fallimento-impresa

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza del 9 maggio 2014, n. 10105

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 19363/2012 proposto da:
S.F., in proprio quale socia della società fallita
– ricorrente –
contro
EQUITALIA SUD S.P.A
FALLIMENTO N. (OMISSIS) DELLA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del Curatore fallimentare prof avv. L.A.M
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2969/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/06/2012;
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo proposto, ai sensi della L. Fall., art. 18, avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 15 novembre 2011, che ha dichiarato il fallimento della Assioma s.r.l. in liquidazione, cancellata dal registro delle imprese il 19 novembre 2010. La corte ha osservato:
– che sussiste, ai sensi della L. Fall., art. 10, la legittimazione dell’ultima liquidatrice, pur essendo stata la società cancellata dal registro delle imprese;
– che il dies a quo del termine annuale, previsto da questa disposizione, decorre dalla (iscrizione della) cancellazione della società dal registro delle imprese, non dalla relativa domanda;
– che sussiste lo stato di insolvenza, sebbene la società, posta in liquidazione il 6 ottobre 2009, il successivo 22 dicembre abbia costituito un c.d. trust liquidatorio, cui ha conferito l’intera azienda, comprensiva dei debiti e dei crediti, denominato OMISSIS e del quale è trustee la Dott.ssa S., già liquidatrice della società, provvedendo quindi alla cancellazione della stessa dal registro delle imprese il 19 novembre 2010. Ha ritenuto, invero, la Corte che la Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata con L. 16 ottobre 1989, n. 364, esclude si possa impedire l’applicazione della lex fori in tema di protezione dei creditori in caso d’insolvenza e che tale strumento sia stato utilizzato in funzione illecita: ciò in quanto l’entità del debito nei confronti di Equitalia Sud s.p.a. e gli infruttuosi tentativi di pignoramento, il ridotto attivo residuo, la costituzione del trust da parte del legale rappresentante della società che ha pure il ruolo di trustee ed il mancato compimento di qualsiasi concreta attività di liquidazione (non essendo indicato nel c.d. libro degli eventi quali di tali attività siano state avviate nei confronti dei creditori sociali) rendono apprezzabile il pericolo che il trust sia stato di fatto utilizzato per eludere la disciplina concorsuale, tenuto conto anche della successiva cancellazione della società dal registro delle imprese; mentre i beni e crediti conferiti nel trust non consentono comunque il pagamento dei debiti scaduti.
Ha proposto ricorso avverso questa sentenza S.F., nella qualità di ultima liquidatrice della Assioma s.r.l., articolando otto motivi.
Resistono la curatela ed Equitalia Sud s.p.a. con controricorso.
Motivi della decisione
1. – I motivi. La società fallita deduce:
1) la violazione della L. Fall., artt. 10 e 15, art. 2495 c.c., e art. 75 c.p.c., per avere la corte d’appello ritenuto legittimato a partecipare al procedimento per la dichiarazione di fallimento, per conto della società, l’ultimo liquidatore, sebbene la società sia ormai cancellata dal registro delle imprese e dunque estinta, onde l’istanza per la dichiarazione di fallimento avrebbe dovuto essere notificata a tutti i soci;
2) la violazione degli artt. 156, 257 e 160 c.p.c., per avere la corte d’appello reputato valida la notificazione dell’istanza al liquidatore, privo ormai di ogni collegamento con la società estinta, trattandosi di notificazione inesistente;
3) l’omessa o insufficiente motivazione circa la decorrenza del termine annuale di cui alla L. Fall., art. 10, dalla corte territoriale individuata nel momento dell’avvenuta iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in luogo che dalla domanda, risalente al giorno 11 novembre 2010, senza considerare che, invece, l’effetto della cancellazione deve retroagire a tale data;
