzione di arrecare la morte, intesa quale dolo intenzionale, nelle sue note graduazione di dolo diretto e di dolo eventuale.
L’accertamento dell’uno o dell’altro elemento psicologico è rimesso alla valutazione rigorosa degli elementi oggettivi desumibili dalle concrete modalità della condotta; e, come in precedenza riferito, i giudici di merito, con motivazione pienamente condivisibile, hanno rilevato come la volontà del S. sia stato diretta a cagionare la morte della propria moglie F.S. (cfr. Cass. I, 20.5.01 n. 25239; Cass. I 4.7.07 n. 35369). Tanto è stato desunto dalle modalità con le quali il ricorrente ha causato la morte della F., essendo emerso che quest’ultima, peraltro di esile corporatura (era alta appena 1 metro e 55 centimetri, come desumesi dalla sentenza di primo grado, cfr. pag. 13), è stata afferrata per la gola ed è stata più volte sbattuta col capo contro i muri, i mobili ed il pavimento della cucina, non desistendo da tale suo comportamento violento neppure una volta percepita la presenza del figlio minore A., accorso a seguito del trambusto da lui creato; e tale comportamento, reiterato nel tempo e contraddistinto da indubbia ferocia ed accanimento, è stato correttamente valutato dai giudici di merito per inferirne che il ricorrente ha voluto esattamente la morte della F. , nei confronti della quale nutriva da tempo risentimento, per via della separazione in atto.

5. È altresì infondato il terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta la mancata concessione in suo favore dell’attenuante della provocazione, di cui all’art. 62 n. 2 c.p..
È noto che, ai fini della configurabilità dell’attenuante in parola, occorrono:
a) – uno stato d’ira, costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso particolarmente intenso ed irrefrenabile, tale da determinare la perdita dei poteri di autocontrollo e da generare un forte turbamento, caratterizzato da violenti impulsi aggressivi;
b) – un fatto ingiusto altrui, che può consistere non solo in un comportamento antigiuridico in senso stretto, ma anche nell’inosservanza di norme sociali o di costume che regolano l’ordinaria convivenza civile;
c) – un rapporto di causalità psicologica fra l’offesa e la reazione, che può anche prescindere dalla sussistenza di una proporzionalità fra la prima e la seconda (cfr. Cass. V 13.2.04 n. 12558; Cass. I 1.2.08 n. 9775).
Ora, dalla condivisibile ricostruzione dei fatti, operata dai giudici di merito, è da escludere che l’azione delittuosa del ricorrente sia stata determinata da un comportamento ingiusto tenuto dalla parte offesa, avendo i giudici di merito ritenuto, con valutazioni di fatto insindacabili nella presente sede di legittimità, siccome sorrette da adeguata motivazione, che il comportamento tenuto dalla vittima non potesse qualificarsi come ingiusto.
Invero la vittima ha iniziato a discutere animatamente con il ricorrente solo a seguito di un ingiustificato diniego frapposto da quest’ultimo all’uso della lavatrice, ubicata nella porzione di casa (seminterrato), assegnata in uso al ricorrente, diniego inteso evidentemente dalla vittima come una gratuita prevaricazione, si da indurla a sua volta a minacciare il ricorrente di non fargli più vedere il figlio minore A..
Non è pertanto ravvisabile nella specie uno degli elementi indispensabili per ritenere sussistente l’attenuante in parola e cioè la possibilità di qualificare il comportamento tenuto dalla parte offesa come un fatto ingiusto; né può ritenersi, come sostenuto dal ricorrente che, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante in esame, possa farsi riferimento ad eventi remoti e stratificatisi nel corso dei mesi, occorrendo al contrario prendere in esame solo gli accadimenti prossimi all’evento, al quale esso è da collegare.
6. Il ricorso proposto da S.N. va pertanto respinto nella sua interezza, con sua condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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