4) la violazione della L. Fall., art. 10, e art. 2495 c.c., per avere la corte d’appello ancorato la decorrenza del termine in questione all’effettiva iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società, contro il principio generale, espresso in tema di notificazioni, secondo cui i tempi tecnici degli uffici pubblici non possono gravare sulla parte che presenta l’istanza; e tenuto conto del fatto che il termine annuale per l’imprenditore persona fisica decorre dal suo venir meno, non dalla data di registrazione dell’evento, mentre anche l’ipoteca ha effetto costitutivo sin dalla domanda;
5) la contraddittoria motivazione in ordine all’esistenza dello stato di decozione, nonostante la costituzione del trust proprio al fine di liquidare l’ingente patrimonio aziendale, senza tenere conto del fatto che, pur reputando inopponibile od invalido il trust, la conseguenza sarebbe l’attribuzione alla società del patrimonio conferito e l’inesistenza dell’insolvenza;
6) la violazione degli artt. 101 e 102 c.p.c., per non essere stato convocato nel procedimento anche il trust, dal momento che la corte del merito si è pronunciata circa la validità del medesimo, sia pure incidentalmente;
7) la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la corte d’appello affermato l’invalidità del trust, sebbene non domandata dalla creditrice istante Equitalia Sud s.p.a.;
8) l’omessa o insufficiente motivazione sui fatti comprovanti la liceità del trust, sebbene documentati dalla società, quali la segregazione dei beni conferiti rispetto al patrimonio personale del trustee, la disponibilità dei beni a favore dei creditori, che di esso sono i beneficiari, la condizione risolutiva apposta al trust per l’ipotesi di fallimento della società preponente, il compimento di una serie di attività in favore della liquidazione e la messa a disposizione del curatore di tutto quanto in possesso del trust.
2. – Società cancellata e fallimento. Il primo ed il secondo motivo, da trattare congiuntamente, in quanto fra di loro connessi, sono infondati.
Come ormai chiarito dalle Sezioni Unite nel 2013 (Sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072), il legislatore ha operato una fictio limitata alla procedura fallimentare.
Hanno precisato le Sezioni unite che alla situazione processuale della società cancellata dal registro delle imprese in seguito a liquidazione la legge pone un’eccezione con la L. Fall., art. 10: ove il fallimento venga dichiarato entro un anno dalla cancellazione, la società (in persona del legale rappresentante) continua ad essere destinataria della sentenza dichiarativa e delle successive vicende impugnatorie: è una fictio iuris che postula la società esistente, ma ai soli fini del fallimento, nel quale dunque il contradditorio si instaura con l’ultimo rappresentante legale, ossia l’amministratore o il liquidatore. Il principio, che in precedenza era stato già affermato (Cass. 5 novembre 2010, n. 22547) ed in seguito è stato ribadito in fattispecie del tutto simili alla presente (Cass., sez. 1^, 30 maggio 2013, n. 13659; 11 luglio 2013, n. 17208; 26 luglio 2013, n. 18138; 13 settembre 2013, n. 21026; 6 novembre 2013, n. 24968), implica una fictio di esistenza del soggetto collettivo, ai soli fini dell’istruttoria prefallimentare e delle successive impugnazioni.
Nè è fondata la tesi della ricorrente, secondo cui la L. Fall., art. 10, postulerebbe la notificazione ai soci, e non alla società, in parallelismo all’ipotesi dell’imprenditore individuale, dal momento che in quest’ultimo caso i successori universali sono gli unici soggetti con in quali è ipotizzabile l’instaurazione del contraddittorio, ma la loro posizione non è assimilabile in toto a quella del fallito, tanto che non ne occorre l’audizione se non abbiano compiuto atti di prosecuzione dell’impresa; laddove, per le società, l’instaurazione del contraddittorio con gli organi sociali è funzionale, al tempo stesso, alle esigenze dell’istruttoria prefallimentare e alla difesa dell’impresa (in termini, la citata Cass., sez. 1^, 26 luglio 2013, n. 18138).
3. – Il dies a quo L. Fall., ex art. 10. Il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto entrambi vertenti sul dies a quo della decorrenza termine annuale di cui alla L. Fall., art. 10, e sono infondati.
Il testo originario della L. Fall., art. 10, prevedeva che l’imprenditore, che pure avesse “cessato l’esercizio dell’impresa”, potesse essere dichiarato fallito entro un anno (sempre che l’insolvenza si fosse manifestata anteriormente o nell’anno successivo), con espressione tuttavia non univoca, potendo riferirsi sia alla cancellazione della società e sia alla mera disgregazione dell’azienda come iniziativa imprenditoriale.
L’orientamento dominante in giurisprudenza reputava non cessata l’impresa collettiva sino a quando esistessero rapporti pendenti, con conseguente ammissibilità della liquidazione concorsuale; la sentenza della Corte costituzionale del 21 luglio 2000, n. 319 dichiarò la norma incostituzionale, nella parte in cui non prevedeva che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell’impresa collettiva decorresse, per le società, dalla cancellazione dal registro delle imprese.
Il nuovo testo della L. Fall., art. 10, risultante dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 9, con l’espressione “cancellazione” ha recepito il portato del giudice delle leggi divenendo l’iscrizione della cancellazione il dies a quo del termine annuale per la fallibilità delle società cancellate.
Nessun elemento autorizza ad interpretare la disposizione con riferimento alla diversa data di presentazione della domanda di iscrizione. Il registro delle imprese, per la sua funzione pubblicitaria, dichiarativa o costitutiva degli effetti, impone l’iscrizione dell’evento; e la legge prevede il prodursi degli effetti proprio dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta (cfr. già gli artt. 2193 e 2448 c.c.), a tutela dei terzi; mentre l’esigenza di seguire un procedimento amministrativo per giungere all’iscrizione stessa resta irrilevante i fini predetti, che possono dirsi raggiunti soltanto con il suo perfezionamento.
Del resto, laddove l’ordinamento ha voluto ammettere effetti retroattivi dell’iscrizione rispetto a tale momento, lo ha espressamente previsto (art. 2504 bis c.c., che pone il criterio generale ex lege di decorrenza degli effetti dalla data dell’ultima iscrizione dell’atto di fusione, derogabile, nel rispetto di determinati presupposti, con pattuizione di una data antecedente o posteriore e solo riguardo a specifici profili; art. 2504 decies c.c.).
Nè, come assume invece la ricorrente, può operarsi alcuna analogia, attese le rationes affatto distinte, con gli effetti della notificazione di un atto del processo, ove vige il principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, o con l’ipotesi dell’imprenditore persona fisica, ove non è certo l’evento formale della iscrizione – a differenza che per le società di capitali – a produrre l’effetto estintivo.
In modo speculare, questa Corte ha già statuito che la fallibilità dell’imprenditore purchè la dichiarazione pervenga entro il termine di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, pur ponendo a carico del creditore che ha tempestivamente presentato istanza di fallimento il rischio della durata del relativo procedimento, non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.: ed ha osservato in particolare come, con riferimento al diritto di difesa, la previsione di un termine annuale rappresenta il punto di mediazione nella tutela di interessi contrapposti, quali, da un lato, quelli dei creditori, e, dall’altro, quello generale alla certezza dei rapporti giuridici (Cass., sez. 1^, 12 aprile 2013, n. 8932).
La stessa esigenza di certezza si pone con riguardo alla questione all’esame, in ordine alla quale deve, in conclusione, affermarsi il principio che, ai sensi della L. Fall., art. 10, ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento di un’impresa svolta in forma societaria, occorre fare riferimento alla data della sua effettiva cancellazione dal registro delle imprese, a nulla rilevando nei confronti dei terzi il diverso momento in cui la relativa domanda sia stata presentata presso il registro delle imprese.
4. – Il trust. I rimanenti motivi, dal quinto all’ottavo, vertono sull’avvenuta istituzione del c.d. trust liquidatorio e sulla rilevanza del medesimo, al fine di reputare integro il contraddittorio nel procedimento per la dichiarazione di fallimento e raggiunti gli effetti che con questo istituto la società ha voluto perseguire.
5. – Insussistenza della soggettività del trust. In ordine al sesto motivo, da trattare con priorità per ragioni d’ordine logico- giuridico, nessuna violazione degli art. 101 e 102 c.p.c., sussiste, per non essere stato convocato nel procedimento il trust, dal momento che, a tacer d’altro, questo non costituisce un soggetto a sè stante, ma un insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale.
Secondo l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, relativa alla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 364, per trust s’intendono “i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”, caratterizzato dal fatto che “i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee” venendo essi “intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee”, che ha il potere e l’obbligo, “di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”.
Come questa Corte ha già ritenuto (Cass., sez. 2^, 22 dicembre 2011, n. 28363, in tema di sanzioni amministrative relative alla circolazione stradale), il trust non è un soggetto giuridico dotato di una propria personalità ed il trustee è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, non quale “legale rappresentante” di un soggetto (che non esiste), ma come soggetto che dispone del diritto.
L’effetto proprio del trust validamente costituito è dunque quello non di dar vita ad un nuovo soggetto, ma unicamente di istituire un patrimonio destinato al fine prestabilito.
6. – Rilevabilità d’ufficio dell’illiceità. E’ infondato il settimo motivo del ricorso, perchè la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia o nullità dell’atto istitutivo del trust, su cui la società fallita pretende fondare l’insussistenza dei requisiti del fallimento, escluderebbe già la violazione dell’art. 112 c.p.c., da parte della sentenza impugnata (e si ricorda qui l’ampiezza della rilevabilità d’ufficio di tale vizio, secondo Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828); mentre, più precisamente, di non riconoscibilità si tratta (v. infra).
7. – Trust liquidatorio e insolvenza. Il quinto e l’ottavo motivo possono essere trattati congiuntamente, ponendo entrambi, sotto il profilo del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la questione della liceità ed efficacia del trust in esame e degli eventuali effetti della sua illiceità, ravvisata dalla corte d’appello, con riguardo al requisito dell’insolvenza della società al fine di fondare la dichiarazione di fallimento.
7.1. – La Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la citata L. n. 364 del 1989, quale convenzione di diritto internazionale privato, regola la possibilità del riconoscimento degli effetti in Italia ad un particolare strumento di autonomia negoziale proprio dei sistemi di common law, il trust. L’eventuale riconoscimento comporta che il trust sia regolato dalla legge scelta dalle parti o da quella individuata secondo le regole della stessa convenzione (art. 6-10); l’atto di trasferimento dei beni in trust resta, invece, regolato dalla lex fori (art. 4).
Peraltro, in ragione della estraneità dello strumento agli istituti giuridici di molti ordinamenti, la Convenzione dell’Aja contiene plurimi limiti di efficacia per il trust nell’art. 13, art. 15, comma 1, lett. e), artt. 16 e 18.
La prima norma, nell’ambito di quelle deputate proprio a regolare le condizioni del riconoscimento, prevede: “Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”. Essa è dunque rivolta agli Stati e costituisce una norma di preventiva chiusura.
Le altre, collocate fra le disposizioni generali, a loro volta prevedono alcune condizioni, e su di esse si tornerà oltre.
7.2. – Ciò che caratterizza in generale il trust, secondo la definizione dell’art. 2 della Convenzione, è lo scopo di costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato. I beni vengono separati dal restante patrimonio ed intestati ad altro soggetto, parimenti in modo separato dal patrimonio di quest’ultimo.
Quello enunciato costituisce, tuttavia, lo schema generale (se si vuole, la causa astratta) di segregazione patrimoniale propria dello strumento in esame, che si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari, e nel quale quindi un soggetto viene incaricato di svolgere una data attività per conto e nell’interesse di un altro, secondo un prestabilito programma ed in misura più continuativa e complessa rispetto al mandato; di conseguenza, ne sono sovente oggetto non solo singoli beni, ma anche un complesso di situazioni soggettive unitariamente considerato, come l’azienda, che viene intestata ad altri.
Tuttavia, il “programma di segregazione” corrisponde solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, la causa concreta del negozio, secondo la nozione da tempo recepita da questa Corte (tanto da esimere da citazioni). Quale strumento negoziale “astratto”, il trust può essere piegato invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici;
occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione: particolarmente rilevante in uno strumento estraneo alla nostra tradizione di diritto civile e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti all’elusione di norme imperative.
7.3. – Questa Corte ha avuto occasione di pronunciarsi su taluni profili dell’istituto: così Cass., sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022, sul trust familiare, qualificato munus di diritto privato, che si sostanzia non nel compimento di un singolo atto giuridico, bensì in un’attività multiforme e continua, peraltro arrestandosi la sentenza su profili di inammissibilità e riguardando un trust internazionale e non interno; Cass., sez. 2^, 8 ottobre 2008, n. 24813, che, nell’escludere ricorresse un patto successorio vietato ex artt. 458 e 589 c.c., in ordine alle disposizioni testamentarie poste in essere da due soggetti e dirette a costituire un’unica fondazione nominandola erede universale, ha riflettuto sulla tendenza alla progressiva erosione della portata del divieto dei patti successori, evidenziata, salvi i diritti dei legittimari, dal recepimento nella normativa nazionale dell’istituto di common law del trust; la già menzionata sentenza Cass., sez. 2^, 22 dicembre 2011, n. 28363, che ne ha negato la soggettività; Cass., sez. 6^-5, ord. 19 novembre 2012, n. 20254, la quale ha ritenuto necessario accertare se, in caso d’intestazione di beni immobili al trust, esso risponda anche a ragioni economico-sociali, o se invece non abbia l’esclusiva funzione di consentire un risparmio fiscale; sotto il profilo penale, Cass. pen., sez. 5^, 24 gennaio 2011, n. 13276 si è occupata della confisca dei beni in trust, qualora esso risulti una mera apparenza (il c.d. sham trust).
Non si è ancora pronunciata, invece, questa Corte sul trust liquidatorio.
E’ peraltro diffuso, presso i giudici di merito, l’orientamento secondo cui il c.d. trust liquidatorio segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale istituita per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione dell’azienda sociale – è nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., allorchè abbia l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali, secondo le espresse regole di esclusione previste dall’art. 13, e art. 15, lett. e), della convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985.
A questa tesi aderisce anche la sentenza impugnata.
Reputa la Corte che l’orientamento vada condiviso, con le precisazioni che seguono.
7.4. – Ove il trust intervenga con finalità di liquidazione del patrimonio sociale segregato, in astratto tre le situazioni che possono configurarsi: a) il trust viene concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società; b) il trust è concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa (c.d. trust endo-concorsuale); c) il trust viene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente (c.d. trust anticoncorsuale).
Nel primo caso, potrebbe dirsi lo strumento vietato, qualora si esiga che esso, per essere riconosciuto nel nostro ordinamento, assicuri un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell’autonomia privata nel diritto interno. Non sembra però che l’ordinamento imponga questo limite, alla luce del sistema rinnovato dalle riforme attuate negli ultimi anni, che ammettono la gestione concordata delle stesse crisi d’ impresa.
Nelle altre due fattispecie, poi, la causa concreta va sottoposta ad un vaglio particolarmente attento e, in caso di esito negativo, il trust sarà non riconoscibile, non potendo l’ordinamento fornire tutela ad un regolamento di interessi che, pur veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperative interne.
La ricerca di soluzioni alternative, che riescano a scongiurare il fallimento, è vista con favore dal legislatore degli ultimi due lustri, svolgendosi peraltro pur sempre tali iniziative negoziate sotto il controllo del ceto creditorio o del giudice; e qui potrebbe inquadrarsi il fenomeno sub b), nella logica di una valorizzazione negoziale, che non contraddice comunque la natura officiosa della procedura e la sua funzione di tutelare l’ordine economico, anche perchè la soluzione concordata non investirebbe tutte le fasi dell’accertamento dei crediti, dell’acquisizione dell’attivo, del riparto, ma solo taluni momenti specifici e tenuto, altresì, conto che le novelle fallimentari hanno ampliato l’ambito dell’autonomia negoziale (escludendo alcuni pagamenti dall’area di quelli revocabili, mediante i piani di risanamento attestati di cui alla L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d), il concordato e gli accordi di ristrutturazione L. Fall., ex art. 67, comma 3, lett. e), e potendosi prevedere trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse nell’ambito delle proposte di concordato fallimentare e preventivo L. Fall., ex art. 124, comma 2, lett. b), e art. 160, comma 1, lett. d)).
Al contrario, l’alternatività degli strumenti lecitamente utilizzabili va esclusa, qualora – come nel caso sub c) – non due istituti privatistici si comparino, ma strumenti di cui l’uno, quale il trust, ancorato a regole ed interessi comunque privati del disponente, e l’altro di natura schiettamente pubblicistica, qual è la procedura concorsuale, destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza a tutela della par condicio creditorum e che non è surrogabile da strumenti che (ove pure siano trasferiti al trustee anche i rapporti passivi) nè garantiscono tale parità, nè escludono procedure individuali, nè prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, nè contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale.
Del pari, altro è rispetto alle soluzioni negoziali delle crisi d’impresa il realizzare un’operazione – come il trasferimento in trust dell’azienda sociale – elusiva del procedimento concorsuale e degli interessi più generali alla cui soddisfazione esso è preposto: operazione che, sotto le vesti di attribuire ai creditori la posizione di beneficiari, non permetta loro la condivisione del governo del patrimonio insolvente, in una situazione per essi priva di utilità in ragione dell’insindacabile amministrazione del fondo in trust.
Ove, pertanto, la causa concreta del regolamento in trust sia quella di segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente, l’ordinamento non può accordarvi tutela. Il trust, sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell’attivo alla discrezionalità del trustee – determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa ed all’attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso.
7.5. – Ciò posto, occorre determinare le conseguenze di tale contrasto con i richiamati principi e discipline dell’ordinamento.
Come sopra accennato, secondo la Convenzione dell’Aja il trust è regolato dalla legge scelta dal disponente (art. 6) o, ma solo in mancanza di scelta, dalla legge con la quale ha collegamenti più stretti in dipendenza del luogo di amministrazione del trust, dell’ubicazione dei beni, della residenza o domicilio del trustee e del luogo in cui lo scopo va realizzato (art. 7), disciplinando la legge così determinata la validità, l’interpretazione, gli effetti e l’amministrazione del trust (art. 8).
Ove pertanto, come si desume nella specie dal ricorso, il trust sia regolato dalla legge di Jersey (Channel Islands), la validità del medesimo, se lo si vuole riguardare quale atto istitutivo, andrebbe vagliata alla stregua di quella disciplina (nata per permettere con una certa ampiezza il ricorso allo strumento fiduciario).
Ma al vaglio di validità secondo il diritto straniero prescelto è preliminare la formulazione di un giudizio di riconoscibilità del trust nel nostro ordinamento, nel raffronto con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali. E poichè il trust – secondo gli accertamenti di merito della sentenza impugnata, che ha ravvisato come esso fu costituito in una situazione di insolvenza – si palesa oggettivamente incompatibile con queste, lo strumento, ponendosi in deroga alle medesime, sarà “non riconoscibile” ai sensi dell’art. 15 della Convenzione.
Tale norma, invero, espressamente prevede che la Convenzione non possa costituire “ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi” in tema di “protezione dei creditori in caso di insolvenza” (ed applicandosi a società italiana disponente le disposizioni della legge fallimentare interna), e l’ultimo comma aggiunge che “qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo”, così dunque palesando che proprio al giudice compete, e proprio per i motivi elencati nel primo comma, denegare il disconoscimento (e che dar corso alla procedura fallimentare costituisce appunto un modo compatibile con l’ordinamento di realizzare il fine liquidatorio).
Non sembra invece potersi fare riferimento all’art. 13, che si rivolge allo Stato; nè all’art. 16, il quale richiama le norme di “applicazione necessaria”, ossia di norme della lex fori operanti come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto, e che dunque presuppongono il trust già riconosciuto nell’ordinamento, sebbene in parte regolato comunque da tali norme (“onde, in presenza di simili fattispecie, il giudice deve porre in disparte la regola di conflitto competente e fare spazio alla norma di applicazione necessaria nei limiti che essa stabilisce”: Cass., sez. 1^, 28 dicembre 2006, n. 27592; Cass., sez. un., ord. 20 febbraio 2007, n. 3841); lo stesso quanto all’art. 18, che riguarda specifiche disposizioni della stessa Convenzione.
La conseguenza è che il giudice che pronuncia la sentenza dichiarativa del fallimento provvede incidenter tantum al disconoscimento del trust liquidatorio, il quale finisce per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità dell’attivo societario; una volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un patrimonio separato, restando tamquam non esset; in tal caso, posto che la Convenzione ex art. 15 cit. non può costituire “ostacolo” all’applicazione della disciplina dell’insolvenza, è quest’ultima a porsi, all’inverso, come ostacolo al riconoscimento del trust.
La sanzione della nullità (ex artt. 1343, 1344, 1345 e 1418 c.c.) presuppone che l’atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento;
il conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale determina invece la stessa inesistenza giuridica del trust nel diritto interno.
Il trust deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo.
Dalla dichiarazione di fallimento deriva, quindi, l’integrale non riconoscimento del trust, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. e) della Convenzione, ponendosi esso oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio e per il fatto stesso che non consente il normale svolgimento della procedura a causa dell’effetto segregativo, il quale impedirebbe al curatore di amministrare e liquidare l’azienda ed, in generale, i beni conferiti in trust.
La non riconoscibilìtà permane, sebbene il trust indichi fra i suoi scopi proprio quello di tutelare i creditori dell’impresa ricorrendo alla segregazione patrimoniale ed alla liquidazione, per la denegata equivalenza delle due procedure.
Invero, l’insolvenza, come non è nelle fattispecie generali esclusa dalla mera capienza del patrimonio del debitore, così non è nella specie scongiurata dalla destinazione di quel patrimonio al soddisfacimento dei creditori. Ed infatti, ciò che può evitare la situazione d’insolvenza non è in sè l’istituzione del trust, ma, semmai, l’attuazione del programma, con l’avvenuto pagamento dei creditori e la soddisfazione delle obbligazioni originariamente in capo al debitore.
Nelle ipotesi in cui, come nel caso in esame, l’atto istitutivo contenga la clausola (riportata dalle parti) di risoluzione allorchè sopravvenga una vicenda concorsuale nei confronti della disponente (c.d. clausola di salvaguardia), essa resta inoperante, come tutto il negozio, privo in via assoluta di effetti in quanto non riconosciuto ab origine.
Ove, inoltre, la società sia stata cancellata dal registro delle imprese dopo l’istituzione del trust, essa è estinta ma, per quanto sopra esposto, ai sensi della L. Fall., art. 10, opera la fictio iuris dell’esistenza dell’ente: rispetto a questa va, pertanto, valutato il requisito dell’insolvenza.
In conclusione, il trust liquidatorio in presenza di uno stato preesistente di insolvenza non è riconoscibile nell’ordinamento italiano, onde il negozio non ha l’effetto di segregazione desiderato; l’inefficacia non è esclusa nè dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio (od equivalenti), nè dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore.
7.6. – Se l’atto istitutivo del trust è tamquam non esset, occorre poi considerare quale sorte abbia il trasferimento dei beni o dell’azienda operato in favore del trustee.
Secondo l’art. 4 della Convenzione, questa non si applica alle questioni preliminari relative alla validità degli “atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee”. Alla stregua, dunque, della legge interna, dal momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale (almeno dal punto di vista logico-giuridico, anche qualora contestuale) dell’attribuzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni, ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo ex art. 1418 c.c., comma 2, prima parte, perchè operato in esecuzione di negozio non riconoscibile).
In tal modo, il curatore, per effetto dello spossessamento fallimentare che priva il fallito della disponibilità di suoi beni, tra i quali sono da ricomprendere tutti i diritti patrimoniali inefficacemente trasferiti, può materialmente procedere all’apprensione di essi.
7.7. – La corte d’appello ha accertato, in punto di fatto, che il trust è stato costituito dalla società insolvente, affidando il ruolo di trustee allo stesso liquidatore sociale e che è mancato il compimento di qualsiasi concreta attività di liquidazione, non essendo indicate nel c.d. libro degli eventi quali di tali attività siano state avviate in favore dei creditori sociali.
Sulla base di tali elementi e degli altri rilevati – l’entità del debito nei confronti di Equitalia Sud s.p.a., gli infruttuosi tentativi di pignoramento, il ridotto attivo indicato dalla società per contestare il suo stato di insolvenza, l’immediata cancellazione della società dal registro delle imprese – la corte d’appello ha ravvisato il concreto pericolo che il trust sia stato utilizzato al solo fine di eludere la disciplina imperativa concorsuale.
La ricorrente contrappone (sotto il profilo del vizio motivazionale) la considerazione secondo cui, al contrario, una serie di indizi, che assume provati innanzi ai giudici di merito, rendevano palese la piena liceità del trust, ovvero: la segregazione dei beni conferiti rispetto al patrimonio personale del trustee e la costituzione del trust proprio a beneficio dei creditori; la condizione risolutiva apposta al trust per il caso di declaratoria di fallimento della società preponente; il compimento di varie attività liquidatorie;
l’avere il trust posto a disposizione del curatore tutto quanto in suo possesso. Ne deriva, nell’assunto, che non sussiste lo stato di decozione, anche tenuto conto della circostanza che, ove sia invalido e privo di effetti il trust, la conseguenza sarebbe l’attribuzione alla società del patrimonio conferito.
Le censure in esame sono in parte inammissibili, laddove, sotto la veste del vizio motivazionale, mirano a riproporre un giudizio sul fatto: come è reso evidente dalla stessa riproduzione, nel corpo del ricorso, di alcuni documenti, da cui dovrebbe trarsi la prova della liceità del trust. L’inammissibilità del sindacato di merito sulla decisione impugnata impedisce, tuttavia, alla Corte la conoscenza diretta dei documenti depositati dalle parti nei precedenti gradi, anche qualora essi vengano riprodotti mediante fotocopia all’interno del ricorso stesso; mentre il giudice del merito ha asserito essere rimaste indimostrate le predette circostanze.
Per il resto, alla stregua dei princìpi esposti, la sentenza impugnata non si presta a nessuna delle censure formulate; quanto alla coincidenza della persona del trustee con quella del liquidatore, se da un punto di vista formale non qualifica il trust come “autodichiarato” in ragione della alterità soggettiva, la circostanza è stata però correttamente assunta dalla corte del merito come indizio significativo della illiceità dell’atto, mancando nella sostanza un vero affidamento intersoggettivo dei beni.
8. In conclusione, il ricorso va respinto sotto ogni profilo. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite del giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascun controricorrente, in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 7 febbraio 2014.
Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2014

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